Vi racconto il mio libro/ Vittime Assassini Processi/ Introduzione: Il Prologo

Da giudiziarista, cronista giudiziario, mi sono approcciato ai delitti fin dai primi anni della mia milizia giornalistica. Anni Sessanta. Ma è dall’Ottocento che l’opinione pubblica segue avidamente le vicende legate ai crimini più efferati e ai processi celebri.

La frequenza delle Corti di Assisi, in particolare, (ma anche i miei venti anni come funzionario del Ministero della Giustizia presso la Corte di Appello di Napoli) mi ha spinto sempre di più ad interessarmi degli omicidi, con un particolare movente. Ma, nell’approfondire questi argomenti e divorare tutta la saggistica noir, ho subito constatato che la nostra provincia non era diversa, dal mondo intero e che negli archivi e nelle cancellerie vi erano delitti atroci, barbari, inusitati, raccapriccianti.

Nel 1960 avvenne il delitto del medico sammaritano Aurelio Tafuri, il cui movente mi fulminò sulla via di Damasco! Stetti per quasi 15 anni a raccogliere materiale inedito (le arringhe, le perizie, le foto, i ritagli di giornali, le testimonianze) venne fuori la mia opera prima: “Il delitto di un uomo normale”. Fu una rivalsa per riscattarmi da anni bui che avevo attraversato, con vicende drammatiche e dirompenti della mia vita. Mi ripresi.

Il libro edito da Il Filo – Albatros e distribuito da Mursia Editore (pubblicato nel 2009 con una pregevole prefazione del criminologo Carmelo Lavorino) venne ristampato ed andò esaurito. Ma passò quasi in ombra nella provincia, abituata ad osannare cronisti con la scorta e pluripremiati.

Poi Alfonso Martucci, qualche tempo prima che finisse (2008) mi consegnò una velina della sua difesa per il processo Tafuri. Lui era stato compagno d’infanzia del medico assassino e lo aveva difeso in Corte di Assise con una arringa memorabile. Vi è da premettere che io sono nato a via Torre, oggi via Alberto Martucci; mia sorella Melina aveva cresimato la sorella Giuseppina, suora di clausura nelle Domenicane di Alba; frequentavo il suo studio già da giovane, lui mi voleva bene, mi dava consigli su come impostare il libro su Tafuri. Non feci in tempo ad inserirla nell’edizione in preparazione (che già conteneva le arringhe di Enrico Altavilla e Alfredo De Marsico) anche perché era scritta a macchina con molti refusi ed era lunghissima.

Continuai a raccogliere materiale sulla vicenda e dopo alcuni anni venne fuori il mio secondo libro “Il caso Tafuri”, arricchito dalla bellissima arringa dell’avvocato Martucci. Brutto nel formato. Illeggibile e mastodontico. Ma fu stampato in quel modo perché – su consiglio di un mio amico professore universitario della Facoltà di Giurisprudenza – era diretto ai giovani che si affacciavano alla professione forense. Infatti, la maggior parte delle copie furono vendute nelle due librerie che trattano testi universitari.

Boicottato da tutta la borghesia sammaritana perché avevo esposto al pubblico ludibrio con una analisi approfondita – una delle famiglie più in vista della città bigotta ma anche perché avevo fatto i nomi delle signore della “santamaria-bene” che frequentavano i convegni nella villa di Castelvolturno, i balletti e gli strip a base di cocaina; avversato dai parenti e affini (la cameriera della famiglia Tafuri diffidava gli edicolanti ad esporre

le copie del mio libro) mentre la famiglia minacciava, attraverso gli avvocati, querele e citazioni.

Ignorato da quasi tutti gli azzeccagarbugli del Foro sammaritano (ipocriti, invidiosi e ignoranti) più occupati a conquistare la poltrona lasciata vuota da Elio Sticco – tutti proni per leccare il culo ai magistrati che dispensano gli incarichi fallimentari delle curatele – che ad acculturarsi.

Infatti il banchetto all’ingresso del tribunale delle Edizioni Giuffrè vendette due-tre copie. Se non un fallimento fu un vero e proprio disastro editoriale.

Già avevo dovuto attendere vari anni la morte della mamma di Tafuri, che era una “bizzoca”, amica di mia sorella Melina, la quale mi ripeteva continuamente di non pubblicare il libro perché “troppo brutto”…!

Vi è da dire però che “Nessuno è profeta nella propria Patria”, che continuo ad avere richieste e sono costretto a ristampare continuamente il libro per lettori… non sammaritani!

Addirittura il maestro di musica Pino Carolis ha voluto scrivere una ballata per cantastorie con chitarra, in là minore… intitolata: “La truce storia del Tafuri”. Alla faccia di tutti i detrattori. Prosit!

Poi a maggio 2017, ad ottanta anni compiuti, ho pubblicato il mio terzo libro “Delitti in bianco e nero a Caserta” con prefazione del direttore editoriale del giornale Cronache di Caserta Ugo Clemente. Esaurito già in prima battuta e ristampato dopo appena quattro mesi. Il segreto? Non è monotematico.

Ora questo, “Vittime, Assassini e Processi”, che

riporta delitti efferati che vanno dal 1920 ai nostri giorni. Non sono stati scelti a caso. Ma per movente.

