Non cancelliamo il diritto ai diritti
Ecco il significato che Hannah Arendt attribuisce a quella sua espressione. La privazione del diritto di avere diritti “si manifesta soprattutto nella privazione di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto.
Un’espressione particolarmente densa di significato, usata per la prima volta da Hannah Arendt con riguardo alla condizione in cui si trovò il suo popolo, il popolo ebraico, nell’Europa nazi-fascista e nazionalista, nei venti anni dei decenni 1930-1940, è “diritto di avere diritti” ed è entrata nel nostro lessico politico e giuridico soprattutto a opera di Stefano Rodotà che ne ha fatto il titolo di un suo importante libro del 2013.
Questo trapianto da quel tempo al nostro ha comportato un mutamento del significato originario, anzi una sua adulterazione. Coloro che oggi denunciano la banalizzazione del discorso sui diritti, la sua enfasi ideologica, la tendenza a trasformare i più disparati interessi particolari in nuovi diritti senza considerare gli effetti disgregatori della compagine sociale che l’eccesso può comportare, costoro intendono quel motto come una sorta di pericoloso moltiplicatore automatico.
Ecco il significato che Hannah Arendt attribuisce a quella sua espressione. La privazione del diritto di avere diritti “si manifesta soprattutto nella privazione di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto.
Qualcosa di molto più essenziale della libertà e della giustizia, che sono diritti dei cittadini, è in gioco quando l’appartenenza alla comunità in cui si è nati non è più una cosa naturale e la non appartenenza non è più oggetto di scelta; quando si è posti in una situazione in cui […] il trattamento subito non dipende da quel che si fa o non si fa [ma da quel che si è].
Questa situazione estrema è la sorte delle persone private dei diritti umani. Esse sono prive non del diritto alla libertà, ma del diritto all’azione; non del diritto a pensare qualunque cosa loro piaccia, ma del diritto alla “opinione”.
Non contano niente. Sono soltanto un peso. Ci siamo accorti dell’esistenza di un diritto ad avere diritti […] solo quando sono comparsi milioni di persone che lo avevano perso e non potevano riacquistarlo a causa della nuova organizzazione globale del mondo.
Questa sventura non derivava dai noti mali della mancanza di civiltà, dell’arretratezza e della tirannide; e non le si poteva porre rimedio perché non c’erano più sulla terra luoghi da “civilizzare” perché, volere o no, vivevamo ormai realmente in un “unico mondo”.
Questa ultima annotazione circa “l’unico mondo” ci deve fare pensare. Un altro modo di esprimere l’unico mondo è la saturazione degli spazi sulla terra. Soffermiamoci un poco sull’aspetto spaziale dei diritti perché, a onta della sua decisività sotto tanti aspetti, è normalmente ignorato. Quando diciamo spazi saturi o pieni, con riferimento all’oggi, intendiamo soprattutto una nozione socio-politica. Esistono ampie zone sotto-abitate o addirittura disabitate e abitabili, in Asia, America del Nord e del Sud, Oceania.
La loro saturazione deriva dal fatto che esse, fisicamente ancora occupabili, non lo sono socialmente e politicamente, a causa della chiusura su se stesse delle società locali. Il mondo, fino ai tempi più vicini a noi, ha sempre contenuto “spazi liberi” o, più realisticamente, spazi che potevano essere “svuotati”, cioè conquistati in favore dell’espansionismo di popolazioni e Stati a corto di risorse interne: espansionismo determinato da ragioni politiche, economiche, demografiche, ideologiche.
Tra l’Ottocento e il Novecento, con il cosiddetto “diritto coloniale” al quale illustri giuristi si sono dedicati, si sono giustificati atti e violenze nei confronti dei popoli colonizzati, atti e violenze che, se riferiti alle nazioni europee, sarebbero apparsi crimini contro la loro sovranità. Gli abitanti, nella migliore delle ipotesi, li si considerava popoli-bambini, bisognosi di pedagoghi; nella peggiore, popoli parassiti ed egoisti che, con la loro indolenza, sottraevano alle industrie le risorse che la natura, casualmente, aveva collocato nelle terre da loro abitate. Perfino Tommaso Moro, nella sua Utopia, aveva ragionato così ne11516, al tempo delle grandi esplorazioni e scoperte geografiche. Oggi, non può più essere così.
