1.095
VI RACCONTO IL MIO LIBRO
Uno: tentò di uccidere la moglie, per motivi d’onore; l’altro: lo zio per una eredità contesa
I carabinieri della Stazione di Arienzo, con rapporto del 14 ottobre
del 1950, denunziarono al Procuratore della Repubblica di Santa
Maria Capua Vetere che il giorno precedente nel comune di San Felice
a Cancello, tale Mario Diglio, di anni 26, alle ore 20,45 circa, si era
portato nell’abitazione della suocera Carmela Pirozzi, armato di rivoltella,
ed avendo trovato la moglie, Maria Sgambato, aveva esploso contro
alla stessa 5 colpi di pistola. Il Diglio, dopo il delitto, si era allontanato
mentre la Sgambato, ferita in varie parti del corpo, avendo
riportato ben 5 lesioni alla regione toracica ed addominale, veniva immediatamente,
per la gravità delle stesse, trasportata all’ospedale dei
Pellegrini di Napoli.
Interrogata la donna ferita assieme ai familiari ebbero concordemente
ad affermare che la causale dell’aggressione compiuta dal Diglio,
con il suo gesto criminoso, consisteva in un dissidio, avvenuto poco
prima, tra i due, per una scottatura che il Diglio aveva riportato alla
mano destra nel preparare il forno per il pane. Diversamente invece,
dichiararono, i familiari del Diglio i quali affermarono che il tentativo
di omicidio del loro congiunto era stato determinato per “motivi di onore”
avendo avuto la Sgambato notoriamente “una condotta irregolare” (così
era definito l’adulterio molto eufemisticamente in quegli anni) durante
l’assenza del marito, (per ragioni militari,) aveva un amante fisso, un
tale Alfonso Nuzzo di anni 40, (oltre che tresche occasionali con altri
uomini) in compagnia del quale era stata sorpresa dal marito poco
prima del fatto delittuoso.
Il Diglio, per mettere in atto il suo proposito, aveva scavalcato
il muro del cortile della casa della madre della Sgambato e poi era entrato
nella stessa, minacciando la suocera e le cognate che mentirono
per farlo allontanare avendo intuito il proposito di lui il quale, con grande
sorpresa, nello spingere l’uscio della casa aveva visto la moglie ed il suo amante
giacere nello stesso letto. Dopo le pronte indagini fu emesso contro il
Diglio ordine di cattura per tentato omicidio, minacce e violazione di
domicilio.
Dopo poco, però, il latitante si costituì presso la caserma dei carabinieri
di Arienzo e nel suo interrogatorio, innanzi al magistrato istruttore,
dichiarò di avere tentato di uccidere la moglie nelle accennate circostanze
perché poco prima essendosi portato nella casa del Nuzzo allo
scopo di domandare alla madre di lui, se avesse per caso visto la propria
moglie, con grande sorpresa nello spingere l’uscio della casa aveva visto
la moglie ed il suo amante giacere nello stesso letto. Si era poi diretto a
casa sua, per armarsi, ed al ritorno aveva incontrato la moglie mentre
si dirigeva di corsa verso la casa paterna, lui l’aveva inseguita e poi le
aveva sparato 5 colpi di arma da fuoco (pessimo tiratore… nonostante
avesse fatto la guerra nell’esercito… o mancanza di volontà omicida?).
Dichiarò di essere in possesso dell’arma per averla trovata qualche
giorno prima del fatto per strada abbandonata e di averla poi gettata
dopo il delitto. Era naturalmente una bugia!
Nel corso della formale istruzione furono escussi vari testi. La
Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Napoli ritenne più che sufficienti
gli elementi per accusare Mario Diglio di tentato omicidio in
danno della moglie. Tale tesi era confermata non solo dai testi e dalle
indagini dei carabinieri nonché dalla confessione dell’imputato. “Non
può dubitarsi che il Diglio – scrissero i giudici nell’istruttoria – in casa della
suocera ebbe ad esplodere diversi colpi di arma da fuoco contro la moglie, ferendola
al torace e allo sterno con la evidente finalità di ucciderla”.
Il Diglio però – nel corso degli interrogatori – non ha potuto negare
la volontà di uccidere la moglie, anche se gli inquirenti dedussero
ciò dalla reiterazione dei colpi micidiali i quali attraversarono il torace
e l’addome mettendo in pericolo di vita la donna per vari giorni tanto
da far dedurre al perito dottor Ettore Ambrogi, che era scampata per puro
miracolo alla morte. Quanto alla causale va rilevato che l’imputato – preceduto
in questo dai suoi familiari – dopo un periodo di latitanza durante
la quale potette preparare la sua condotta difensiva, assunse nel
suo primo interrogatorio delle giustificazioni per ragioni di onore in
modo da profilare a sua discolpa il particolare delitto previsto e punito
dall’art. 587 del Codice Penale.
È qui dobbiamo fare un inciso. Il famigerato articolo, dopo
l’abuso del cosiddetto divorzio all’italiana (alcuni delitti vennero preparati
appositamente per sbarazzarsi della propria moglie) nel 1985 venne
definitivamente cancellato dal nostro codice.
