Torniamo alla legalità: aboliamo il 41bis
Inumano, degradante, illegale, il carcere duro va abolito. Breve guida ragionata a un monstrum giuridico. Il 41bis non è più una norma giuridica, ma uno spartiacque tra chi è contro la criminalità organizzata e chi – per collusione o ignoranza del fenomeno o ingenuità compassionevole – non lo sarebbe abbastanza.
Ma la verità è che parliamo di una norma costituzionalmente borderline. Che nasce con la data di scadenza: 8 agosto 1995, e di proroga in proroga, nata con l’urgenza del decreto, si incunea in pianta stabile nelle istituzioni nonostante la sua origine emergenziale. Una norma duramente contestata più volte dalla Cedu, in quanto viola il divieto di trattamenti inumani e degradanti.
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Nei giorni scorsi Sergio D’Elia e Luigi Manconi, su questo giornale, hanno parlato criticamente del regime detentivo speciale previsto dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario. Entrambi se ne intendono: D’Elia è coautore del primo pionieristico libro sull’effettività del cosiddetto carcere duro (Tortura democratica. Inchiesta su “la comunità del 41bis reale”, Marsilio, 2002); Manconi, da presidente di Commissione del Senato per la tutela dei diritti umani, ha firmato nella scorsa legislatura una relazione che documenta lo iato tra apparenza e sostanza normativa del 41bis. Il diritto alla conoscenza sulle situazioni in cui è in gioco la libertà personale, e dunque l’habeas corpus di cui già si preoccupava nel 1215 la Magna Charta libertatum, è interesse di tutti: “carcerieri, carcerati e cittadini o stranieri in provvisoria libertà”, per dirla con Adriano Sofri. Eppure, ciò sembra non valere per il regime speciale del 41bis. Finanche la legge delega n. 103 del 2017, promossa dall’allora guardasigilli Orlando, disegnava un complessivo e ambizioso progetto di riforma dell’intero ordinamento penitenziario, “fermo restando quanto previsto dall’art. 41bis”. Hic sunt leones, come si tracciava sulle mappe a indicare territori incogniti. Perché questa assenza di contraddittorio?
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La risposta è nelle molteplici dimensioni in cui è stato collocato il 41bis, rendendolo inattingibile a una discussione razionale che, per essere tale, presuppone due condizioni parimenti essenziali: la disponibilità all’ascolto delle ragioni altrui e la possibilità di un mutamento delle proprie. Quello sul 41bis è invece un dialogo tra sordi, innanzitutto in ragione della sua dimensione simbolica. Non è più una norma giuridica, ma uno spartiacque tra chi è contro la criminalità organizzata e chi – per collusione o ignoranza del fenomeno o ingenuità compassionevole – non lo sarebbe abbastanza. Come ha scritto Nicolò Amato (I giorni del dolore. La notte della ragione. Stragi di mafia e carcere duro, Armando editore, 2012), in tutto ciò “vi è una sorta di implicita intimidazione: “Stai bene attento a come scegli”, il riflesso notturno di un sabba di streghe e demoni. Chi non è amico, è nemico. Chi non è con me, è contro di me”. Anche Amato sa di cosa parla: da capo del Dap nel decennio 1983-1993, ha visto la genesi del 41bis e l’inasprimento dei regimi speciali tra le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Quando però una norma si eleva a simbolo, a lume votivo, svela la propria natura costituzionalmente borderline. Mi è già accaduto di dirlo, ma ripetere giova. Il simbolico e il diritto abitano mondi diversi: emotivo e irrazionale il primo, perché agìto da pulsioni profonde; ragionevole il secondo, perché frutto di scelte misurate e predeterminate. Non è un caso se, diversamente dagli stati autoritari, lo Stato di diritto è molto cauto nel plasmare norme emblematiche, escludendole categoricamente in materia di reati e sanzioni. Un diritto penale liberale, infatti, persegue reati, non fenomeni criminali. Accerta responsabilità individuali, non collettive. Punisce persone, non gruppi. Sanziona secondo proporzione, non in misura esemplare. Diversamente, muterebbe in un diritto penale del nemico finalizzato al suo annientamento, secondo una logica bellica extra ordinem, perché il diritto serve a domare la violenza, non a scatenarla.
