La bomba nascosta
Non rischiano solo i 54.998 detenuti, ma anche “le 30.000 persone che giornalmente vanno a lavorare nei 190 istituti di pena d’Italia, ubicati in gran parte nei centri urbani delle città”, spiega Consolo, “sono trentamila paia di gambe attraverso cui il virus si potrebbe muovere a doppio senso di circolazione, in entrata e in uscita. Non saranno le sbarre a fermarlo.
Ogni giorno entrano ed escono dalle carceri trentamila persone. Se scoppia un focolaio è un disastro anche per le città che le ospitano. Volete che non ci sia la sempiterna ombra della mafia anche dietro le rivolte nelle carceri?
Ci sono già segretissimi dossier sul tavolo delle procure di mezza Italia. Si indaga su regie occulte ed esterne ai penitenziari, su boss che mandano avanti i malacarne e organizzano le ribellioni di città in città nei giorni del Coronavirus, su pericolosi intrecci fra mafiosi di tutte le mafie ed estremisti di varia natura e colore. Magari venissero smascherati e in fretta.
Ed invece si corre il rischio di fare esplodere una bomba sanitaria mentre i fascicoli delle inchieste si riempiono di molti sospetti e tantissime chiacchiere. Il rischio è duplice, perché nell’ombra si confondono le responsabilità di chi al governo dimostra di considerare secondario il tema del Covid-19 negli istituti di pena.
Nessun piano di emergenza, nessuna pronta risposta, nessuna programmazione. E quel poco che si è fatto ha provocato un tale pandemonio che era meglio non prendere iniziative. In compenso la pancia del paese si mostra soddisfatta. Che i detenuti se ne stiano in carcere e zitti per le colpe che hanno commesso. Il populismo giudiziario è ormai una deriva.
Dice bene Santi Consolo, fino a un anno e mezzo fa capo del Dap, il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, e oggi presidente onorario dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, quando propone un cambio di prospettiva: “Le precauzioni, le attenzioni e le cautele non bisogna predisporle per spirito cristiano o altruismo, ma per puro egoismo in favore del personale che non è detenuto, ma non ha smesso di lavorare in carcere per alto senso del dovere. Abbiamo visto cosa è successo nelle residenze per anziani, la propagazione del virus sarebbe micidiale”.
Non rischiano solo i 54.998 detenuti, ma anche “le 30.000 persone che giornalmente vanno a lavorare nei 190 istituti di pena d’Italia, ubicati in gran parte nei centri urbani delle città”, spiega Consolo, “sono trentamila paia di gambe attraverso cui il virus si potrebbe muovere a doppio senso di circolazione, in entrata e in uscita. Non saranno le sbarre a fermarlo.
Agenti penitenziari, personale amministrativo, educatori, uomini e donne che la sera rientrano a casa in famiglia: non si può correre il rischio di intervenire quando sarebbe troppo tardi”. Eppure i segnali per capire che il problema è serio sono arrivati da più parti. Basta metterli in sequenza: gli avvocati penalisti se la prendono, un giorno sì e l’altro pure, con il ministro della giustizia Alfonso Bonafede, big sponsor del capo del Dap Francesco Basentini; i sindacati degli agenti della polizia penitenziaria e alcune forze politiche chiedono con forza le dimissioni di entrambi; il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi parla di “concreto e attuale rischio epidemico” per cui sarebbe opportuno “incentivare le misure alternative”, visto che il carcere nel nostro sistema “costituisce l’extrema ratio”; Papa Francesco coinvolge i detenuti e affida loro i pensieri da leggere durante la Via Crucis e non c’è messa in cui non rivolga una carezza ai carcerati.
E il governo che fa? Finora sono stati concessi gli arresti domiciliari a circa seimila detenuti. I manettari denunciano il “liberi tutti” sotto forma di indulto mascherato, si scandalizzano per lo Stato che si piega di fronte ai delinquenti, mostrandosi debole. Pugno duro ci vuole. Consolo prova ad analizzare i numeri senza partigianeria: “La capienza effettiva, cioè i posti agibili, erano 47mila prima delle rivolte che, da ciò che leggo sui giornali, i manettari primi giorni di marzo hanno provocato danni per alcune decine di milioni di euro in moltissimi istituti penitenziari.
È ragionevole ipotizzare che almeno altri duemila posti siano andati persi. In carcere ci sono oggi 55 mila detenuti. Mi pare che il sovraffollamento sia evidente e la deflazione degli ultimi giorni è dovuta al ruolo di supplenza che ha svolto la magistratura, non di certo alle iniziative del governo”.
Secondo l’ex capo del Dap, i reati sono notevolmente diminuiti negli ultimi due mesi, i magistrati hanno ritardato ordini di carcerazione e concesso, laddove possibile, gli arresti domiciliari. Non ci sono stati nuovi ingressi in carcere solo perché la magistratura ha fatto prima della politica (la storia ci insegna che non sempre è stato un bene), ma è contro la politica che si finisce per sbattere.
