HomeEditorialeIl vuoto italiano(di Stelio W. Venceslai) – L’EDITORIALE
Il vuoto italiano(di Stelio W. Venceslai) – L’EDITORIALE
574
Il vuoto italiano
(di Stelio W. Venceslai)
la Sinistra, da progressista, è diventata conservatrice, la Destra, da reazionaria si è trasformata in liberale vecchio stampo.
Questo meraviglioso Paese è tanto affascinante quanto complesso e, per i più, indecifrabile. L’individualismo ne è la caratteristica principale. Potrebbe essere un valore, se esalta le qualità dell’individuo, ma accoppiato alla prevalente incultura e all’indifferenza sociale diventa un fattore disastroso.
La questione fondamentale in Italia non è lo stucchevole contrasto fra la Destra e la Sinistra che domina la vita politica del Paese, contrasto nel quale, alla fine, si sono invertiti i valori: la Sinistra, da progressista, è diventata conservatrice, la Destra, da reazionaria si è trasformata in liberale vecchio stampo. Categorie ideali passate di moda da un pezzo. Incultura e indifferenza interessano ampi strati del Paese e i risultati sono sempre più evidenti. Il Paese è alla ricerca di un modello da seguire perché è incapace di pensarne uno suo.
Dal famoso ‘68, quando si ebbe l’illusione di una rivoluzione intellettuale, pessima imitazione dell’esempio francese, la scuola e l’università si sono sempre più degradate, sfornando ogni anno diplomati ignoranti (di cui una buona parte non sa neppure scrivere in italiano e solo pochi sono in grado di capire il senso di una frase che leggono) e laureati superflui perché, se trovano un mercato, sono praticamente a digiuno di tutto.
Questa situazione non merita commenti: si esprime nel linguaggio e nelle idee della stragrande maggioranza delle persone che, poi, va a votare in base a informazioni approssimative e a pregiudizi emotivi. È inevitabile che gli eletti adottino in Parlamento gli stessi strumenti intellettuali da chi li ha votati.
La conseguenza finale di questa situazione è che il Paese, di cui è espressione la sua classe politica, eletta nel modo che s’è detto, da cinquant’anni è fermo su un binario morto.
Sull’invecchiamento della popolazione i demografi, da almeno trent’anni, hanno scritto o detto che nelle loro previsioni il trend delle nascite sarebbe stato progressivamente inferiore a quello delle morti.
A fronte dell’espansione demografica nel mondo, all’incirca 7.5 miliardi di persone, la diminuzione di 3-4 milioni d’Italiani è pochissima cosa. Ma non lo è in Italia.
Checché se ne dica, il numero conta. Banalmente, più grande è il mercato, più si lavora, si vende, si consuma, si producono beni e si erogano servizi, si pagano meno pensioni e si riscuotono più imposte. La ricchezza è anche data dal numero. L’Italia è un Paese altamente sviluppato, motivo per il quali variazioni significative di popolazione producono effetti economici importanti.
Dinanzi a un tale fenomeno demografico il potere politico non può restare indifferente, come invece è accaduto e accade tuttora. Deve fare delle scelte strutturali i cui effetti si misurano nel medio-lungo periodo.
Se non si cerca di invertire la tendenza, occorre attivarsi per accompagnarla con misure adeguate e attrezzare il Paese per provvedere agli anziani, aumentare il numero dei medici e degli operatori sanitari specializzati in gerontologia, creare ospedali e case di cura o di riposo, rispondere, insomma, ai bisogni di persone che sono sul declino.
Nel giro di un decennio l’Italia avrà una larghissima maggioranza di anziani e una notevole riduzione delle proprie aspettative per il futuro. Questo cambia tutto: il sistema pensionistico sarà alimentato dai pochi che lavoreranno, e non potrà far fronte al crescente numero degli anziani. I gusti, le abitudini del Paese cambieranno e l’individualismo sfrenato dovrà cedere il passo alla gestione dei “nostri vecchi”, mancando strutture adeguate predisposte dallo Stato. Dove manca lo Stato subentrano le iniziative private
Purtroppo, il profondo vuoto culturale della classe politica nazionale è tale che non solo non ha una visione del futuro e tira a campare giorno per giorno, ma non è neppure in grado di leggere le statistiche e di trarne qualche deduzione logica. Ma se questo non è capace di fare, davvero, a che serve?
