(*) di Tiziana Maiolo.

Nel 1996, quando ero Presidente della commissione giustizia della Camera, riuscii, grazie anche alla sapienza della mia collega e avvocata Tina Lagostena Bassi, a mettere all’ordine del giorno e infine arrivare all’approvazione della legge che trasformò la violenza sessuale da reato contro la morale in reato contro la persona e le sue libertà. Nessuno sa che io quella legge stavo per non votarla.

 

La presenza di tante donne, donne forti, in Parlamento è importante e di grande conforto non solo per tutto quanto il mondo femminile, ma anche e soprattutto per la difesa dei diritti individuali. Nessuno come un soggetto che ha subìto storica sottomissione sa specchiarsi negli occhi e nella vita distrutta di una donna che ha subìto violenza. Ma essere in così tante in Parlamento vuol dire anche saper trovare la capacità di andare oltre la protesta, e darsi e dare gli strumenti per combattere fenomeni degenerativi delle relazioni umane come lo stupro e il “femminicidio”. Sorvegliare e punire. Conoscere e deliberare.

 

“Codice rosso”, la proposta di legge che si sta discutendo in questi giorni alla Camera dei deputati, è un segmento di un percorso che viene da lontano e che necessitava di un adeguamento ai tempi, ai mutati rapporti tra i sessi, all’ingresso turbinoso delle tecnologie e dei social, che rendono subito tutto trasparente e pubblico. Gli stupratori ormai compiono due delitti, la violenza fisica e poi la distruzione della persona con la pubblicità data alle immagini del fatto. Fino a portare la donna al suicidio, come è purtroppo accaduto.

 

Giusto quindi deliberare ancora e ancora e ancora. Le donne lo stanno facendo. Ma la difesa dei diritti rischia troppo spesso di limitare la propria attività all’inasprimento delle pene. Il che, come la storia ci insegna ogni giorno, non ha mai fatto desistere nessuno dal ripetere lo stesso reato. Ancora e ancora e ancora. Pure le donne parlamentari non si arrendono. Ho un ricordo personale che ancora mi turba, dopo tanti anni. Quel giorno del 1996, quando da Presidente della commissione giustizia della Camera ero riuscita, grazie anche alla sapienza della mia collega e avvocato Tina Lagostena Bassi, a mettere all’ordine del giorno e infine arrivare all’approvazione della legge che trasformò la violenza sessuale da reato contro la morale in reato contro la persona e le sue libertà.

 

Un evento storico che unì tutte le donne del Parlamento e che fu mal digerito dai nostri colleghi, che mostravano insofferenza ai nostri discorsi e addirittura al momento della votazione si defilavano uscendo alla chetichella dall’aula. Pur di portare a casa il risultato fummo costrette a ricorrere all’astuzia femminile. Presi la parola dichiarando che avremmo voluto votare subito, consegnando i nostri testi scritti e rinunciando agli interventi orali. Fu a quel punto che la subcultura maschilista toccò il suo fondo, quando una voce dagli ultimi banchi gridò, in mezzo agli sghignazzi: “Ma chi ve l’ha chiesto l’intervento orale?”. Incredibile ma vero, ancora nel 1996, in piena “seconda repubblica”.

 

Quel che colpisce anche oggi è il fatto che siano di nuovo (e solo) le donne a dover legiferare su una violenza quotidiana che arriva spesso all’omicidio (femminicidio) e che mostra ogni giorno come il corpo della donna sia sempre al centro della necessità di affermazione del maschio. Si va dal barbarico “o sei mia o di nessun altro” fino al vanaglorioso “quella lì ci sta”. Se è vero che sono una minoranza gli uomini che non sanno controllarsi, è altrettanto vero che il fardello politico dell’occuparsene rimane ancora e sempre sulle spalle delle donne.

 

Significativa la bellissima foto di ieri delle deputate di opposizione che occupavano simbolicamente i banchi del governo per la mancata approvazione dell’indispensabile norma sul “revenge porn”, lo sputtanamento in internet dell’intimità di una donna. Su quegli scranni non c’era un uomo. Timidezza? Disinteresse? O nella mente qualche frase volgare come quella del mio collega di tanti anni fa?

 

La conseguenza di questa appartenenza quasi corporativa del tema a un solo genere ha conseguenze negative anche sul piano del legiferare. Stimolo per un attimo ancora il ricordo di quel 1996. Nessuno sa che io quella legge stavo per non votarla, pur avendola voluta con tanta forza.

 

Il fatto è che vivevo la contraddizione di aver fatto approvare una norma che aveva dovuto bilanciare la conquista di un diritto – se mi tocchi hai violato la mia libertà, non la morale corrente – con un forte inasprimento delle pene, in alcuni casi, come nella violenza di gruppo, una lesione di alcuni diritti individuali. Non ci avevo dormito la notte. Poi ho votato una legge che non mi piaceva. Non mi piace del tutto neanche “Codice rosso” nella parte della quantificazione delle pene.

 

E mi domando se almeno una delle parlamentari (c’è qualche vecchia amica, come Stefania Prestigiacomo e Valentina Aprea e Jole Santelli) che la settimana prossima voteranno la legge sappia bene che cosa vuol dire privare della libertà per 24 anni qualcuno che ha avuto comportamenti gravissimi pur senza aver ucciso o compiuto stragi.

 

È la contraddizione di noi donne, che spesso vogliamo vendetta proprio perché, noi o le nostre sorelle di genere, ne abbiamo sopportato tante. Per tutto ciò io oggi penso che sarebbe il momento degli uomini. Le scrivano loro le leggi che puniscono i loro simili. Sono sicura che lo farebbero con maggiore distacco, quindi meglio. Perché non è giusto chiedere sempre alla vittime come si debbano punire i loro carnefici.

 

(*) di Tiziana Maiolo. Fonte: Il Dubbio, 30 marzo 2019