La Corte di Assise della Università della Terza Età ha confermato la condanna a morte di Antonio Bottillo
l’ex monaco che uccise il suo padrone
Michele Visconti a coltellate
e strangolò la figlia Rosina di 18 anni.
Il duplice delitto accadde a Santa Maria Capua Vetere nel 1870
Il processo è stato rievocato venerdì 17 maggio alle ore17, presso la Università della Terza Età in Santa Maria Capua Vetere, nella sede di via Tari. Grazie al ritrovamento del carteggio originale da parte del giornalista Mauro Nemesio Rossi (in apertura del dibattimento dopo il saluto del Presidente dell’Unitrè, Bartolomeo Valentino e dopo una breve premessa di Rossi è iniziato il simulacro del processo che è stato rivisitato in una edizione inedita elaborata dal cronista giudiziario Ferdinando Terlizzi.
Le cronache dell’epoca raccontano che Antonio Bottillo, 37 anni, da Cervinara, ex monaco terziario nel convento dei Francescani a Napoli, dopo aver sedotta una minorenne, era fuggito da Napoli e venuto a Santamaria era stato assunto come servitore presso la ricca famiglia dei Visconti.
Il 14 luglio del 1870, una mattina, appunto verso le sette, appena abbrustolito il caffè, aggredì e uccise a coltellate il suo padrone Michele Visconti; poi, recatosi nella camera da letto dove dormiva strangolò la figlia Rosina, una giovanetta di appena 18 anni.
Dopo il duplice delitto scavò una fossa nella cantina di casa e vi seppellì i due cadaveri. Motivo? Il padrone gli aveva detto che non sapeva cucinare e lo aveva minacciato di licenziamento.
Per occultare il suo duplice omicidio il Bottillo a chi cercava notizie sulla scomparsa dei Visconte narrava che i due erano andati per un certo tempo in vacanza a Napoli e facevano i bagni tra Lucrino e Ischitella e che lui li aveva accompagnati fino all’angolo di Corso Garibaldi per aiutarli nel peso del loro baule.
Per accreditare ancora di più la tesi dell’allontanamento volontario aveva fatto sparire gli indumenti dei due, sottratto ori e fedi di credito del Gran Libro del Debito Pubblico del Regno d’Italia, per vari milioni, che aveva ricettato poi presso un personaggio napoletano coinvolto nel processo, tale Giovanni La Ruffa.
La Sezione di Accusa non ritenendo affatto vere le circostanze inventate al solo scopo di mettere in campo una provocazione contestò al Bottillo il reato di duplice omicidio aggravato dalla premeditazione (il secondo delitto eseguito per assicurarsi l’impunità del primo) il furto di vari oggetti e denaro, il tutto aggravato dalla sua qualità di servitore. Allo stesso tempo venne incriminato il ricettatore presso il quale furono rinvenuti gli oggetti.
Il relativo processo – definito dalla stampa dell’epoca – “uno dei processi più celebri ed interessanti nei fasti della giustizia penale”- si svolse nel 1871 presso la Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere di cui era Presidente Francesco Santamaria; la pubblica accusa venne sostenuta dal pubblico ministero, il procuratore generale Cesare Oliva; gli avvocati difensori, per Bottillo furono Pietro Rosano (allievo di Nicola Amore) e Francesco Girardi (allievo di Leopoldo Tarantini); per il ricettatore napoletano l’avvocato Niccola Mottola. La privata accusa fu sostenuta dall’avvocato Francesco D’Amore (unico avvocato sammaritano amico di famiglia delle vittime).
Nella ricostruzione storica gli interrogatori dell’imputati sono stati rievocati da Gennaro Stanislao. Come hanno evidenziato gli stessi il Bottillo ha tentato di accreditare prima una tesi di innocenza poi ha ammesso di aver ucciso il suo padrone la figlia ma ha tentato con ogni scusa di giustificare il delitto in seguito alla provocazione del padrone che lo aveva prima minacciato di licenziamento e poi schiaffeggiato.