Ma se gli atti processuali possono far ritenere che la Sgambato
in tempo più o meno remoto avesse tenuto una condotta contraria ai
suoi doveri coniugali non autorizzano gli atti medesimi a ritenere accertata
una offesa attuale dell’onore familiare, come viene sostenuto a
solo scopo difensivo.
Attraverso un testimoniale compiacente, sono stati riferiti diversi
particolari, tendenti a dimostrare i rapporti intrattenuti tra la Sgambato
e Alfonso Nuzzo, tanto che quest’ultimo si sarebbe recato in casa del
Diglio – nelle ore in cui il medesimo era assente per ragioni di lavoro –
mentre invece il maresciallo dei carabinieri denunziante ebbe specificamente
a deporre che non gli era stato possibile accertare se rispondesse
o meno, oltre la diceria corsa, a carico della Sgambato circa una
condotta non illibata prima del fatto.
Clemente Martinisi, teste del pubblico ministero, tra gli altri,
spingendosi oltre la verosimiglianza, assunse perfino di avere visto più
volte gli amanti insieme e di avere avuto anche dai medesimi la confidenza
della loro tresca. Ma i magistrati inquirenti erano molto perplessi
sia dei testimoni, tutti di parte e prezzolati, sia delle deposizioni dell’imputato.
Nella ricostruzione storica dei fatti qualcosa non quadrava.
Il Diglio ebbe a narrare che, ritirandosi verso le ore 18,00, non
trovò in casa la moglie per cui si recò in casa della madre del Nuzzo, la
quale era dinanzi alla porta, e quando si accorse che la moglie giaceva
a letto col suo amante si precipitò di corsa a casa sua per armarsi. Ora,
se il delitto avvenne verso le ore 20,30 e le due case non sono distanti
l’una dall’altra, non è spiegabile che siano occorse ben due ore e mezza,
per compiere quanto egli ha dichiarato, per cui il suo racconto è discreditato
in pieno come sono screditati i detti della teste Orsola D’Addio.
Tutta l’artificiosità delle circostanze deposte appariva addirittura
inconcepibile poiché la madre del Nuzzo che aveva in casa anche
dei nipotini – fosse rimasta fuori dalla porta di casa per dare libertà agli
amanti lasciando la porta aperta e senza precipitarsi a chiuderla nel vedere
il marito tradito. Come pure è inconcepibile quant’altro è stato
dichiarato dallo stesso Diglio nei rapporti della sorpresa fatta.
Ed invece devesi ritenere che certo i rapporti tra i due coniugi
non erano cordiali da tempo e che non è da escludere che la causale
ultima del delitto fosse stata proprio quella dichiarata dalla parte offesa
il mattino del 10 ottobre in ospedale, mentre era in pericolo di vita e
nella impossibilità fisica e psichica di escogitare versioni difformi dal
vero. Il delitto, dunque, non fu ritenuto premeditato. Ma furono contestati
il reato di violazione di domicilio, porto abusivo di arma, violenza
e minaccia grave.
Tentò di uccidere lo zio per una eredità contesa
Il giovane Salvatore Piscitelli, avendo appreso da suo padre Antonio
che aveva ceduto al fratello Michele una piccola zona di terreno
senza neanche corrispettivo, convinto che tale cessione era stata al
padre carpita in buona fede, una sera – in preda ai fumi del vino – esprimeva
al proprio genitore il proprio biasimo per la vendita inconsulta e
la sera del 17 febbraio 1950, incontrato lo zio Michele nella piazza principale
di San Felice Cancello, lo provocò invitandolo ad una zuffa. Ma
l’intervento di alcuni amici di Michele inducevano il giovane Salvatore
a desistere da ogni violenza e ad allontanarsi mentre pronunciava invettive
contro lo zio ed i familiari del padre.
Sopraggiunse intanto sulla bicicletta Alberto Delle Cave, zio affine
perché marito di una sorella di Antonio Piscitelli, ed in non buoni
rapporti con Salvatore Piscitelli per beghe familiari e non felice vicinato,
e pure sdegnato per le contumelie che il nipote sgranava anche contro
la di lui moglie, lo rimbeccò e quindi esplose contro Salvatore Piscitelli
quattro o cinque colpi di pistola ferendolo gravemente all’addome e
alla gamba sinistra. Rivolse poi l’arma contro l’altro nipote Michele Piscitelli
– che si disponeva ad accorrere in difesa del fratello – intimandogli
di non avvicinarsi altrimenti avrebbe sparato anche a lui. Abbandonò,
infine, la bicicletta sulla strada e si allontanò di corsa.
Gli inquirenti accertarono che Salvatore Piscitelli riportò due
ferite d’arma da fuoco con il solo forame d’entrata all’addome, altra
alla regione laterale destra della gamba ed altre di uguale natura alla
mano destra; che per tali ferite la vittima fu sottoposta a laparatomia e
stette in pericolo di vita e soffrì malattia per giorno 85 senza altri postumi.
Dal canto suo l’imputato costituitosi il giorno dopo dichiarò di
aver sparato contro il nipote della moglie perché costretto dalla necessità
di tutelare la propria integrità fisica in quanto improvvisamente aggredito
da costui e dal fratello che, armati di coltello, tentarono di colpirlo.
