L’assurda vicenda di Marco Galati: sbattuto in cella, ma il reato non c’è

 Più che da infiltrato pare essersi comportato da agente provocatore l’Uomo Ombra che per quattro anni ha vissuto quasi in simbiosi con Marco Galati, cinquantenne calabrese di Filadelfia emigrato in Svizzera da ragazzo, dove ha fatto un po’ di tutto, dal bodyguard alla guardia giurata fino a diventare ricco con l’apertura di un ristorante, il Bellavista, nella cittadina di Muri, nella Svizzera di lingua tedesca. Naturalmente è molto sospettoso sulla provenienza di quella ricchezza il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri che nel luglio scorso ha ridato linfa all’inchiesta Rinascita Scott con l’operazione “Imponimento”.

 Marco Galati viene arrestato insieme ad altre 74 persone nel luglio scorso e buttato nel carcere di Vibo Valentia con l’imputazione di associazione di stampo mafioso, il famoso articolo 416 bis del codice penale. Nessun reato-fine accompagna e sostiene quello associativo. Ma si scopre allora che l’indagato calabro-svizzero avrebbe vissuto per quattro anni in compagnia dell’Uomo Ombra, con cui ha fatto vacanze e cene, con cui è andato in palestra e con cui ha parlato di macchine e motori, di viaggi e di progetti per il futuro.

 E anche di armi, vere o finte, come quella scacciacani che l’infiltrato comprerà da un amico di Galati, con cui si lamenterà di esser stato imbrogliato. L’Uomo Ombra svolgerà con scrupolo il suo compito. C’è un accordo stipulato tra l’Italia e la Svizzera e un gruppo di lavoro per indagini comuni che riguardano il mondo dei cittadini calabresi emigrati in terra elvetica. Ne individuano tre, e Galati è uno di questi. Si cerca quella cosca della ‘ndrangheta che si rivelerà, a detta degli stessi inquirenti, inesistente.

 L’infiltrato prova a proporgli di fare affari con opere d’arte o diamanti, ma senza successo. Il suo amico pare più interessato a cambiare franchi in euro possibilmente attraverso agenzie private e un po’ borderline per fare arrivare i soldi in Italia per comprarsi una bella casa in Calabria. Magari cercando di non pagare troppe tasse. Ma reati veri e propri non se ne trovano. Marco Galati viene sottoposto a “tentazioni” non solo dall’infiltrato. Con la sua terra d’origine ha mantenuto rapporti di amicizia, e sono relazioni “pesanti”, come quella con la famiglia Anello, il cui capostipite Rocco è considerato un boss di un certo peso a tutti gli effetti. Sarà proprio lui a proporgli di entrare in affari insieme, ma la risposta sarà no. E questo suo rifiuto sarà considerato dai giudici del riesame, che hanno respinto la richiesta del suo avvocato Antonio Zoccali di scarcerazione o arresti domiciliari, un'”astuzia”, una sorta di copertura del partecipante all’associazione mafiosa che preferisce lavorare sott’acqua per i suoi compari. Una specie di “concorso esterno”.

 Resta il fatto che nessun “pentito”, nelle inchieste sulla ‘ndrangheta che partono addirittura dal 2004, ha mai fatto il suo nome, né lui mai appare in alcuna intercettazione. È solo amico di Rocco Anello e quando va in Calabria i due si vedono sotto gli occhi di tutti. Il suo avvocato è sconcertato soprattutto per le tante anomalie procedurali di questa inchiesta e di questo modo di fare degli inquirenti, ma anche dei giudici.

 Il tribunale del riesame sembra giustificare tutto, anche certe sciatterie del copia-incolla ad opera dei gip che la stessa Suprema Corte giustifica, così come il fatto di usare il reato associativo per fare la pesca a strascico e fare di tutt’erba un fascio. Ora si aspetta la cassazione. L’avvocato Zoccali è da sempre un penalista e conosce bene la filosofia dei maxiprocessi (“mi sono formato su quello di Palermo”), anche se negli ultimi anni si è impegnato più in organismi di vigilanza e controllo, oltre che nell’Agenzia dei beni confiscati.

 Ha accettato la difesa di Galati perché è un compaesano di Filadelfia, ma soprattutto perché ha intuito che dietro le “anomalie” procedurali si stava rischiando violare lo stesso principio del costituzionale del giusto processo. Perché l’Uomo Ombra non ha mai registrato nulla dei suoi incontri con la sua “vittima”, ha solo preso appunti, poi riversati in una relazione, che finirà in Svizzera negli uffici di una società privata, e in Italia nelle mani della Dda di Catanzaro.

 Ma è tutto qui, e non è sufficiente per dimostrare l’appartenenza a una cosca mafiosa. “Il processo – dice il legale – deve verificare se una persona ha rubato o ucciso, non serve a combattere la criminalità organizzata. Inoltre, con tanti imputati, può capitare che vengano coinvolte persone su cui i giudici non riescono neppure a valutare la posizione. E non vorrei che Marco Galati finisse per pagare qualche comportamento personale che non c’entra niente con l’associazione mafiosa”.

 

 Fonte/di Tiziana Maiolo/ Il Riformista, 31 ottobre 2020