Gli interessanti interrogatori di tutti i testimoni sono stati presentati da Salvatore Romano. Tutti cittadini sammaritano dell’epoca:
Maria Sticco, moglie separata e madre naturale della Rosina Visconti; il commissario di polizia, Achille Magliano; l’ex cuoco della famiglia Visconti, il napoletano Pasquale Zarlengo; il medico di famiglia Dr. Pietro Morelli (forse quello a cui poi è stata intitolata una strada a Santamaria); il calessiere, o cocchiere, Raffaele Avenia, che condusse in carrozza il Bottillo a Napoli; il sacerdote Raffaele Fratta; i barbieri Abramo Pagano e Aniello Bizozzero; la capera, Caterina Cipullo, che curava i capelli della giovane Visconti; Padre Salvatore Candido, da Napoli, che svelò le precedenti disavventure del monaco (stupratore, vinaio, rapinatore); i suoi ex servitori, Nicola Manone e Giovanni Teti; Giulia Della Corte, amica della giovane uccisa; Teresina Bobbio e Rachele Panaro, altre amiche della vittima. L’apprendista notaio Enrico Code, che la mattina del delitto aveva un appuntamento con Michele Visconti per discutere di alcune rendite.
La privata accusa è stata sostenuta da Antonietta Barbato, la quale, con la sua forbita eloquenza, il suo linguaggio sciolto il suo atteggiamento teatrale ha incantato gli astanti trattenendoli per vario tempo e distribuendo una vasta empatia tra il folto pubblico che gremiva l’aula.
Non meno scenografica e coinvolgente la requisitoria della pubblica accusa, impersonata nel ruolo del procuratore generale da Francesco Pecoraro; egli, pur essendo alla sua prima esperienza giudiziaria ha dato il segno di una vasta preparazione oratoria e di una profonda volontà di accusatore.
La parte più difficile, quella dell’avvocato difensore dell’imputato è stata sostenuta da Francesco Tavera. E’ stata una bellissima arringa; il Tavera, con termini appropriati e con una rimarcante sceneggiatura, pregna di segni e di finzioni, ha tenuto con il fiato sospeso l’uditorio, tentando in ogni modo di sottrarre il suo assistito alla pena di morte. Come tutti gli avvocati difensori, ha cercato di instaurare il dubbio nella mente dei giurati. Fuori scena ha meritato anche gli applausi.
Il compito di condurre il dibattimento è stato di Ferdinando Terlizzi che, con la sua lunga esperienza di cronista giudiziario (il 16 maggio ha festeggiato 82esimo compleanno) ha svolto il ruolo di Presidente di Corte di Assise, con zelo e competenza. Lo stesso ha poi spiegato al pubblico in aula che quando nel 1871, i giurati si ritirarono in camera di consiglio alle questioni loro presentate risposero affermativamente ritenendo i due imputati colpevoli secondo l’accusa. Il Bottillo cioè di due assassini per premeditazione in persona del padre e figlia Visconti, e colla qualifica bensì di essere stato il secondo, commesso allo scopo di occultare il primo. Il La Buffa poi di ricettazione di oggetti furtivi senza precedente concerto coll’autore del furto. A costui furono accordate le circostanze attenuanti. La Corte condannò il primo alla pena di morte ed il secondo a 4 mesi di carcere computandosi il carcere già sofferto.
Non appena il presidente ebbe letta la sentenza colla quale al Bottillo veniva comminata la pena di morte, s’intese nella sala un vivo mormorio di gioia e molti applausi.
Il Presidente allora diè immediatamente ordine ai Carabinieri di fare sgombrare la sala, rivolgendo al pubblico le seguenti gravi parole: “Questa gioia feroce è indegna di un popolo civile”.
Eseguito l’ordine si lesse il resto della sentenza. Il condannato Antonio Bottillo protestò subito di ricorrere in Cassazione, e come egli disse di volere appellare per Napoli, rinunciando al Circolo di S. Maria.