Due vendette con tre morti
 
 
Il 2 giugno 1946, alle 10,30, alla via Roma, mentre tutti i cittadini
italiani – comprese le donne – erano impegnati in una consultazione politica nazionale per eleggere i componenti dell’Assemblea Costituente (che doveva redigere la nuova carta costituzionale,) ad Albanova si consumò il primo delitto della Nuova Repubblica. Il tutto è sancito nella sentenza del 5 luglio del 1948, emessa dalla Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Napoli.
 
Un commando criminale composto da Giovanni, Giacomo e
Oreste Iovine; Giacomo Caterino e Giuseppe Cecoro, fu accusato di avere, in quella fatidica data, commesso un atroce delitto. Il primo della storia moderna. Furono ben setti i colpi di pistola sparati all’indirizzo di Ersilio Riccardo, e per errore venne anche ferito il giovane Antonio Spierto. Dalle prime indagini Giacomo Caterino e Oreste Iovine furono ritenuti dagli inquirenti gli istigatori dell’omicidio. Giuseppe Cecora, invece, venne accusato di falsa testimonianza per aver deposto in un procedente processo a carico dei 4 casalesi.
 
L’assassino era un giovane di 22 anni, Giovanni Iovine (componente di una famiglia che farà parlare molto di sé), il quale, prima di darsi alla latitanza, in pubblica piazza gremita di gente per la fatidica data, con evidente spavalderia a distanza ravvicinata esplose 7 colpi di pistola uccidendo il giovane Ersilio Riccardo che nella circostanza era in compagnia del cugino Giuseppe; due colpi, però, dei sette esplosi, raggiunsero il 17enne Antonio Spierto. Alcuni testimoni notarono anche
i fratelli Iovine e il loro parente Giacomo Caterino i quali – armati di tutto punto ed armi in pugno – si allontanavano dal luogo del delitto. Ma questo delitto perpetrato per vendetta aveva un antefatto.
Il primo episodio si fa risalire al 1944, epoca in cui venne provocato un danneggiamento ad opera dello Iovine in danno di un fondo di proprietà della famiglia Riccardo. Nel corso dell’episodio pare – così come accertarono i rappresentanti della Fedelissima – i due vennero a lite ed entrambi sparando uno con il fucile e l’altro con la pistola, si produssero
vicendevolmente lesioni gravi. Nella circostanza rimasero feriti sia il Riccardo che Giuseppe e Giacomo Iovine.
 
La perizia necroscopica effettuata sul cadavere del Riccardo –
rimasto freddato al centro del paese – accertò che il giovane era stato colpito a bruciapelo: un colpo gli spezzò il cuore in due parti, un altro trafisse il polmone ed il terzo il fegato. La morte fu immediata. Dopo una breve latitanza l’assassino si costituì ai carabinieri ed al magistrato inquirente dichiarò che lui aveva fatto fuoco perché era stato più volte minacciato e perché gli era parso (è un modus operandi) che la vittima avesse messo una mano nella tasca dei pantaloni per estrare una rivoltella.
Negò che i familiari lo avessero istigato al delitto.
 
Sulla scorta dei dati anamnestici familiari i difensori di Giovanni
Iovine richiesero una perizia psichiatrica sulla stato di mente dell’imputato. Il Giudice Istruttore affidò l’incarico peritale ai proff. Eustachio Zara e Vittorio Della Pietra, rispettivamente direttore e vice dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Napoli. Le conclusioni furono che lo Iovine era uno “psico-degenerato che presentava episodi di psicosici, a tipo vasanico,
e che le sue condizioni psichiche – quando commise il fatto – era in uno stato di mente che gradatamente diminuiva – senza escluderla – la sua capacità di intendere e volere”.
 
Questa diagnosi ebbe una parziale conferma con consulenza di
parte, affidata al consulente professor Pasquale Penta, il quale diagnosticava che l’imputato: “era un epilettico frenastenico-cerebropatico che, colpito da un episodio delineare allucinatorio, aveva agito senza la capacità di intendere e volere”.
 
Intanto – nel corso dei diversi interrogatori – tutti gli altri imputati si protestarono innocenti e negarono sia di essere stati sul luogo del delitto sia di conoscere i fatti verificatisi prima dell’omicidio. I testimoni, che avevano dichiarato il contrario ai carabinieri, innanzi al magistrato cambiarono idea e ritrattarono il tutto (anche questo è un modus operandi in loco). Tutti denunciati per falsa testimonianza. Ma in quella zona ed a
quell’epoca quel comportamento era il riconoscimento formale di “uomo d’onore casalese”.
 
