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Il Far West dei rifiuti. Roghi al Nord, cumuli al Sud. Ma per chi li muove sono affari d’oro. Ne produciamo 165 milioni di tonnellate all’anno e non riusciamo a smaltirle: in Campania le ecoballe sepolte dal 2001 sono una montagna più grande del Principato di Monaco.
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Il Far West dei rifiuti. Roghi al Nord, cumuli al Sud. Ma per chi li muove sono affari d’oro. Ne produciamo 165 milioni di tonnellate all’anno e non riusciamo a smaltirle: in Campania le ecoballe sepolte dal 2001 sono una montagna più grande del Principato di Monaco.
E da Roma in giù mancano gli impianti di compostaggio. L’emergenza inquinamento: causano anidride carbonica quanto l’intera flotta Alitalia nel mondo.
Un serpentone di spazzatura largo più di un metro e lungo 7.700 chilometri dorme placidamente da almeno dieci anni sui terreni di quella che un tempo chiamavano Campania Felix. L’ultima ecoballa è stata depositata nell’agosto 2009, ma era solo l’estremità della coda. La testa del serpente invece sta lì dall’inizio del 2001, quando all’ottavo anno dell’emergenza rifiuti iniziata nel 1994 si prese la decisione di stoccare nelle campagne gli enormi pacchi di rifiuti destinati a inceneritori che non c’erano. In nove anni ne hanno accatastati per 5 milioni e 700 mila tonnellate formando montagne che occupano una superficie grande una volta e mezzo il Principato di Monaco. Più di quattro milioni e trecentomila ecoballe, che messe in fila coprirebbero la strada che ci vuole per raggiungere in macchina da Trieste la città di Uliastaj, in Mongolia. Il bello è che a un quarto di secolo dall’inizio dell’emergenza rifiuti e a dieci anni esatti dall’ultimo carico, sono ancora tutte lì. E ci avevano promesso anche che l’emergenza sarebbe finita per sempre, da Berlusconi a Prodi, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni: invece in questi giorni sono tornati perfino i roghi a Napoli e dintorni come ai tempi della terra dei fuochi. Mentre ancora la Campania è alle prese con le vecchie ecoballe.
Per smaltirle la Regione ha creato nel 2015 una “Struttura di missione” e poi ha fatto un piano stralcio per portare fuori dai confini campani 962.204 tonnellate. Al 20 maggio 2019 risultavano rimosse poco più di 342 mila tonnellate per essere bruciate. Ma è qui che si scopre il disastro causato da quella follia. Perché dopo tutto quel tempo le ecoballe non bruciano più. Il contenuto è per circa il 60 per cento polverizzato, con il rischio di danneggiare gli impianti. E a questo punto c’è solo una soluzione, per quanto inconcepibile possa sembrare. Dopo averle impacchettate una per una, ora bisogna aprirle una per una recuperando la plastica che le avvolge e il filo di ferro che le tiene insieme. Quindi tirare fuori la parte che ancora si può bruciare, e bruciarla. Operazione non facile. Per spacchettare quello che era stato impacchettato bisogno di un impianto specifico, già ribattezzato (non è uno scherzo) “rompiballe”. Lo stanno facendo a Caivano, una ventina di chilometri da Napoli.
Altri soldi pubblici, dopo i cinque miliardi che già ci è costata l’emergenza della Campania. E non ti abbandonano il sospetto che sia tutto studiato, per restare quanto più possibile attaccati alla mammella dello stato. Impacchettare milioni di ecoballe, con costi astronomici, per poi spacchettarle di nuovo, a costi altrettanto astronomici. Nel mezzo, farle stazionare per anni su terreni in aree a elevata densità camorristica spesso passati stranamente di mano prima di essere affittati al pubblico. Che ogni anno spende 2 milioni per il parcheggio delle ecoballe. Senza dire degli effetti collaterali. Perché proprio dal 2015 per com’è stata gestita in modo scriteriato quella faccenda, ha ricordato mesi fa il deputato di +Europa Riccardo Magi, paghiamo 120 mila euro al giorno di multa all’Unione europea. Fino a oggi, siamo sui 180 milioni già sborsati. Ma tanto chi si ricorda più di quelle montagne di spazzatura accatastate a Taverna del Re? Dopo tanti anni nemmeno puzzano più. Come il denaro. Il denaro che muove tutto.
