Fra rampanti e ruspanti

(di Stelio W. Venceslai)

Il dibattito politico s’isterilisce ogni giorno di più. Neppure l’imminenza delle elezioni europee, da cui tutti si aspettano grandi cose, sembra attirare l’attenzione sui temi fondamentali della ristrutturazione dell’Unione europea, che pure tanto spazio polemico hanno registrato qualche mese fa.

È caduta l’idea di uscire dalla Comunità, propugnata dal Movimento 5Stelle e, larvatamente, dalla Lega. L’esperienza negativa della Brexit e della fatalità delle sue conseguenze ha messo sull’avviso. Non è così facile, non è così conveniente. È una sciocchezza pericolosa nel contesto internazionale e, giustamente, non se ne parla più. Non abbiamo bisogno di essere un altro vaso di coccio tra vasi di ferro.

L’opposizione all’euro, un’opposizione solo ideologica, è anch’essa finita miseramente. Nonostante tutto, l’euro regge e la BCE ha fatto egregiamente il suo mestiere, pur nella mancanza di una politica economica e finanziaria comune.

Non sembra, poi, far molta presa la proposta di un asse sovranista europeo, contraddittorio per sua stessa natura. Nello scenario comunitario, il sovranismo si pone come un rigurgito dell’idea di uno Stato arbitro assoluto delle proprie politiche, il che non avrebbe nulla a che vedere con il principio stesso di una comunità di Stati.

Resta il populismo, termine ambiguo nel quale si esprime confusamente la protesta di chi vorrebbe qualcosa di più e di migliore e detesta le vecchie facce e gli slogan consunti. Una risposta dovrà essere data a questa esigenza diffusa, ma non c’è alcuna proposta, neppure irrealistica.

Il fatto è che d’idee performanti, al momento, non se ne vede nessuna.

Queste elezioni non saranno decisive per le sorti dell’Europa, checché ne pensino i media. Ne risulterà probabilmente un diverso equilibrio fra i gruppi parlamentari attuali, ma nulla di più, sempre che si modifichino le competenze istituzionali del Parlamento europeo.

Il problema vero è che fino a quando decideranno gli Stati membri all’unanimità, la comunità degli Europei non esisterà. Tutto il resto è noia giuridico-burocratica.

Queste elezioni potrebbero, invece, essere decisive per gli assetti interni dei vari Paesi membri.

Il primo caso è quello britannico. Incerta fino all’ultima la partecipazione alla competizione elettorale, tutto dipenderà da come si comporterà l’elettorato, se interessato o indifferente. Sarà un altro test sull’Europa, se non si vuol fare un altro referendum.

Poi viene il caso ungherese. Difficile pensare che Orban possa essere sconfitto. Più invivibile, per contro, sarà la situazione del gruppo parlamentare del PPE, a Strasburgo, date le esitazioni ad espellere i deputati di Orban dal gruppo.

In Francia, poi, la situazione è particolarmente fluida. Il partito della Le Pen è sempre molto seguito. Non è riuscito a dare lo scossone alla Presidenza della Repubblica, ma l’esperimento Macron è un po’ alle corde, con una politica estera equivoca, tranne che per l’accordo con la Germania, e per la protesta pressoché permanente e inquietante dei gilet gialli, che ogni settimana devastano Parigi e le altre città francesi.

In Germania, l’ascesa del partito della destra ai danni della CDU della Merkel non è tale da pregiudicare la leadership tedesca in Europa. Non sarà dalla Germania che verranno sussulti innovativi per l’Unione.

In Slovacchia, la nuova Presidente è chiaramente orientata in funzione europea, come d’altronde in Austria, dove generalmente si seguono gli orientamenti di Berlino.

In Spagna, dopo il recente successo della sinistra, non c’è da aspettarsi grandi novità. Il resto dei movimenti populisti in Europa è poca roba.

Tutto ciò, poi, è indirettamente condizionato dalle prossime elezioni americane. Se Trump sarà confermato, ne vedremo delle belle, ma se sarà oggetto d’impeachment o se non sarà riconfermato, cambierà tutto lo scenario, anche in Europa.

Decisive, invece, ma sul piano interno, potrebbero essere le elezioni europee in Italia. Tutti si aspettano grandi novità ma, forse, ce ne saranno meno del prevedibile.

La grande questione è se il previsto successo elettorale della Lega e del centro-destra in genere sarà tale da provocare una crisi di governo.

Analizzando la situazione, Forza Italia perderà ancora voti e deputati, Fratelli d’Italia supererà probabilmente il 5%, ma è sempre troppo poco perché sia significativa. A sinistra, il PD continuerà a perdere voti, non tanti quanto molti possono sperare ma certamente l’exploit avuto con Renzi non si ripeterà. Quindi, la rappresentanza italiana di sinistra si ridurrà in modo sensibile. Non sembra, poi, che le lamentazioni politiche del nuovo Segretario del PD suscitino particolari entusiasmi nell’elettorato.

Cos’altro resta? Forse il gruppo liberal-democristiano ha qualche chance ma non tali da assicurare qualcosa di più della sopravvivenza. Come nel PD, anche qui le lacerazioni e le duplicazioni sono continue e ciò disturba l’elettorato, affamato di prospettive nuove e sempre più laico. Quali?

Il governo non cadrà. Troppi sono gli interessi a stare litigiosamente assieme. Al massimo, se ci fosse una débacle del Movimento 5Stelle, invischiato in regole assurde, rete web e piattaforma Rousseau, potrebbe esserci un rimpasto per dare maggior peso governativo alla Lega, indicata da tutti come la preferita dall’elettorato.

La Lega vincerà quasi certamente, ma è una Lega senza una testa pensante e senza programmi europei alternativi. Non si sa nulla di ciò che vuole e, forse, non si saprà nemmeno dopo.

In conclusione, è probabile che le cose continueranno come prima. Molti inconciliabili dissensi composti poi su concessioni reciproche, molte speranze di dissoluzione da parte dell’opposizione, ma sostanzialmente una morta gora fino al momento della verità: come conciliare la botte piena di debiti e la moglie ubriaca piena di presunzioni al momento della prossima finanziaria autunnale.

Fra una Lega rampante e un 5Stelle ruspante c’è poco da stare allegri sull’avvenire nostro e dell’Europa.

 

 

Roma, 06/05/2019