Non furono prese in considerazione le testimonianze dei testi a
discarico tali Nicola e Andrea D’addio i quali cercarono di sorreggere
la versione dell’imputato; gli inquirenti, invece, diedero credito alla versione
dei carabinieri alle dichiarazioni delle parti lese, dei testi di lista
Michele Esposito e Antonio Petulanti, dalle quali risultava uno svolgimento
del fatto come disposto innanzi e non come riferito all’imputato.
La Corte condannò a tre anni e mesi 9 di reclusione il mancato uxoricida.
Il giovane venne condannato invece a 4 anni
Come si è innanzi detto Mario Diglio, tentò di uccidere (ma
buon per lui non ci riuscì) la moglie Maria Sgambato, che aveva
un’amante, la suocera, Carmela Pirozzi, le cognate Immacolata e Clementina
Sgambato, violando il domicilio delle stesse e sparando all’impazzata
5 colpi di pistola in San Felice a Cancello il 9 ottobre del 1949.
Nel corso del dibattimento, però, molti testimoni vennero smentiti. Si
parlava non già di flagranza dell’adulterio ma di dicerie popolari sorte
addirittura durante la guerra del 1945 allorquando il marito era in servizio
militare per servire la Patria. Uno dei punti più oscuri – come
spesso accade in moltissimi casi giudiziari – è il vero movente del delitto,
spesso non si riesce ad avere il bandolo della matassa, e se è vero – come
è vero – che il movente è il caleidoscopio del delitto, in questo caso il
vero movente è rimasto sconosciuto.
Tuttavia la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente,
Pietro Giordana; giudice a latere, Victor Ugo De Donato; pubblico
ministero, Pasquale Allegretti; con la Giuria popolare, composta
dai giurati: Giovanni Pozzuoli, Luciano De Gennaro, Vincenzo Cogliandro,
Pasquale Auriemma, Giuseppe De Rosa, Giovanni Perretta
e Giuseppe Della Rosa), dopo aver escusso alcuni testimoni (Maria
Nuzzo, Benito Basilicata, Clemente Martinisi, Luigi Caputo, Bartolomeo
Frasca, Luigi Sgambato), approfondì la indagine dibattimentale e
venne fuori, addirittura, una circostanza curiosa. Era stato il fratello
della Sgambato a cogliere la donna a colloquio intimo col suo amante
ed era stato lo stesso fratello della Sgambato ad avvisare il Diglio dell’esistenza
della tresca. Come affermarono molti testimoni la donna durante
le assenze del marito aveva tenuta una pessima condotta e che
Alfonso Nuzzo si recava in casa della Sgambato in assenza del marito.
Che il Diglio, dopo aver scoperto che la moglie lo tradiva, l’aveva perdonata
e si era nuovamente riunita con lei ma pare che la donna continuasse
nella sua infedeltà. Inoltre un altro teste dichiarò di aver assistito
al momento in cui Clemente Martinisi consegnava una pistola a
rotazione al Diglio.
La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, dopo la requisitoria
del pubblico ministero, che chiese una condanna ad otto anni,
con la provocazione e le generiche, emise una sentenza di anni tre e
mesi 9 di reclusione, con la esclusione della volontà omicida, con la diminuente
del motivo d’onore e del particolare valore morale e sociale,
con il riconoscimento, inoltre, dello stato d’ira e le attenuanti generiche.
Gli avvocati impegnati furono: Francesco Gesuè, Vincenzo Fusco, Alberto
Martucci, Francesco Polito e Pietro Rotondo.
Per il tentato omicidio invece la Corte di Assise di Appello di Napoli emise
la sentenza di condanna che fu di anni sei e mesi 2 di reclusione.
La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, conclusa
l’istruttoria dibattimentale contro Alberto Delle Cave, di anni 43, accusato
di tentato omicidio, respingeva la richiesta difensiva relativa alla
legittima difesa e subordinatamente all’accesso colposo, accogliendo invece
quella sulla esclusione della volontà omicida con i benefici della
provocazione e delle attenuanti generiche e dichiarava la equivalenza
delle dette due aggravanti dell’arma per le lesioni gravi, fissando la pena
per tale delitto ad anni quattro di reclusione, aumentandola di un anno
e mesi sei per la recidiva specifica reiterata contestata in udienza in
complessivo gli anni di condanna sono stati cinque e mesi sei per le lesioni
e altri sei mesi di reclusione per la violenza privata aggravata.
Naturalmente l’imputato ha prodotto appello e si è doluto perché
doveva essergli riconosciuta la esimente della legittima difesa o
quantomeno l’eccesso colposo, perché doveva ritenersi la prevalenza
delle due attenuanti sull’unica aggravante. Si è doluto inoltre, anche il
pubblico ministero, perché doveva tenersi ferma la imputazione di tentato
omicidio volontario e non si dovevano concedere attenuanti generiche.
La Corte di Assise di Appello di Napoli emise la sentenza di condanna
che fu di anni sei e mesi 2 di reclusione.
(8- Continua)