Che cosa significa la parola “globalizzazione”, se non che tutto il mondo costituisce (o è in marcia per costituire) uno spazio unico, totalmente occupato e, perciò, saturo? Se cerchiamo una rappresentazione evidente, impressivi, non solo realistica ma tragicamente reale di che cosa significa la saturazione degli spazi, rivolgiamoci alle centinaia di migliaia, anzi milioni, di persone che, mosse dalla necessità di sopravvivenza ed espulse dai loro Paesi, si accalcano ai confini d’altri Paesi in masse che non sanno dove andare e sopravvivono in condizioni sub-umane. Si calcola che più di settanta milioni di persone vivano lì ammassati.
I diritti umani, per loro, sono di fatto sospesi. A ciò si aggiungano i luoghi di costrizione come quelli della Libia tristemente famosi in Italia. Non molto diversi i centri di raccolta “provvisori” dei migranti che esistono in Europa. E così anche le immense periferie delle baraccopoli, bidonville, favelas, township che esistono in tutto il mondo della povertà, dove la vita civile è come sospesa. Quest’immensa umanità si trova precisamente nella a condizione degli ebrei perseguitati nei paesi dell’Europa dove si erano insediati da secoli.
Gli spazi saturi sono quelli in cui non esistono riserve utilizzabili per consentire pacifici movimenti. Ogni movimento è una collisione e la collisione genera o stasi o guerra. Il caso del popolo d’Israele è altamente significativo, perché mostra entrambe le possibilità: la stasi, calma prima della tempesta nella quale milioni di persone hanno atteso immobili il degrado della loro condizione, fino allo sterminio; la guerra per ricostruire un territorio per un loro Stato in Palestina.
Il mondo globalizzato e saturo vive in questo dilemma tra stasi e guerra, in ogni caso mortifero. Le tensioni si scaricano al suo interno, creando instabilità e violenza, alimentata dall’invidia e dall’odio. La guerra cambia natura e, da guerra esterna tra stati rivali, si trasforma in conflittualità interna allo spazio globale. Insomma, potenziale guerra civile globale senza legge, come condizione endemica del nostro tempo. Coloro che trovano normale “a casa loro” e “prima gli…” credono di preservare la pace e l’ordine “a casa propria”.
In realtà, è vero precisamente il contrario. La disperazione di chi deve fuggire da casa propria e l’ingiustizia subita da chi è privato di diritti basilari per favorire i privilegi altrui non fanno altro che acuire le tensioni sociali alle quali si risponde con misure repressive per la tutela dell’ordine pubblico. Immanuel Kant ha trattato del rapporto tra le popolazioni e la terra a disposizione e del modo di disinnescare la violenza insita in questo rapporto.
Nel Terzo articolo definitivo del celebre scritto Per la pace perpetua (1795) si sviluppa il concetto di “ospitalità universale” che dovrebbe orientare il “diritto del cittadino del mondo”. Riassumo e interpreto così. Non si tratta di filantropia (la filantropia riguarda la generosità dei privati), ma del diritto dello straniero che arriva sul territorio di un altro Stato di non essere trattato ostilmente, fino a quando si comporta pacificamente.
Kant parla del diritto all’ospitalità a senso unico, dal punto di vista dei popoli europei colonizzatori rispetto ai popoli extra-europei colonizzati. Ma, ciò che è detto vale allo stesso modo al contrario, quando sono i popoli lontani che si affacciano all’Europa: secondo l’argomento kantiano, hanno diritto all’ospitalità, a condizione che non si trasformi in diritto alla conquista, alla rovescia.
La formula di Hannah Arendt riguarda una aspirazione morale che corrisponde a un ideale astratto di giustizia. Gli ideali non sono da buttar via, ma non bastano. Perciò non si deve disprezzare il diritto di avere diritti. Ma si deve riconoscere che, per farlo discendere dal cielo in terra, occorre qualcosa di diverso che non l’ideologia dei diritti.
Essa può ispirare azioni concrete e, come ispirazione, va bene. Così dovremmo uscire alle idee astratte, dalle “filosofie” e dovremmo entrare in un altro campo, il campo delle azioni e delle politiche nel quale, purtroppo, domina il potere che dei diritti non sa che farsi. Mentre, al contrario, i privilegi gli stanno particolarmente a cuore.
Fonte: di Gustavo Zagrebelsky/ La Repubblica, 14 settembre 2019