VI RACCONTO  IL MIO LIBRO

Uno: tentò di uccidere la moglie, per motivi d’onore; l’altro: lo zio per una eredità contesa

I carabinieri della Stazione di Arienzo, con rapporto del 14 ottobre

del 1950, denunziarono al Procuratore della Repubblica di Santa

Maria Capua Vetere che il giorno precedente nel comune di San Felice

a Cancello, tale Mario Diglio, di anni 26, alle ore 20,45 circa, si era

portato nell’abitazione della suocera Carmela Pirozzi, armato di rivoltella,

ed avendo trovato la moglie, Maria Sgambato, aveva esploso contro

alla stessa 5 colpi di pistola. Il Diglio, dopo il delitto, si era allontanato

mentre la Sgambato, ferita in varie parti del corpo, avendo

riportato ben 5 lesioni alla regione toracica ed addominale, veniva immediatamente,

per la gravità delle stesse, trasportata all’ospedale dei

Pellegrini di Napoli.

Interrogata la donna ferita assieme ai familiari ebbero concordemente

ad affermare che la causale dell’aggressione compiuta dal Diglio,

con il suo gesto criminoso, consisteva in un dissidio, avvenuto poco

prima, tra i due, per una scottatura che il Diglio aveva riportato alla

mano destra nel preparare il forno per il pane. Diversamente invece,

dichiararono, i familiari del Diglio i quali affermarono che il tentativo

di omicidio del loro congiunto era stato determinato per “motivi di onore”

avendo avuto la Sgambato notoriamente “una condotta irregolare” (così

era definito l’adulterio molto eufemisticamente in quegli anni) durante

l’assenza del marito, (per ragioni militari,) aveva un amante fisso, un

tale Alfonso Nuzzo di anni 40, (oltre che tresche occasionali con altri

uomini) in compagnia del quale era stata sorpresa dal marito poco

prima del fatto delittuoso.

Il Diglio, per mettere in atto il suo proposito, aveva scavalcato

il muro del cortile della casa della madre della Sgambato e poi era entrato

nella stessa, minacciando la suocera e le cognate che mentirono

per farlo allontanare avendo intuito il proposito di lui il quale, con grande

sorpresa, nello spingere l’uscio della casa aveva visto la moglie ed il suo amante

giacere nello stesso letto. Dopo le pronte indagini fu emesso contro il

Diglio ordine di cattura per tentato omicidio, minacce e violazione di

domicilio.

Dopo poco, però, il latitante si costituì presso la caserma dei carabinieri

di Arienzo e nel suo interrogatorio, innanzi al magistrato istruttore,

dichiarò di avere tentato di uccidere la moglie nelle accennate circostanze

perché poco prima essendosi portato nella casa del Nuzzo allo

scopo di domandare alla madre di lui, se avesse per caso visto la propria

moglie, con grande sorpresa nello spingere l’uscio della casa aveva visto

la moglie ed il suo amante giacere nello stesso letto. Si era poi diretto a

casa sua, per armarsi, ed al ritorno aveva incontrato la moglie mentre

si dirigeva di corsa verso la casa paterna, lui l’aveva inseguita e poi le

aveva sparato 5 colpi di arma da fuoco (pessimo tiratore… nonostante

avesse fatto la guerra nell’esercito… o mancanza di volontà omicida?).

Dichiarò di essere in possesso dell’arma per averla trovata qualche

giorno prima del fatto per strada abbandonata e di averla poi gettata

dopo il delitto. Era naturalmente una bugia!

Nel corso della formale istruzione furono escussi vari testi. La

Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Napoli ritenne più che sufficienti

gli elementi per accusare Mario Diglio di tentato omicidio in

danno della moglie. Tale tesi era confermata non solo dai testi e dalle

indagini dei carabinieri nonché dalla confessione dell’imputato. “Non

può dubitarsi che il Diglio – scrissero i giudici nell’istruttoria – in casa della

suocera ebbe ad esplodere diversi colpi di arma da fuoco contro la moglie, ferendola

al torace e allo sterno con la evidente finalità di ucciderla”.

Il Diglio però – nel corso degli interrogatori – non ha potuto negare

la volontà di uccidere la moglie, anche se gli inquirenti dedussero

ciò dalla reiterazione dei colpi micidiali i quali attraversarono il torace

e l’addome mettendo in pericolo di vita la donna per vari giorni tanto

da far dedurre al perito dottor Ettore Ambrogi, che era scampata per puro

miracolo alla morte. Quanto alla causale va rilevato che l’imputato – preceduto

in questo dai suoi familiari – dopo un periodo di latitanza durante

la quale potette preparare la sua condotta difensiva, assunse nel

suo primo interrogatorio delle giustificazioni per ragioni di onore in

modo da profilare a sua discolpa il particolare delitto previsto e punito

dall’art. 587 del Codice Penale.

È qui dobbiamo fare un inciso. Il famigerato articolo, dopo

l’abuso del cosiddetto divorzio all’italiana (alcuni delitti vennero preparati

appositamente per sbarazzarsi della propria moglie) nel 1985 venne

definitivamente cancellato dal nostro codice.