A riprova delle instabilità mentali, non solo dell’imputato, ma
dell’intera famiglia Iovine, il Dott. Gennaro Cantelli, Direttore del Manicomio Civile di Aversa, produsse una documentazione dalla quale si evinceva che sia Carmine Iovine, fu Antonio, che Michele, figlio di Carmine, erano affetti da “turbe-psichiche”; che la famiglia aveva membri che erano soggetti a notevoli e numerosi precedenti “neuropsicopatici”; che la nonna materna era sofferente di “malinconia recidivante” ed era morta durante
un processo di depressione per esaurimento da “sitofobia”. Il padre dell’imputato era diabetico e la madre affetta da “ticcosa e eccesso di lipotisia”il fratello Giovanni era stato curato nel manicomio di Aversa e successivamente accusato di omicidio ed in seguito a perizia psichiatrica era stato prosciolto per “vizio di mente” ed in quell’epoca (1951) era internato nel manicomio. Una dinastia di zombie, insomma.



 
                             Il secondo delitto e la vendetta
 
Con il rapporto del 18 ottobre del 1950 i carabinieri di Casal
di Principe riferivano che verso le ore 14:30 del 14 decorso avevano avuto notizia che il giovane contadino Michele Iovine aveva ferito gravemente, mediante colpi di pistola, tal Francesco Castiello, di anni 25,  da San Cipriano d’Aversa, alla via Roma. Recatisi sul posto i militari poterono stabilire soltanto che il delitto si era svolto all’altezza del salone del barbiere Emilio Caterino, come avevano dichiarato i testimoni oculari
Giovanni Iovine, Pietro Iovine e Giovanni Caterino, giacchè Michele Iovine – indicato come l’assassino – si era dato nel frattempo alla latitanza e il Castiello era stato trasportato presso un sanitario con un’automobile di transito.
 
Alle ore le 18:30 dello stesso giorno il giovane Patrizio Capoluongo, consegnava un certificato medico della Casa di Cura per la chirurgia ginecologia ortopedia di Napoli, a firma del dottor Raffaele Di Bello. In esso era detto: “Ho ricoverato ed operato di urgenza, alle 16:30 per ferita di arma da fuoco, con forame di entrata alla regione sacrale sinistra e foratura
di uscita alla regione sopra pubica sinistra il signor Francesco Castiello a giudizio riservato. Napoli 14 ottobre 1950”.
 
 
Il maresciallo Giovanni Porcaro si recava, quindi, alla clinica
suddetta il giorno successivo e procedeva all’interrogatorio del ferito. Costui affermava che il giorno prima, verso le 12, mentre percorreva la via Roma di San Cipriano, in bicicletta, si era incontrato all’altezza del Palazzo Comunale con Michele Iovine, al quale aveva rivolto il saluto, ricevendo in risposta un cenno di ricambio. Egli aveva poi continuato la sua strada verso Casal di Principe facendosi radere la barba nella bottega di certo Luigi Goglia e recandosi, poscia, ad acquistare dei calzini e una camicia nei negozi di tale Francesco Caterino. Al ritorno, nel percorrere la via Roma di San Cipriano, aveva notato, seduto davanti al salone di Emilio Caterino, il Michele Iovine e gli aveva di nuovo rivolto il saluto. L’altro, questa volta, non aveva risposto. Sorpassatolo di appena pochi metri con la sua bicicletta, esso Castiello era stato fatto segno a quattro colpi di pistola da parte dello Iovine, come aveva avuto modo di constatare volgendo istintivamente lo sguardo indietro, ed era stato ferito da uno dei colpi che l’aveva attinto alla regione sacrale.

Il suo avversario si era rapidamente allontanato dopo gli spari,
ancora con la pistola in pugno, mentre egli pedalando con un solo piede, era riuscito a raggiungere l’abitazione di uno zio, Antonio Reccia, ove era stato visitato prontamente dai dottori Mario Tancredi e Giovanni Del Villano.
 
I carabinieri denunciarono pertanto lo Iovine, in stato di latitanza, quale responsabile di omicidio volontario premeditato, di omessa denuncia di arma, non risultando che il suddetto fosse peraltro munito di porto di arma, o che l’avesse denunciata.
Dall’autopsia eseguita sul cadavere del Castiello emergeva, innanzitutto, che il Castiello aveva subito un intervento laparatomico stante la presenza di un taglio andando dall’ombelico al pube suturato con 12 Michel e 4 punti in seta. Successivamente – su richiesta del difensore Avv. Giuseppe Garofalo – l’imputato veniva sottoposto a perizia
psichiatrica da parte dei proff. Giuseppe Lavitola e Salvatore Tolone.

All’esito di una lunga osservazione i due periti presentavano distinte relazioni concludendosi dall’uno che lo Iovine “era seminfermo di mente” dall’altro che l’imputato era invece completamente sano e pienamente “capace di intendere di volere al momento del fatto”.
Disposta quindi un’altra perizia affidata al professor Eustachio
Zara veniva confermato da quest’ultimo il giudizio espresso dal professor Tolone affermandosi che lo Iovine non era affetto da alcuna “malattia mentale” e che lo stesso presentava soltanto note evidenti di “anormalità- costituzionale” per cui doveva considerarsi socialmente pericoloso.
 
