Le telefonate a casa: “Ci massacrano con il manganello”
I racconti dei detenuti ai loro familiari. Decine di denunce a polizia e carabinieri. “C’hann accis. Song venute dint ‘e cell a quatt, cinque ‘e loro”. La voce dall’altro capo del telefono è quella di una persona che denuncia al suo interlocutore, la moglie a casa, una inusuale difficoltà nell’esprimersi. A parlare con molta sofferenza è un detenuto della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere e l’audio, registrato, finisce in una chat di familiari di detenuti. Assieme a numerosi altri.
È la sera del 9 aprile. “Amo’ che stai dicenn? Perciò non ti ho sentito per tre giorni? E chi è stat?” incalza la donna. Renato, è così che chiama suo marito, aggiunge: “‘E casc blu”. I caschi blu. Non quelli dell’Onu: il blu è il colore d’ordinanza dei berretti del corpo della polizia penitenziaria. Al carcere di Santa Maria Capua Vetere, in quei giorni di tensione dopo le proteste e le intemperanze scoppiate a seguito della sospensione dei colloqui tra detenuti e familiari d’inizio marzo, sono stati distaccati altri agenti provenienti da Secondigliano. In tenuta anti-sommossa. Sono particolari che emergono dalle denunce di mogli, figli, sorelle di ospiti del penitenziario che si sono rivolti a carabinieri e polizia per segnalare presunti abusi e maltrattamenti ai danni dei loro congiunti.
“‘E casc blu” sono una definizione ricorrente nelle telefonate. “So trasut ch’e manganiell, hann arruvutate tutt cose e c’hann menato pè senza niente”, riferisce un altro detenuto in una telefonata. I primi episodi denunciati dai carcerati fanno riferimento alle perquisizioni operate dagli agenti di polizia penitenziaria nel pomeriggio di lunedì 6 aprile. Siamo ad un mese esatto dalle disposizioni governative sulla sospensione dei colloqui tra detenuti, familiari e avvocati.
Anche la provincia di Caserta è attraversata in quelle settimane dal timore dell’avanzata del Coronavirus. La gente è chiusa in casa, tutte le attività sono ferme. Scendono in strada per alcune mattinate di seguito i familiari degli ospiti del carcere. All’esterno della struttura protestano mogli, figlie, genitori di detenuti (più tardi il Dap fornirà cellulari che gli ospiti potranno utilizzare a turno per parlare con casa) e qualche avvocato. Nei giorni precedenti si era avuta notizia di qualche protesta all’interno della casa circondariale.
Tutto era partito con la “battitura” di pentolame, avvenuta anche in altre carceri d’Italia. Ma la tensione era crescente. Da qui la richiesta della direzione di ottenere rinforzi. Quel lunedì gli agenti hanno l’ordine di entrare nelle celle per operare perquisizioni. “Il timore – raccontano alcuni legali – è che potessero essere state nascoste armi rudimentali da utilizzare in una eventuale rivolta”. Solo che dal racconto delle vittime dei presunti pestaggi si desume che dev’essere accaduto qualcosa visto che la polizia penitenziaria ha ritenuto, sempre secondo i resoconti, di utilizzare le maniere forti.
“Ci hanno rasato i capelli a zero, ci hanno tolto pure la barba. Ma dopo che ci avevano scassat ‘a capa cu ‘e manganielle”, racconta sempre al telefono Ciro E. alla moglie Flavia A. un paio di giorni dopo. “Nun putimm fa’ cchiù videochiamate, sulo telefonate pecché stamme tutti rutti”. Il giorno dopo, siamo al 9 di aprile, la donna varca l’ingresso della stazione dei carabinieri di Afragola e denuncia i fatti. Nel suo esposto si legge il termine “tortura”.
Le denunce delle presunte violenze si moltiplicano. Il 14 di aprile Rosa E. si porta presso il Commissariato di polizia di Secondigliano. Al sovrintendente capo seduto davanti al pc spiega di essere la figlia di Raffaele E. e che dopo che in carcere si era diffusa la voce di contagi ed erano sorte nuove tensioni tra gli ospiti, il giorno 6 il padre era rimasto vittima di un pestaggio della polizia in cella.
L’agente che raccoglie la denuncia chiede alla donna: “Da parte di chi?”. Lei risponde: “Dei caschi blu”. Di nuovo: “Successivamente ha ricevuto cure mediche?”. La risposta della donna è affermativa. “Amo’, aggia letto ‘ncopp ‘a internet che è succies ‘o burdello”, recita un altro audio di conversazione tra una signora e il marito in carcere. “Sì. E a me mi fa male tutto”. Segue un pianto di donna. Seguono due mesi d’indagine. Ieri i primi sviluppi.
Fonte: di Piero Rossano/ Corriere del Mezzogiorno, 12 giugno 2020