“Magistrati, avvocati e università hanno ucciso la nostra giustizia”
La riforma del codice di procedura penale introdotta il 24 ottobre 1989 ha deluso aspettative e prospettive. Uno dei pochi legali alla Perry Mason spiega: “La novità era l’attività di difesa investigativa. È stata ignorata”.
È un Paese democratico quello nel quale un cittadino ha paura della Giustizia? Si può definire un Paese libero quello nel quale un cittadino indagato o testimone, appena entra in un’aula si sente privato dei suoi diritti e ha difficoltà a svolgere il ruolo di testimone e, se indagato, ha paura ad affrontare il giudizio in tribunale?
“Vede”, mi spiega Eraldo Stefani, avvocato penalista, “le aule di giustizia sono gelide, il cittadino si sente trasformato in un fascicolo, sente di perdere la propria identità e avverte di essere un semplice numero”. Mentre si continua a parlare di riforma, il nostro Paese non è riuscito ad applicare come si deve il Codice di procedura penale introdotto 3o armi fa. Stefani mi racconta di essersi trovato in un processo, come difensore, ad assistere una persona indagata, che veniva chiamata come sessantottesima nell’elenco dei processi che in totale erano ottanta.
“Il cliente che mi stava vicino e aspettava il suo turno, balbettava, non potevo fare niente per tranquillizzarlo, tanto era inquietante la calca delle persone: che cosa aggiungere a questo stato d’animo del povero cittadino indagato, che potesse ridurre la sua ansia?”.
La giustizia, la nostra Giustizia, che dovrebbe essere “uguale per tutti”, spesso odora più di ingiustizia che di legalità, ignora ormai il valore fondamentale del dubbio di fronte alla decisione di condannare o di non condannare quell’essere umano che è l’imputato. “Il dubbio è un sentimento, è come un crinale in alta montagna, e l’uomo si deve fermare di fronte al crinale del dubbio, così come recita l’articolo 533 del codice penale “…il Giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, riflette Stefani.
Questo avvocato fiorentino rimane uno dei pochi in Italia ad aver indossato l’abito del “Perry Mason”, previsto dal nuovo Codice, esattamente 30 anni fa (il 24 ottobre 1989). Molti altri hanno lasciato l’abito nell’armadio delle cose perdute. Per scelta, per convenienza o per pigrizia. Stefani è stato protagonista di processi di difesa penale investigativa, di fondamentale importanza per riaprire processi, anche cold case, frutto di macroscopici errori giudiziari che nel nostro Paese sono numerosi. In questi giorni in tutta Italia si celebra l’anniversario dell’entrata in vigore del nuovo processo – convegni, buffet e lectio magistralis – ma c’è poco da festeggiare.
Il nuovo processo è ancora quello vecchio, che risale al 1930 e porta il nome, quasi famigerato, di Alfredo Rocco, il Guardasigilli del governo Mussolini. Le novità che furono introdotte in pompa magna ne11989, non sono state mai veramente applicate. La più rivoluzionaria si chiamava “difesa penale investigativa”, ed era interpretata dall’avvocato che indaga al pari del pubblico ministero sul modello, appunto, del sistema americano e del celebre Perry Mason televisivo.
Cioè si istituiva la figura dell’avvocato che contribuisce all’accertamento dei fatti per trovare la verità e non del difensore che si limita a confutare le accuse mosse dal pubblico ministero. Oltre tutto con la facoltà di avvalersi del contributo di un investigatore privato che l’avrebbe affiancato nella individuazione e nella raccolta delle prove.
Mi racconta Stefani: “Si trattava di una novità epocale: il cittadino aveva la possibilità di difendersi provando. Da una parte c’era il pm, che poteva interrogare e verbalizzare le dichiarazioni dei testimoni, e dall’altra l’avvocato aveva l’opportunità, diversamente dal passato, di interrogare e raccogliere le dichiarazioni dei testimoni”.
Per spiegare, l’avvocato fa un esempio pratico: “Il pubblico ministero poteva andare sul luogo del delitto con i propri ausiliari del sopralluogo, medico legale, il biologo, e l’avvocato poteva fare altrettanto andare con i propri ausiliari. Tutto questo imponeva una nuova cultura”.
Lo fermo, perché voglio capire il motivo per cui tutto questo non è accaduto. La prima risposta è sorprendente: “Perché il pubblico ministero, cioè colui che svolge il ruolo dell’accusa, non accetta una condivisione investigativa con l’avvocato”.
E il giudice?, chiedo. “Il giudice, che non conosce il fascicolo processuale, conosciuto soltanto dal pm e dal difensore, dovrebbe essere terzo e imparziale, spettatore passivo anche nella fase dibattimentale, cosa che la prassi operativa ha completamente disconosciuto”. Al fallimento di questa “Grande legge di civiltà giuridica” hanno contribuito però anche altri elementi.
“Noi avvocati prima di tutti”, ammette Stefani, “che non siamo stati in grado di metabolizzare dal punto di vista culturale e operativo il nuovo ruolo che il codice ci assegnava, un ruolo che esaltava il diritto di difendere provando, senza stare in attesa dell’operato dei pm”.
Ma qui c’è un’altra stampella che non ha sostenuto il nuovo processo, ed è l’Università che non ha diffuso un insegnamento pratico delle diverse attività di indagine utile per i futuri avvocati e magistrati. Questa è l’analisi. Chiedo a Stefani se c’è una soluzione. Ma è la stessa, fmo ad oggi disattesa: istituire in Italia una scuola, pubblica o privata, delle indagini difensive.
La sfiducia nella giustizia persisterà se non saranno affrontati i limiti culturali che impediscono il cambiamento radicale. Se continuiamo a trovarci davanti a sentenze di Cassazione che smentiscono accuse e sospetti ritenuti credibili nelle precedenti fasi del giudizio. “Il nostro processo penale di ispirazione accusatoria che ha oggi trenta anni”, commenta Stefani, “è simile a quello dei paesi anglosassoni di common law nel quale vige il principio dello stare decisis e cioè il valore del precedente giudiziario. Nel nostro ordinamento giuridico questo principio non è stato recepito, per cui la Cassazione alterna decisioni in un senso e decisioni nel senso opposto. Tutto questo origina una incertezza della interpretazione della legge e una preoccupante situazione di incertezza della Giustizia”.
Trent’anni sono passati inutilmente. Sono ancora numerosi i processi indiziari celebrati ogni armo in dibattimento (Corte d’assise, Tribunale) che invece, secondo le previsioni ottimistiche del legislatore, avrebbero dovuto essere una percentuale minima, nell’ordine del 10%, rispetto alla percentuale del 90%, dei processi definiti con i riti alternativi del patteggiamento e del giudizio abbreviato.
Ne serviranno altri trenta per recuperare il ritardo? “Confido in una nuova generazione di giovani che sappia svolgere le nuove nobili funzioni di avvocati, pubblici ministeri e giudici che insieme, nel rispetto reciproco, sappiamo creare una giustizia più giusta per tutti. Credo fermamente in questo futuro che risolva la grave crisi della giustizia, oltre la quale, ne risentirà un beneficio risolutivo la crisi della politica e la crisi della società nella quale viviamo”.
Fonte: di Marcello Mancini/ La Verità, 1 novembre 2019