Ma se gli atti processuali possono far ritenere che la Sgambato

in tempo più o meno remoto avesse tenuto una condotta contraria ai

suoi doveri coniugali non autorizzano gli atti medesimi a ritenere accertata

una offesa attuale dell’onore familiare, come viene sostenuto a

solo scopo difensivo.

Attraverso un testimoniale compiacente, sono stati riferiti diversi

particolari, tendenti a dimostrare i rapporti intrattenuti tra la Sgambato

e Alfonso Nuzzo, tanto che quest’ultimo si sarebbe recato in casa del

Diglio – nelle ore in cui il medesimo era assente per ragioni di lavoro –

mentre invece il maresciallo dei carabinieri denunziante ebbe specificamente

a deporre che non gli era stato possibile accertare se rispondesse

o meno, oltre la diceria corsa, a carico della Sgambato circa una

condotta non illibata prima del fatto.

Clemente Martinisi, teste del pubblico ministero, tra gli altri,

spingendosi oltre la verosimiglianza, assunse perfino di avere visto più

volte gli amanti insieme e di avere avuto anche dai medesimi la confidenza

della loro tresca. Ma i magistrati inquirenti erano molto perplessi

sia dei testimoni, tutti di parte e prezzolati, sia delle deposizioni dell’imputato.

Nella ricostruzione storica dei fatti qualcosa non quadrava.

Il Diglio ebbe a narrare che, ritirandosi verso le ore 18,00, non

trovò in casa la moglie per cui si recò in casa della madre del Nuzzo, la

quale era dinanzi alla porta, e quando si accorse che la moglie giaceva

a letto col suo amante si precipitò di corsa a casa sua per armarsi. Ora,

se il delitto avvenne verso le ore 20,30 e le due case non sono distanti

l’una dall’altra, non è spiegabile che siano occorse ben due ore e mezza,

per compiere quanto egli ha dichiarato, per cui il suo racconto è discreditato

in pieno come sono screditati i detti della teste Orsola D’Addio.

Tutta l’artificiosità delle circostanze deposte appariva addirittura

inconcepibile poiché la madre del Nuzzo che aveva in casa anche

dei nipotini – fosse rimasta fuori dalla porta di casa per dare libertà agli

amanti lasciando la porta aperta e senza precipitarsi a chiuderla nel vedere

il marito tradito. Come pure è inconcepibile quant’altro è stato

dichiarato dallo stesso Diglio nei rapporti della sorpresa fatta.

Ed invece devesi ritenere che certo i rapporti tra i due coniugi

non erano cordiali da tempo e che non è da escludere che la causale

ultima del delitto fosse stata proprio quella dichiarata dalla parte offesa

il mattino del 10 ottobre in ospedale, mentre era in pericolo di vita e

nella impossibilità fisica e psichica di escogitare versioni difformi dal

vero. Il delitto, dunque, non fu ritenuto premeditato. Ma furono contestati

il reato di violazione di domicilio, porto abusivo di arma, violenza

e minaccia grave.

 

Tentò di uccidere lo zio per una eredità contesa

Il giovane Salvatore Piscitelli, avendo appreso da suo padre Antonio

che aveva ceduto al fratello Michele una piccola zona di terreno

senza neanche corrispettivo, convinto che tale cessione era stata al

padre carpita in buona fede, una sera – in preda ai fumi del vino – esprimeva

al proprio genitore il proprio biasimo per la vendita inconsulta e

la sera del 17 febbraio 1950, incontrato lo zio Michele nella piazza principale

di San Felice Cancello, lo provocò invitandolo ad una zuffa. Ma

l’intervento di alcuni amici di Michele inducevano il giovane Salvatore

a desistere da ogni violenza e ad allontanarsi mentre pronunciava invettive

contro lo zio ed i familiari del padre.

Sopraggiunse intanto sulla bicicletta Alberto Delle Cave, zio affine

perché marito di una sorella di Antonio Piscitelli, ed in non buoni

rapporti con Salvatore Piscitelli per beghe familiari e non felice vicinato,

e pure sdegnato per le contumelie che il nipote sgranava anche contro

la di lui moglie, lo rimbeccò e quindi esplose contro Salvatore Piscitelli

quattro o cinque colpi di pistola ferendolo gravemente all’addome e

alla gamba sinistra. Rivolse poi l’arma contro l’altro nipote Michele Piscitelli

– che si disponeva ad accorrere in difesa del fratello – intimandogli

di non avvicinarsi altrimenti avrebbe sparato anche a lui. Abbandonò,

infine, la bicicletta sulla strada e si allontanò di corsa.

Gli inquirenti accertarono che Salvatore Piscitelli riportò due

ferite d’arma da fuoco con il solo forame d’entrata all’addome, altra

alla regione laterale destra della gamba ed altre di uguale natura alla

mano destra; che per tali ferite la vittima fu sottoposta a laparatomia e

stette in pericolo di vita e soffrì malattia per giorno 85 senza altri postumi.

Dal canto suo l’imputato costituitosi il giorno dopo dichiarò di

aver sparato contro il nipote della moglie perché costretto dalla necessità

di tutelare la propria integrità fisica in quanto improvvisamente aggredito

da costui e dal fratello che, armati di coltello, tentarono di colpirlo.

