“Tutti mi dicono che qui è tutto falso… per me quel giorno mi risulta che abbiamo fatto quello, perché quello abbiamo fatto… Santino, tu puoi dire questo qua però rifletti pure che comunque chi stava con te metti in mezzo ai pasticci”.

 

Siamo nell’aprile del 2008, Serena Mollicone è morta da sette anni e una settimana prima il brigadiere Santino Tuzi è andato dai magistrati a raccontare di aver visto la 18enne entrare nell’alloggio in uso alla famiglia di Franco Mottola, il suo comandante della stazione di Arce, e di non averla più vista uscire.

 

 

Una dichiarazione potenzialmente devastante per smascherare le bugie e i depistaggi sopravvissuti fino ad allora. Così, il collega di Tuzi, maresciallo Vincenzo Quatrale, si rende disponibile a far installare sulla sua auto un microfono per offrire ai pm dell’epoca una verifica sulla veridicità di quanto dice il collega in contraddizione alla versione ufficiale fino ad allora circolata. Scopo di quella conversazione, in realtà, è indurre Tuzi a ritrattare per non mettere nei guai lo stesso Quatrale e il comandante Mottola.

 

È una delle rivelazioni contenute nell’avviso di chiusura indagini con cui ieri, a un mese e mezzo dal 18esimo anniversario del presunto delitto, la Procura di Cassino (su indagine dei carabinieri di Frosinone) si appresta a chiedere il processo per i cinque indagati. Mottola è accusato dell’omicidio di Serena assieme alla moglie Anna e al figlio Marco e a Quatrale.

In particolare, i due carabinieri sono accusati di non aver impedito “l’evento morte” pur essendo in potere di farlo. Per le stesse ragioni, Quatrale risponde anche dell’omicidio e dell’istigazione al suicidio di Tuzi perché con quel confronto in auto “esercitava – scrive il pm Beatrice Siravo – una pressione diretta a fargli sorgere il proposito di suicidio”, che avverrà tre giorni dopo.

In un’altra intercettazione Quatrale dirà di aver visto il collega “stonato”, ma nondimeno gli ventilò l’ipotesi di finire indagato per l’omicidio, dato che nessuno gli avrebbe creduto.

 

Un altro carabiniere, il brigadiere Francesco Suprano, di piantone quel giorno, è indagato per favoreggiamento. Avrebbe aiutato gli assassini sia affermando il falso quando disse a verbale che nelle ore del delitto era di pattuglia assieme a Mottola, sia accreditando l’ipotesi che Tuzi mentiva sulla presenza di Serena in caserma, sia soprattutto, nascondendo per due anni la porta contro cui la testa della ragazza venne sbattuta fino a farle perdere i sensi e prima di essere legata, imbavagliata e lasciata morire in un campo. “Temevo una causa per risarcimento danni”, è la giustificazione offerta quando si scoprì che aveva scambiato la porta degli alloggi della famiglia Mottola con una del suo bagno.

 

18 aprile 2019- Fonte: Corriere della Sera on line