Basta citare la farsa dei braccialetti elettronici alla cui applicazione viene subordinata la concessione degli arresti domiciliari. “Personalmente ritenevo che, stante l’emergenza, almeno diecimila braccialetti si sarebbero potuti reperire con immediatezza”, dice Consolo, e invece i braccialetti sono pochissimi, costosissimi e introvabili. I detenuti sono in lista di attesa. Capita che restino in carcere fino a quando non si trovi uno degli aggeggini da piazzare alle caviglie. Una nuova fornitura di 4700 pezzi è prevista per fine maggio, pare.
“È l’ennesimo ritardo”, dice Consolo, “il 31 gennaio il governo ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria. Di conseguenza si è assunto anche il compito di assicurare, per quanto possibile, la cura della vita e della salute di tutti, nessuno escluso. Cosa è stato fatto dal 31 gennaio al 7 marzo 2020, quando si è avuta notizia di gravi rivolte e disordini dentro le carceri?
Si è fatto il punto della situazione attuale? Almeno tre forze politiche che sostengono il governo hanno chiesto le dimissioni del capo del dipartimento. Non spetta a me dire se siano stati commessi degli errori, cosa sia giusto e cosa sbagliato, e mi interessa poco. Non giudico il lavoro del capo del Dipartimento. Se nulla è stato fatto”, aggiunge, “devo ritenere che ha bene operato e merita di continuare a gestire questa emergenza”.
Da una parte si impone il distanziamento sociale come regola principale per il contenimento dei contagi nella vita di tutti i giorni, dall’altra le carceri sono sovraffollate e il distanziamento resta inapplicato e inapplicabile. Lo sono da sempre strapiene, le carceri, ma nei giorni di pandemia non ci si può girare dall’altra parte: “Devo ripetere cose ovvie, e nessuno può dire che non lo sapeva: i detenuti si trovano in condizione coatta di non distanziamento interpersonale, le condizioni igieniche non sono delle migliori, in molte sezioni non c’è possibilità di disporre di docce in camera, ma nei corridoi, quattro o cinque persone condividono la stessa cella.
Gli agenti di polizia penitenziaria continuano a reclamare mascherine, guanti, schermi protettivi, igienizzanti. Si annuncia che le mascherine saranno prodotte in carcere, ma non ci sono riscontri soddisfacenti a queste affermazioni”.
Eppure per Consolo, che nel lavoro come occasione di riscatto ha sempre creduto, negli istituti di pena ci sono macchinari e maestranze che da subito avrebbero potuto e dovuto produrre mascherine, ma si è finiti nel pantano della burocrazia e delle autorizzazioni dell’Istituto superiore di sanità. È giusto che i dispositivi siano a norma, ma non si possono aspettare i tempi ministeriali per rifornire ottanta mila persone, fra detenuti e personale, delle mascherine necessarie.
Tra detenuti e agenti si contano circa trecento casi di positività al Covid-19, anche se i dati non sono aggiornati. Pochi si potrebbe pensare, troppi se, come suggerisce Consolo, iniziassimo a considerare gli istituti penitenziari alla stessa stregua di “fabbriche mai chiuse” dove la paura del contagio si somma alla pressione psicologica della detenzione. del Paese.
Ci sono tutti gli strumenti per sapere quali benefici si possono dare ai detenuti che stanno scontando una pena senza provocare allarme sociale. Penso a chi deve scontare residui di pena anche fino a due anni o poco più per reati non particolarmente allarmanti o, in alternativa, ai detenuti che hanno dato prova di buona partecipazione al loro recupero sociale.
Non si devono mettere in libertà, ma vanno applicate misure alternative al carcere. È così che si dovrebbe ragionare per non compromettere la sicurezza pubblica. I magistrati di sorveglianza sono disposti a collaborare, hanno lanciato un appello ma il ministro della Giustizia ha ritenuto opportuno non rispondere”.
Due anni o poco più, dunque niente mafiosi libertà per mafiosi con lunghe pene da scontare? “Siamo seri, di sicuro i mafiosi sono sottoposti a un regime di isolamento che li obbliga al distanziamento sociale. Pensi ai detenuti al 41bis. Per gli ergastolani non al 41bis sono previste stanze singole. Loro sì che rispettano il distanziamento. Va ricordato comunque che le misure alternative sono concesse dal Tribunale di Sorveglianza organo collegiale e sono soggette a impugnazioni”.
A conti fatti ci sono circa diecimila detenuti in più rispetto alla capienza massima degli istituti di pena. Ci sono due strade da percorrere. La prima, conclude Consolo, “è eseguire tamponi a tappeto, rendere noti i risultati, fare un bollettino almeno bisettimanale sul modello giornaliero della Protezione civile” e nel frattempo – ed ecco la seconda strada – “valutare seriamente misure alternative al carcere con efficacia deflattiva, avviare il dialogo con tutti gli operatoti e con la popolazione detenuta secondo criteri di verità, trasparenza e correttezza dei dati forniti per disinnescare la bomba rischio salute alimentata dalla non conoscenza della situazione reale”. In realtà, c’è una terza strada: girarsi dall’altra parte.
Fonte: di Riccardo Lo Verso/ Il Foglio, 25 aprile 2020