Non furono prese in considerazione le testimonianze dei testi a

discarico tali Nicola e Andrea D’addio i quali cercarono di sorreggere

la versione dell’imputato; gli inquirenti, invece, diedero credito alla versione

dei carabinieri alle dichiarazioni delle parti lese, dei testi di lista

Michele Esposito e Antonio Petulanti, dalle quali risultava uno svolgimento

del fatto come disposto innanzi e non come riferito all’imputato.

La Corte condannò a tre anni e mesi 9 di reclusione il mancato uxoricida.

Il giovane venne condannato invece a 4 anni

Come si è innanzi detto Mario Diglio, tentò di uccidere (ma

buon per lui non ci riuscì) la moglie Maria Sgambato, che aveva

un’amante, la suocera, Carmela Pirozzi, le cognate Immacolata e Clementina

Sgambato, violando il domicilio delle stesse e sparando all’impazzata

5 colpi di pistola in San Felice a Cancello il 9 ottobre del 1949.

Nel corso del dibattimento, però, molti testimoni vennero smentiti. Si

parlava non già di flagranza dell’adulterio ma di dicerie popolari sorte

addirittura durante la guerra del 1945 allorquando il marito era in servizio

militare per servire la Patria. Uno dei punti più oscuri – come

spesso accade in moltissimi casi giudiziari – è il vero movente del delitto,

spesso non si riesce ad avere il bandolo della matassa, e se è vero – come

è vero – che il movente è il caleidoscopio del delitto, in questo caso il

vero movente è rimasto sconosciuto.

Tuttavia la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente,

Pietro Giordana; giudice a latere, Victor Ugo De Donato; pubblico

ministero, Pasquale Allegretti; con la Giuria popolare, composta

dai giurati: Giovanni Pozzuoli, Luciano De Gennaro, Vincenzo Cogliandro,

Pasquale Auriemma, Giuseppe De Rosa, Giovanni Perretta

e Giuseppe Della Rosa), dopo aver escusso alcuni testimoni (Maria

Nuzzo, Benito Basilicata, Clemente Martinisi, Luigi Caputo, Bartolomeo

Frasca, Luigi Sgambato), approfondì la indagine dibattimentale e

venne fuori, addirittura, una circostanza curiosa. Era stato il fratello

della Sgambato a cogliere la donna a colloquio intimo col suo amante

ed era stato lo stesso fratello della Sgambato ad avvisare il Diglio dell’esistenza

della tresca. Come affermarono molti testimoni la donna durante

le assenze del marito aveva tenuta una pessima condotta e che

Alfonso Nuzzo si recava in casa della Sgambato in assenza del marito.

Che il Diglio, dopo aver scoperto che la moglie lo tradiva, l’aveva perdonata

e si era nuovamente riunita con lei ma pare che la donna continuasse

nella sua infedeltà. Inoltre un altro teste dichiarò di aver assistito

al momento in cui Clemente Martinisi consegnava una pistola a

rotazione al Diglio.

La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, dopo la requisitoria

del pubblico ministero, che chiese una condanna ad otto anni,

con la provocazione e le generiche, emise una sentenza di anni tre e

mesi 9 di reclusione, con la esclusione della volontà omicida, con la diminuente

del motivo d’onore e del particolare valore morale e sociale,

con il riconoscimento, inoltre, dello stato d’ira e le attenuanti generiche.

Gli avvocati impegnati furono: Francesco Gesuè, Vincenzo Fusco, Alberto

Martucci, Francesco Polito e Pietro Rotondo.

 

Per il tentato omicidio invece la Corte di Assise di Appello di Napoli emise

la sentenza di condanna che fu di anni sei e mesi 2 di reclusione.

La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, conclusa

l’istruttoria dibattimentale contro Alberto Delle Cave, di anni 43, accusato

di tentato omicidio, respingeva la richiesta difensiva relativa alla

legittima difesa e subordinatamente all’accesso colposo, accogliendo invece

quella sulla esclusione della volontà omicida con i benefici della

provocazione e delle attenuanti generiche e dichiarava la equivalenza

delle dette due aggravanti dell’arma per le lesioni gravi, fissando la pena

per tale delitto ad anni quattro di reclusione, aumentandola di un anno

e mesi sei per la recidiva specifica reiterata contestata in udienza in

complessivo gli anni di condanna sono stati cinque e mesi sei per le lesioni

e altri sei mesi di reclusione per la violenza privata aggravata.

Naturalmente l’imputato ha prodotto appello e si è doluto perché

doveva essergli riconosciuta la esimente della legittima difesa o

quantomeno l’eccesso colposo, perché doveva ritenersi la prevalenza

delle due attenuanti sull’unica aggravante. Si è doluto inoltre, anche il

pubblico ministero, perché doveva tenersi ferma la imputazione di tentato

omicidio volontario e non si dovevano concedere attenuanti generiche.

La Corte di Assise di Appello di Napoli emise la sentenza di condanna

che fu di anni sei e mesi 2 di reclusione.

(8- Continua)