A chiusura dell’istruttoria formale la Corte di Appello mandava
al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere sia Michele Iovine, per rispondere di omicidio volontario ai danni del Castiello, e sia il professor Raffaele Di Bello, per rispondere di omicidio colposo.
 
È la prima volta, nella mia lunga milizia di cronista giudiziario, che mi si presenta un caso dove due persone – a titolo diverso – vengono accusate di aver ucciso la stessa persona.
 

                   La condanna fu ad anni 18 di reclusione



 
Il giovane 21enne Michele Iovine, venne rinviato, come detto, al
giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, per rispondere di omicidio volontario premeditato aggravato in danno di Francesco Castiello. Il medico Raffaele Di Bello venne a sua volta rinviato a giudizio per rispondere di omicidio colposo. Ma a determinare l’atmosfera ed a renderla incandescente fu una lettera anonima spedita da Casal di Principe e recapitata al Presidente Giovanni Morfino, che aveva come giudice
a latere Victor Ugo De Donato e come pubblico ministero Nicola Damiani, nel corso della udienza del 25 maggio del 1954.
 
“Eccellenza – esordiva la missiva scritta molto sgrammaticata e
con grafia infantile, che qui ripropongo senza le dovute correzioni lasciando la punteggiatura originale – “giurò sul nome di giesù che questo scritto è vangelo di messa. La causa di Iovine Michele che state giudicando, è delicata, io sono una persona estranea tanto per l’una che per l’altra, e solo farvi conoscere la verità, dimostratela anche alla giuria in segreto, che io che una anonima non vale a nulla, ma non è una anonima, evangelo…Iovine Michele ha ucciso, no per provocazione ne per difesa – per vecchi rancori e per guapparia, e per che non pagano omicidi,
con Falsi testi morì buttando milioni – come l’altro Fratello unomicidio consigliato in Famiglia dovevano Finire tutti ingalera, lo pagò 5 anni di manicomio, così dovrei essere sana la mia mente come quella di Giovanni Iovine…(si riferisce al delitto
del 2 giugno 1946 N.d.A) guesto sa Fare il denaro…….eccellenza i due destimoni Nappa anno avuto dalla Famiglia Iovine 200 mila lire ciascuno per Fare il Falso testimonio – Vi giuro su dio e se mendisco catrà su di me – i Nappi non cerano presente al Fatto.. con guesto vivono di male azzione ….. a macchiarsi di tanta in-
Famia per il denaro: accusando guel povero giovane morto, che avrebbe sputato in- Faccia al Iovine e uningiustizia- Eccellenza poi a guale scopo? Per Farsi ammazzare? Conprendete la situazione e Fate giustizia Vi giuro angora sul nome di dio che sono perzona estrana a guesto Fatto ed tutta verità”.
 
Alla prima udienza, il 3 giugno del 1954, si costituivano le parti
civili Michelina Reccia, Gabriele Castiello ed i figli Generoso e Nicola.

La Corte – su richiesta del pubblico ministero – ordinava due “superperizie” che venivano consegnate dopo un anno, il 2 settembre del 1955.
Nel merito la Corte osservò che vi era certezza assoluta sull’autore del delitto. Nicola Reccia – testimone a discarico – dichiarò che un giorno della scorsa estate (1949) andò ad attingere un secchio di acqua al pozzo della masseria di Castiello. Gabriele Castiello gli si avvicinò e disse: “A te dovrei ucciderti perché tuo padre è stato l’autore a far acquistare questa terra a
Carmine Iovine”.

Domenico Zara dichiarò, a sua volta, che due giorni prima del
delitto portò il cavallo di Iovine ad abbeverare al pozzo dei Castiello e il defunto, vistolo, disse: “Un’altra volta con questo cavallo! Alla prossima volta ammazzo te e il cavallo e dillo anche al tuo padrone. Hai capito che glielo devi dire?”.
Invece Raffaele Papa si trovò in casa Castiello quando si dovette
portare l’estaglio a Iovine. Poiché il grano era di pessima qualità, ci si chiedeva chi dovesse andarvi, al che la madre del defunto disse: “Ci va Ciccillo, così loro non fiatano proprio”.
“Ritenuto, quindi – sentenziò la Corte – che lo Iovine è perfettamente imputabile non può dubitarsi della sua consapevolezza in ordine al delitto di omicidio a lui ascritto. La condanna è determinata in anni 18 di reclusione con la concessione delle attenuanti generiche e la esclusione delle aggravanti”. Il medico venne invece assolto perchè “il fatto non sussisteva” dall’omicidio colposo.

La Corte di Assise di Appello di Napoli, con sentenza del 26

novembre del 1958, ridusse la pena a 14 anni. La Corte di Cassazione, in data 31 gennaio del 1959, rigettò il ricorso. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati – a vario titolo – gli avvocati: Luigi Palumbo, Giuseppe Garofalo, Ettore Botti, Ciro Maffuccini, Alberto Martucci, Alfonso Raffone, Nicola Manco e Luciano Numeroso.


(4- Continua)