Entrare in carcere è un trauma (e uscire anche)

Quasi ogni giorno vedo arrivare nuovi detenuti, ma ne vedo anche che escono, con le loro borse e i sacchi neri, quelli della spazzatura. Chi va in qualche comunità, chi ai domiciliari e chi torna libero. Compiuto il rito scaramantico di buttare in un cassonetto le ciabatte e spezzare lo spazzolino da denti usati durante la carcerazione, con la speranza di non ritornare più in carcere, comincia la loro nuova avventura.

Ma se chi va ai domiciliari o in una comunità ha già qualche certezza sul suo futuro prossimo, molti “liberanti” non ne hanno alcuna. Per tanti di loro, anzi, vi è solo un grande punto interrogativo: dove andare? Non tutti, infatti, hanno una famiglia pronta a riaccoglierli o la prospettiva di un lavoro e, quindi, di un sostentamento economico per vivere dignitosamente. Il guaio è che se a quel punto interrogativo non si trova risposta a breve, si torna spesso sulla strada della delinquenza e poi, di nuovo, dietro le sbarre. Purtroppo ho già visto casi così.

Allora, chi si dovrebbe occupare di coloro che escono dal carcere? Passata la sbarra della casa di detenzione, lo Stato chiude la “pratica” e il “liberante” deve arrangiarsi da solo. È difficile perfino trovare le parole per esprimere quanto ciò sia difficile per la maggior parte di loro. Più volte mi sono trovato davanti queste persone (detesto la parola ex detenuti) completamente spaesate: buttati in strada dopo anni di reclusione, alcuni senza sapere nemmeno dove andare a prendere l’autobus. In mezzo al traffico e ai rumori della città, sono colti da un vero stato di malessere. Più volte, accompagnandone qualcuno alla metropolitana o alla stazione Termini, ho dovuto fermare l’automobile perché si sentivano “come sulle montagne russe”.

Mi è rimasta impressa una frase di un detenuto che, quando uscirà, avrà passato i 60 anni e sa già che si troverà completamente solo e senza un lavoro: “Sono cambiato. Sento che la realtà del carcere non mi appartiene più, ho capito i miei errori e il mio impegno è quello di non tornare più a delinquere. Ma in qualche modo dovrò pur mangiare…”.

Ecco, quella frase sospesa mi ha lasciato intendere tante cose. Se non si comprenderà veramente l’importanza di curare non solo la custodia, ma anche il reinserimento sociale di chi è stato “dentro”, le celle saranno sempre sovraffollate e le strade sempre piene di chi commette reati e vive di espedienti.

Fonte: di Lucio Boldrin* Avvenire, 30 luglio 2020/ *Cappellano della Casa Circondariale di Roma Rebibbia