Mentre in Campania l’enorme monumento alla follia e allo spreco giace immobile, ogni giorno 115 mila tonnellate di spazzatura scorrono nelle vene del Paese, da Capo Passero a Bolzano. Nell’Italia senza regole, dopo decenni di mancata pianificazione e di far west regionale, l’immondizia gira da una discarica all’altra, da una regione all’altra, dal Sud verso Nord, e ancora verso il Nord Europa. Ma ai padroni dell’immondizia, grandi compagnie o califfati locali, imprenditori puliti o legati alle mafie, va bene così. Per l’ambiente è una ferita micidiale, per loro soltanto affari. In fondo, non è anche questo ciò che gli economisti chiamano Pil, “Prodotto interno lordo”?
L’Italia produce 165 milioni di tonnellate all’anno di spazzatura. Un affare da 28 miliardi di euro, quasi due punti del Pil di un Paese che da un paio di decenni ha smesso di crescere. E undici di questi ventotto miliardi li pagano i cittadini con la Tari. La tassa locale che è rincarata di più dal 2009 a oggi: 50 per cento al Nord, 64 per cento al Centro e addirittura 88 per cento al Sud.
Ogni anno, dice Assoambiente, si muovono 1,7 milioni di tir puzzolenti che trasportano 42 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e speciali verso gli impianti (pochi) che li smaltiscono in Italia e verso i grandi inceneritori dell’Europa. Tir fetidi che hanno percorso lo scorso anno 1,2 miliardi di chilometri: 30 mila volte il giro del mondo. Producendo 1,1 milioni di tonnellate di Co2. Quasi la stessa quantità di anidride carbonica, secondo uno studio della Commissione europea, rilasciata nell’aria da tutta la flotta Alitalia in un anno. Con una piccola differenza: Alitalia ha disperso questo veleno nei cieli di tutto il mondo, i tir nella nostra aria.
Una catastrofe ecologica quotidiana. E pensare che per alcuni tale calcolo rischia di essere anche pesantemente ottimistico. Il deputato grillino Alberto Zolezzi, componente della commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, ha condotto con Unioncamere uno studio sui viaggi dei rifiuti e spara cifre ben diverse. “Secondo le nostre stime ogni anno si muovono 80 milioni di tonnellate di rifiuti che percorrono 8 miliardi di chilometri”. Otto miliardi di chilometri, otto milioni di tonnellate di Co2. Conti alla mano, circa due volte le emissioni dell’Ilva di Taranto.
Assurdo. Ma perché l’immondizia viaggia così tanto? Dopo decenni di deregulation, di competenze passate alle Regioni sull’onda federalista che ha colpito la politica dagli anni Novanta, non esiste più alcuna pianificazione nazionale sugli impianti di smaltimento, su come trarre energia dall’immondizia e sulle filiere del riciclo. Nella foga federalista la pianificazione è stata demandata alle Regioni e in alcuni casi ad enti ancora più piccoli, Province o Ambiti ottimali.
Il risultato? Un Paese spaccato in due, e il flusso di spazzatura da una parte all’altra del Paese è inarrestabile. Dei 285 impianti di compostaggio funzionanti in Italia, al Nord ve ne sono 178. La Lombardia ne ha 65 mentre la Sicilia appena 17. I centri del grande consorzio del riciclo Conai sono in tutto 588: 427 al Centro-Nord e soltanto 161 al Sud. E gli odiati termovalorizzatori? Sui 49 in funzione, 28 sono al Nord, 13 al Centro e soltanto 8 al Sud: zero in Sicilia. Con le discariche, invece, andiamo forte. Nonostante le multe e gli ultimatum dell’Unione Europea in materia, ce ne sono 123: 51 al Nord, 27 al Centro e 45 al Sud. Quelle censite, ovvio. Perché le discariche abusive sono una costante nel panorama italiano.
In Sicilia solo da qualche anno le grandi discariche hanno impianti di trattamento all’ingresso e poche hanno sistemi di raccolta del percolato, la sostanza putrida che si crea dai rifiuti. A Messina, nella discarica di Mazzara Sant’Andrea, il percolato sceso da una montagna d’immondizia alta 50 metri ha inquinato il fiume che vi scorre accanto. A Bellolampo, la collina dell’immondizia che sovrasta Palermo, il percolato viene sì raccolto, ma poi smaltito dopo un lungo viaggio a Gioia Tauro con costi enormi.
Il trasporto dell’immondizia, ecco il grande affare. Come dimostra il caso di Roma, da cui ogni giorno partono 180 tir carichi di spazzatura che viene distribuita in giro per l’Italia. Fino al Friuli-Venezia Giulia. La ragione è sempre la stessa: la carenza degli impianti e la loro collocazione. Con il risultato di causare situazioni apparentemente assurde. Ci sono Regioni dove si lucra perfino sul commercio dei rifiuti, che vengono accolti a un determinato prezzo e poi girati a una terza Regione ancora in cui le tariffe di smaltimento sono più basse. Succede per esempio, dice Zolezzi, in Emilia Romagna.