Questo “Vittime, Assassini e Processi” è dunque il sequel di “Delitti in Bianco & Nero”, e racconta i fatti, i misfatti, i delitti e i processi che ne seguirono. Vendette, delitti di prossimità, delitti d’onore, di interesse, di gelosia, d’amore e di odio. Accoltellati, strangolati, soffocati, avvelenati, sparati, bruciati, annegati, impiccati, a martellate, gettati nel vuoto, a sassate, picconate, bastonate, fatti a pezzi, squartati, decapitati.

Questi i metodi adoperati per sopprimere le vittime.

Dagli episodi pubblicati in “Delitti in Bianco & Nero”; da quelli descritti in questo “sequel”, e dai testi del libro in preparazione “Delitti e Processi in Terra di Lavoro”, la cui uscita e prevista per Maggio 2021, sarà possibile in futuro redigere un “Repertorio del delitto casertano”.

            UNA SINTESI DEI DELITTI

Albanova 1932, Antonietta Caterino di 47 anni – novella mantide – uccide il genero con due colpi di pistola davanti alla figlia. Lui, il 24enne Doroteo Panaro, si era stancato della relazione incestuosa. A Liberi, il 14 luglio del 1950, Salvatore Di Dario, 33enne sergente dell’esercito, uccide il giovane amante della moglie Ermenegildo Parillo e ferisce gravemente la donna. A Capua, il 22 settembre del 1951, il barbiere 37enne Gaetano Guarino uccide a forbiciate, poco distante dalla storica piazza Dei Giudici, il 47enne Giuseppe Lanziello che riteneva amante della moglie. Ancora più raccapricciante la vendetta di Carolina Maddalena, una vedova 39enne di Prata Sannita la quale, a maggio dello stesso anno assassinò, con due colpi di scure in testa, il 25enne Giuseppe Martellino, che dopo aver sedotto la figlia minorenne, Dora Elisa Cennami, si rifiutò di sposarla. A questa vendetta per motivi d’onore fece da eco la drammatica sparatoria nell’aula di udienza della Pretura di Carinola, il 7 febbraio del 1952, dove si stava celebrando il processo a carico di Stanislao Lanfranchi, accusato di violenza sessuale. La 23enne Addolorata Di Toro, da Mondragone, esplose otto colpi di pistola all’indirizzo del suo seduttore riducendolo in fin di vita. Ci spostiamo poi a Maddaloni e giungiamo così al 9 ottobre del 1954, allorquando Michele Arcangelo Otranto – nello studio medico Manfredonia – uccise a coltellate la moglie, Rosina Consoli, che riteneva amante del medico. Boccaccesco e inverosimile il duplice omicidio di Gaetano Iossa di 28 anni a Sant’ Andrea del Pizzone – nell’agosto dello stesso anno – che uccise la moglie Vincenzina De Cicco (che aveva in braccia il figlioletto di qualche anno) e la suocera Francesca Aperuta. Quest’ultima, vedova, pretendeva rapporti sessuali col genero. Tra tutti i cruenti episodi riportati nel libro (che definire di tragedia sarebbe veramente riduttivo) spicca il caso emblematico di quel giovane di Casal di Principe, il 29enne Orlando Gagliardi, che volendo dimostrare  alla sua fidanzatina di essere un provetto tiratore pretese di fare la riga dei capelli al giovane Luigi Della Corte con un colpo di pistola, che invece fracassò la testa del malcapitato tramutandolo immediatamente in cadavere. L’ epilogo di “Vittime, Assassini e Processi” è sconvolgente. I racconti affabulano il lettore e lo coinvolgono prima nel mistero del mostro della città del Foro: Maria la capuana detta Zazzà, Katia Tondi e Antonietta Afieri (con la vendetta del delitto di Niko Merola figlio della vittima). Tre donne uccise ancora senza colpevoli, con il caso Tondi ancora in bilico tra rapina e uxoricidio; poi si attarda sulle due donne murate vive nella villetta degli orrori di Castelvolturno.

Ma c’è un finale aberrante. Un professore di Venezia, Stefano Perale (impotente sessualmente) ma innamorato di Anastasiia Shaskirova, russa, bella, divorziata, in stato interessante (attende un figlio dal suo nuovo compagno, l’ingegnere casertano Biagio Buonomo) invita la coppia a cena, uccide entrambi, poi filma i suoi rapporto sessuali con il cadavere della bella Anastasiia. Confesserà di essere affetto da coprofagia: mangiava il suo sterco per affrancarsi della sua impotenza sessuale. La gelosia, il sesso, il tradimento, la vendetta: fanno da sfondo ad ogni racconto. A processo concluso con l’ergastolo, il marinaio aversano Ciro Guarante, che fece a pezzi e murò il suo rivale in amore, Vincenzo Ruggiero esponente di primo piano dell’Arcigay – perché geloso della trans Heven Grimaldi, in arte Tiffany (una Pretty Woman in chiave nostrana) e la degna chiusura di questo noir esclusivamente casertano. Viviamo in un tempo straordinario in cui la non finction è più interessante ma anche più difficile da credere nella finzione. Dunque, la cronaca e la storia – come ha evidenziato Ferraro nella sua prefazione – ma anche e principalmente come ci ha insegnato Kafka: una storia se non la racconti muore.

(2-Continua)