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Il 41bis abita inoltre una rivelatrice dimensione semantica. In gergo lo si chiama con il nome di “carcere duro”. È una locuzione ingannevole. Lascia intendere che il nostro ordinamento preveda una pena ulteriore e di specie diversa, più afflittiva delle altre, riservata a colpevoli dalla mostruosa biografia personale, dunque da neutralizzare e punire attraverso un regime detentivo caratterizzato da un surplus di severità. Non è questo, invece, ciò che dichiaratamente prescrive l’art. 41bis. La sua rubrica (“situazioni di emergenza”), i suoi presupposti (“gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”), la sua adozione (“con decreto motivato del ministro della Giustizia, anche su richiesta del ministro dell’Interno”), ne disegnano uno statuto incompatibile con quello di una sanzione penale. Le pene, infatti, sono predeterminate per legge, non nascono provvisorie, vanno inflitte da un potere giurisdizionale autonomo e indipendente da quello esecutivo. Inoltre, applicandosi in base al reato, il 41bis riguarda (anche) semplici imputati, mentre una pena punisce un colpevole condannato al termine di un giusto processo. Di più. Ciò che tale norma consente è esclusivamente “la facoltà di sospendere, in tutto o in parte”, e solo temporaneamente, talune regole del trattamento penitenziario, all’unico fine di “impedire i collegamenti” tra il dentro e il fuori. Lo scopo dichiarato, dunque, non è punire in modo esemplare, ma evitare che anche dal carcere i capi cosca possano impartire direttive al proprio sodalizio criminale. Ogni altra diversa finalità rende illegittima la misura applicata con provvedimento ministeriale, perché “puramente afflittiva” (così la sent. n. 351/1996 della Corte costituzionale).
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Gravato da tutta questa eccedenza simbolica e semantica, il 41bis ha finito inevitabilmente per affrancarsi dalla sua primigenia dimensione emergenziale. Il cosiddetto carcere duro nasce, infatti, a cavallo di due emergenze: quella terroristica al tramonto, e quella in atto dello stragismo mafioso. Emergenziale è il vettore normativo che lo introduce, il decreto legge n. 306 del 1992. E poiché – come insegna la Corte costituzionale – “l’emergenza, nella sua accezione più propria, è una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea” (sent. n. 15/1982), il 41bis nasce con la data di scadenza: 8 agosto 1995, prorogata con altri decreti legge al 31 dicembre 1999, poi al 31 dicembre 2002, infine stabilizzato con legge n. 279 del 2002 (e successivamente inasprito con il cosiddetto pacchetto sicurezza Maroni del 2009). Da allora, l’ordinamento incapsula un doppio binario, giustificato dall’ossimoro di un’emergenza quotidiana sempre più inclusiva. Lo scambio scatta in presenza dell’imputazione o della condanna per reati dal particolare allarme sociale (catalogati nel sempre più lungo e cangiante art. 4bis), indirizzando il ristretto verso regimi investigativi, probatori, processuali, detentivi, sanzionatori, governati secondo regole speciali. Nel tempo, dunque, l’ordinamento si è assuefatto a un corpo prima estraneo, poi penetrato sottopelle, infine metabolizzato. Eppure tutto ciò pare non costituire un problema. Anzi, la stabilizzazione del 41bis è stata salutata con favore, perché la definitività crea certezza del diritto, preferibile a un’anomala precarietà normativa. La sua natura di norma dichiarativa e non impositiva assolverebbe il 41bis da ogni censura di legittimità, da rivolgere semmai ai singoli provvedimenti ministeriali applicativi, dei quali andrebbero misurate la congruità allo scopo, la proporzionalità, l’osservanza al divieto di trattamenti inumani. Curiosa argomentazione. Equivale a dire che – per assurdo – non sarebbe un problema (costituzionale) la previsione, a regime, della pena capitale o della tortura di Stato, ma solo la loro concreta inflazione caso per caso.