Un’inveterata tradizione socialista di opposizione alla guerra sussiste da più di un secolo in un Paese che, invece, nel giro di un secolo, di guerre ne ha fatte almeno cinque: la guerra di Libia, di Spagna e d’Etiopia e le due guerre mondiali, in Grecia, in Jugoslavia e in Russia, più la guerra civile, e quasi tutte male, per l’insufficienza degli armamenti e dei rifornimenti logistici, per la sostanziale impreparazione della classe militare e l’ incapacità di quella politica, con gravissimo dispendio di vite umane e di energie[1] e notevole perdita di prestigio, tutte cose che non hanno nulla che vedere con l’eroismo dimostrato sul campo dai soldati.
Il pacifismo, in un periodo di guerra fredda, ha condotto l’Italia nell’orbita del Patto Atlantico, ma strizzando l’occhio verso il gruppo opposto, ha dato luogo a equilibrismi in favore d’Israele ma dando rifugio ai Palestinesi, condannando il terrorismo internazionale ma, stranamente, non subendo alcun attacco come invece è avvenuto in tutto Europa.
Per converso, i soldati italiani sono sparsi su dieci/quindici fronti di guerra come truppe d’interposizione, usurando uomini e materiali.
Dal secondo dopoguerra in poi, infatti, l’Italia è stata presente dovunque ma senza mai prendere una posizione precisa. Una situazione forse, di comodo, che al limite può essere stata anche un ponte utile per negoziati tra parti avverse, ma l’Italia non è la Svizzera, Paese neutrale per definizione.
La politica estera italiana, a voler essere buoni, è ambigua. In realtà, non esiste e rientra in quell’ampio vuoto culturale per cui non ci si accorge che il Paese è incolto, non adeguato all’evoluzione della tecnologia e della vita moderna, è un Paese fermo a cinquant’anni fa che malamente arranca, per stare dietro al progresso.
Gli Italiani vivono di se stessi e discutono di cose serie con la testa rivolta indietro. Si beano delle glorie dell’Impero romano, della Chiesa universale, del Rinascimento, di Cristoforo Colombo e di Dante ma poi tutto finisce nella contesa tra fascisti, morti da un pezzo, e partigiani, anche loro defunti, un tema doloroso con la dubbia freschezza di un alimento cotto settant’anni fa.
Anche nel rapporto con l’Unione europea, in genere piagnucoloso, non c’è mai stato uno scatto di testa, una proposta importante, una richiesta decisa o un programma da proporre agli altri partners. Quando va bene, ci si accoda al duo franco-tedesco, un trio musicale dove il suonatore italiano sta un passo indietro e, talvolta, scorda pure.
Sottostanti, poi, sono il sotterfugio, la via d’uscita secondaria, il cavillo giuridico, l’ambiguità levantina.
Nelle condizioni attuali, dove la crisi dell’economia italiana s’innesta su quella europea, quella europea su quella mondiale, tutte poi, all’improvviso, pericolosamente aggravate dalla pandemia, con una previsione di -13% del PIL, nel quadro della geopolitica internazionale l’Italia è relegata a un ruolo di second’ordine, schiacciata dall’intesa franco-tedesca, inutilmente alla ricerca di alleati minori che, invece, preferiscono un partner più forte o, almeno, dotato di idee.
Qualche anno fa, quando l’applicazione rigorosa del MES (il fondo salva Stati), stava strangolando la Grecia, per l’Italia sarebbe stato facile organizzare un’intesa con alcuni Paesi mediterranei (Malta, Grecia, Portogallo, Spagna, e fors’anche Slovenia e Croazia) e con l’Irlanda, per contrastare il rigore dei riformisti tedeschi che affamava la Grecia. Già un solo collegamento serio con la Spagna avrebbe esercitato il suo peso, ma non si fece.
A esser cortesi, è almeno dagli ultimi vent’anni che non si è generata un’idea di rilancio o di cambiamento dell’Unione europea, una qualunque proposta o iniziativa internazionale. Non si può certo dire che i Ministri degli Esteri della Repubblica abbiano brillato per spirito d’iniziativa o di coordinamento oppure che siano stati protagonisti in un qualche evento internazionale, anche minore.
In politica interna, vediamo ogni giorno quanto il loro individualismo finisca nella confusione. In politica estera, invece, dove non è l’individuo che conta, ma il Paese, sembra che regnino solo l’approssimazione o l’incapacità di generare interessi.