Inutile dire che qui c’è di tutto. E non potrebbe essere diversamente, considerato che negli ultimi dieci anni questo “mercato” che asfissia il Paese è cresciuto del 20 per cento. A maggio venti persone sono state arrestate perché avevano messo in piedi un sistema illegale di trasporto dalla Campania verso il Veneto e la Toscana. In corso a Milano è un processo che vede coinvolti i principali clan della ‘ndrangheta, come i Barbaro-Papalia e i Paparo. In altri casi, offrendo trasporto e smaltimento, imprese in odor di mafia hanno ricevuto commesse milionarie: in Sicilia gli imprenditori Paratore, per la procura di Catania legati ai Santapaola, grazie all’intermediazione di un imprenditore campano vicino alla camorra hanno ottenuto l’appalto per lo smaltimento del polverino dell’Ilva. In una discarica, a Melilli, che non poteva accogliere questi rifiuti.
Se l’affare dei trasporti nasce dalla mancanza di impianti al Sud, al Nord è in corso una riedizione della terra dei fuochi. Diversa, però. La terra dei fuochi campana è il sistema con cui le piccole fabbriche illegali di tessuti, false griffe e altri prodotti smaltiscono i rifiuti industriali. Senza che nessuno vada alla fonte del problema, preoccupato non per la salute dei cittadini ma di mettere in crisi il Pil criminale: dal primo gennaio di quest’anno i cittadini di quelle zone hanno già segnalato 1.217 sversamenti illeciti. Al Nord, invece, vanno a fuoco capannoni stracolmi di plastica, impianti di stoccaggio e centri di trasferenza della differenziata. Cosa sta accadendo lo spiega Claudia Mannino dei Verdi: “La Cina non vuole più i nostri rifiuti, differenziati e non, perché di pessima qualità. Dal 2010 ha chiuso duemila centri di smaltimento. Di fatto ha chiuso le frontiere”. La conseguenza è che adesso le aziende italiane che si occupano di riciclo non sanno più dove mandare questi rifiuti. Ma c’è di più: alcune norme del decreto cosiddetto sblocca cantieri hanno complicato le procedure. Così i rifiuti differenziati e speciali si ammassano giorno dopo giorno nei capannoni delle ditte specializzate, che hanno sede soprattutto al Nord. Talvolta basta un nulla in un impianto stracolmo per creare un incidente. Quando non c’è qualcuno che appicca il fuoco. I numeri degli incendi negli ultimi due anni sono impressionanti. Mannino tiene un conto aggiornato. Ad oggi siamo a quota 628 incendi, tra discariche, impianti e altro ancora. L’ultimo importate e vasto qualche settimana fa, nei locali di una ditta di stoccaggio a Settimo Milanese: “Proprio mentre stavamo facendo in quella zona delle audizioni della commissione di inchiesta”, racconta Zolezzi. Per non parlare di quello che è successo a Roma, dove l’impianto più grande dell’Ama nella zona del Salario è andato a fuoco di notte con l’allarme scattato in ritardo mentre le telecamere di sorveglianza erano fuori servizio. Contribuendo a gettare la capitale nel marasma.
E adesso spunta un’altra emergenza. Alla quale rischiano di dare un serio contributo i sacchetti ecologici per la raccolta differenziata dei rifiuti organici. Quei sacchetti, perché anch’essi di natura organica, dovrebbero essere smaltiti negli impianti di compostaggio insieme al loro contenuto. Peccato che il tempo di smaltimento sia decisamente più lungo di quello dei rifiuti organici. Così il compost, il concime prodotto da quel processo che esce dagli impianti, risulta pieno di frammenti di plastica: organica, ma pur sempre plastica. Questo, naturalmente, nella migliore delle ipotesi. La faccenda del compost che finisce sui terreni non può dunque non preoccupare seriamente. Fatto sta che dopo un’inchiesta del sito Fanpage sulla Sesa, ditta di compostaggio padovana fra le più grandi del Paese, il caso è deflagrato. Le lavorazioni del compost sono state ridotte e qualche Comune ha già disposto che la frazione umida dei rifiuti finisca in discarica. E si riparte dall’inizio…
Fonte: di ANTONIO FRASCHILLA e SERGIO RIZZO. Corriere della Sera on line (1.continua)