La cultura giurisdizionale non prevede l’esaltazione del “carcere duro”

In un recente articolo l’ex magistrato Gian Carlo Caselli senza ipocrisie fa un osanna al “giustizialismo” e quindi scava un solco ancora più profondo con il “garantismo”. In vero non ho mai accettato questa distinzione perché ritenevo e ritengo che come cittadini schierati per lo Stato di diritto dovessimo tutti essere ubbidienti alla Costituzione Repubblicana che, dopo anni e anni di battaglie per la libertà e per la democrazia, recepisce quel valore.

Caselli si dichiara contrario alle recenti prese di posizione della Corte Costituzionale sui detenuti sottoposti al “carcere duro” dell’art. 41bis e sostiene che la mafia non è un fenomeno occasionale, una emergenza destinata ad essere superata, ma è una “realtà che può cessare o con il pentimento o con la morte”. Sono parole gravi per un servitore dello Stato che dovrebbe essere rispettoso fino in fondo, per il ruolo che ha svolto, dello Stato di diritto e dei diritti delle persone. La funzione da lui svolta è quella del pubblico ministero, cioè di una “parte” nel processo che “accusa” in base agli indizi raccolti, che nel dibattimento debbono diventare prove.

Caselli da sempre in polemica con chi ritiene che la funzione del pm debba essere separata nettamente nella carriera e nelle funzioni da quella del giudice, sostiene che questo non è possibile perché il pm deve acquisire la “cultura della giurisdizione”, quindi in qualche modo deve essere giudice.

Le prese di posizione di tanti pm hanno dimostrato il contrario, ma l’ultima presa di posizione di Caselli dimostra in maniera incontrovertibile che non è possibile per un pm la cultura della giurisdizione altrimenti non potrebbe esaltare il “carcere duro” del 41bis contro la Costituzione e la dichiarazione dei diritti umani! Caselli, dunque, dopo una vita di intenso lavoro a lottare contro la corruzione e contro la mafia, ha certamente maturato un’esperienza concreta di contrasto alla mafia, ma probabilmente l’ha maturata in maniera così intensa con un lavoro assiduo a cui si è sottoposto, che è scomparsa nella sua cultura ogni altra valutazione serena e equilibrata e appunto la “cultura giurisdizionale”.

Egli fa il mestiere dell’accusatore, quello di chi “lotta” contro la mafia, contro la corruzione contro la società malata e quindi ha i paraocchi anche ora da pensionato: la “lotta” presuppone una scelta politica, e in questo caso una utilizzazione del diritto per dimostrare un proprio pensiero e un proprio teorema. D’altra parte è indicativo che Caselli in un recente articolo del Corriere della Sera dichiari anche lì senza infingimenti e ipocrisie che: “Mani pulite e le inchieste su mafia e politica segnarono un forte recupero di legalità. E rispolverarono la questione morale, fin lì relegata in soffitta. Nel senso che le inchieste rivelarono anche responsabilità sul piano politico e morale che altrimenti (senza il disvelamento giudiziario) nessuno avrebbe mai neanche pensato di far valere”.

Ecco la prova della grave anomalia delle indagini non solo di “tangentopoli” per cui la “responsabilità morale” invade quella penale e il giudice, come sostengo da anni, diventa “giudice etico” per uno Stato etico! Per fortuna le sue indagini non hanno retto al giudizio del giudice e un esponente delle istituzioni come lui dovrebbe prenderne atto e comprendere che il giudice non garantisce la “questione morale”, né la legalità, ma reprime l’illegalità, condanna il reo, non il costume, il sistema o il fenomeno. Questo il ruolo del giudice necessario per garantire l’equilibrio dei poteri e l’assetto giuridico e sociale. Il diritto è mite e la sanzione serve per riparare lo strappo che il reato ha determinato nel tessuto della società e ha la funzione di “redimere” il reo, di reintegrarlo nella società.

In questo consiste l’armonia del diritto e la garanzia democratica delle norme della Costituzione. Quando una società dimentica questi principi fondamentali che configurano lo Stato di diritto, non è più solidale, è piena di rancori e di rivalsa e le conseguenze sono il giustizialismo e il populismo che da vari anni hanno accentuato la crisi del diritto. La crisi della norma infatti non ha più carattere generale, non è erga omnes, e ha aggravato l’incertezza del diritto alimentando l’idea che tutto si risolve con la condanna e con la persecuzione del reo, con il “carcere duro”, perché solo così si riscatta la società e trionfa la questione morale.

Questa sub cultura ha dilagato dopo gli anni 90 e in particolare dopo le indagini di Tangentopoli che hanno condannato il sistema politico e sociale nel suo complesso e che hanno processato i fenomeni, e si è riadirata a tal punto da ispirare i rappresentanti del governo grillino per i quali l’unica prospettiva è quella di risolvere ogni questione con l’aggravamento delle pene, con la introduzione nel codice di nuovi reati, con la eliminazione delle prescrizioni, e con l’esaltazione del carcere come rimedio di tutti i mali. Ha la prevalenza il sospetto generalizzato che sostituisce la prova: uno degli aspetti più vistosi del giustizialismo.

Una parte della magistratura utilizzando il potere di indagine ha alimentato questa (sub) cultura che ha determinato lo squilibrio istituzionale aggravato dalla rinunzia del potere politico ad affermare il primato della politica. Il direttore del giornale ha scritto un editoriale importante per una analisi che va al di là delle cose di casa nostra, cioè dell’Italia riferendosi alla crisi della giustizia che getta ombre anche nella democrazia americana, e ha ricordato che il diritto è garanzia contro la sopraffazione, è dignità della persona. Senza diritto c’è sopraffazione. Ricordare questi principi elementari che sono la conquista di un processo storico che ha portato allo Stato moderno democratico, diventa importante per difendere la nostra democrazia in un periodo di grandi difficoltà. Il contenuto della democrazia è questo e presuppone la “cultura delle istituzioni”, e l’ossequio ai diritti fondamentali della persona.

Fonte: di Giuseppe Gargani/ Il Dubbio / Ex parlamentare