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Si spiega così la dimensione apparentemente micro-conflittuale del 41bis. Derubricatane l’esistenza a falso problema, la giurisprudenza costituzionale si concentra oramai su suoi singoli e specifici ambiti di applicazione: il numero di colloqui con il proprio difensore (sent. n. 143/2013), il divieto di ricevere libri e riviste (sent. n. 122/2017) o di cuocere cibi in cella (sent. n. 186/2018) o di scambiarsi tra detenuti zucchero, caffè, saponetta e detersivo (sent. n. 97/2020). A breve, la Corte dovrà scrutinare le modalità dei colloqui tra i figli minorenni e il padre in regime detentivo speciale. È una microconflittualità alimentata da una pervasiva normazione sublegislativa, che – con la circolare Dap del 2 ottobre 2017 – si spinge a stabilire, ad esempio, le dimensioni dell’unica pentola (25 cm) e dell’unico pentolino (22 cm) in lega di acciaio leggero, il numero (non più di 30) e la misura (20×30 cm) delle fotografie consentite in cella, la quantità di matite colorate (non superiore a 12) nella disponibilità del ristretto in 41bis. Inviterei a non sottovalutare tale contenzioso. E non solo perché – come osservano inequivocabilmente i giudici costituzionali – in gioco sono “quei piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà del detenuto stesso” (sent. n. 97/2020). Guardata in campo lungo, quella microconflittualità rivela uno stillicidio di misure che, nel loro insieme, dettano il ritmo e il respiro di una detenzione quotidiana perennemente a rischio di tradursi in un trattamento contrario alla dignità umana, che con la persona fa tutt’uno. Questo raccontano le testimonianze di chi, in 41bis, ha trascorso o ancora trascorre lustri e talvolta decenni della propria vita. Questa è la preoccupazione che attraversa i report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, all’esito delle loro attività ispettive. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, più volte ha commisurato le applicazioni del 41bis al divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu), e non sempre l’Italia ne è uscita assolta, perché quel divieto è generale e assoluto, inderogabile anche in caso di “pericolo pubblico che minacci la vita della nazione” (art. 15 Cedu).
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Forse è l’ora di guardare alla luna (l’art. 41bis) e non alla punta del dito che la indica (la singola misura applicativa del 41bis). Forse va ripensata una giurisprudenza costituzionale dall’evidente vocazione ortopedica. Due soli esempi, a futura memoria. La Corte europea dei diritti valorizza il fattore-tempo come misura del grado di afflittività dei regimi detentivi speciali. Ebbene – ai sensi dell’art. 41bis – il carcere duro “ha durata pari a quattro anni ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni”, potenzialmente sine die, anche perché “il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente” per revocare o alleggerire le limitazioni imposte. Davvero ciò non viola l’art. 117, 1° comma, della Costituzione, che esige il rispetto dei nostri obblighi internazionali pattizi? La Corte costituzionale ora riconosce natura materialmente penale a tutte quelle misure penitenziarie idonee a trasformare la natura della pena e ad incidere concretamente sulla libertà personale (sent. n. 32/2020). Alla stregua di ciò, il 41bis va assunto per quel che concretamente è: una “pena accessoria speciale, a carattere discrezionale, da eseguirsi durante l’esecuzione della pena principale” (Angela Della Bella, Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Giuffré, 2016). Attratta così nell’orbita del diritto penale sostanziale, ne dovrà rispettare tutte le garanzie costituzionali: riserva assoluta di legge, riserva di giurisdizione, irretroattività delle sue modifiche in peius, proporzionalità, funzione rieducativa della detenzione. Davvero il carcere duro sta dentro questo rigoroso perimetro?
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A tali interrogativi la risposta più comune è un’alzata di spalle, facilmente traducibile: a mali estremi, estremi rimedi. E se circa 800 detenuti per reati efferati sono sottoposti al carcere duro, poco male: se lo sono meritati. Ricordo una vignetta di Altan, a rappresentare il dialogo tra un mafioso e il piccolo dodicenne Di Matteo (rapito perché figlio di un pentito, poi strangolato e infine sciolto nell’acido). Dice il primo: “Il carcere duro è inumano”. Risponde il secondo: “Vuoi fare cambio?”. È una tesi largamente diffusa e di facilissimo consenso. Non può però essere la tesi di uno Stato di diritto, dove la pena dovuta è la pena giusta, e la pena giusta è solo quella conforme a Costituzione.
Fonte: di Andrea Pugiotto/Il Riformista, 14 agosto 2020