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VI RACCONTO IL MIO LIBRO – DUE DELITTI ASSURDI CON MOVENTI STUPIDI A MADDALONI NEL 1949 Un giovane ucciso per il furto di una patata; un altro per i polli che avevano beccato una piantagione di cavoli…
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DUE DELITTI ASSURDI CON MOVENTI STUPIDI A MADDALONI NEL 1949
Un giovane ucciso per il furto di una patata; un altro per i polli che avevano beccato una piantagione di cavoli…
I carabinieri di Maddaloni, in un rapporto del 22 settembre del 1949, informavano la locale Pretura che, alle ore 8,30 dello stesso giorno, Clemente Vinciguerra, di anni 72, aveva esploso due colpi di pistola – a breve distanza – contro il giovane Giuseppe Merola, riducendolo in fin di vita. Riferivano, inoltre, che il Merola era deceduto in seguito ad unico colpo di arma da fuoco da cui era stato attinto alla regione del fianco destro, tra l’ascellare medio e l’ascellare posteriore, con lesione del rene sinistro, shock addominale e lesioni al colon.
Al Pretore, recatosi ad interrogarlo in ospedale il Merola, prima di morire, narrava che il Vinciguerra, guardiano della fattoria in cui lavorava, avendo egli preso una patata da una caldaia ed avendogli fatto rilevare la irrilevanza del fatto, gli aveva esploso due colpi di pistola. Il Vinciguerra, tratto in arresto, dichiarava che, avendo rimproverato il Merola – per avere preso qualche patata e per una precedente sottrazione di uva – il Merola gli era andato incontro con fare minaccioso e portando la mano alla tasca dei calzoni ed egli nel timore di essere sopraffatto aveva fatto uso della pistola.
Dalle indagini compiute risultò che sia il Vinciguerra che il Merola erano operai agricoli alle dipendenze di Aniello Cerreto, il primo quale persona di fiducia del proprietario. In una pausa di lavoro, il Merola, passando vicino al Vinciguerra, aveva notato che costui faceva bollire le patate per i maiali, ne aveva, allora, presa una per mangiarla.
Al rimprovero del vecchio egli fece presente subito che il padrone non avrebbe fatto alcuna osservazione e che lo rispettava come vecchio. Tale frase irritò il Vinciguerra che estratto una pistola – di cui andava armato senza licenza – esplodeva contro il Merola due colpi dandosi poi alla fuga.
Al fatto assistette Michele Izzo, nipote del Vinciguerra, il quale riferì che giunti avanti la tettoia adiacente la masseria il Merola aveva preso una patata dove si trovavano a bollire e lo stesso aveva fatto Izzo di qui l’intervento del Vinciguerra che aveva ordinato loro di posare le patate rubate. Il Merola e il Vinciguerra avevano parlato concitatamente senza, però, che alcuna minaccia fosse stata posta in essere dal primo dei due. Il Merola, anzi, voleva recarsi dal padrone per chiedergli il permesso ed avevano fatto alcuni passi, quando il Vinciguerra fermatosi prese ad accusare il giovane di essersi precedentemente appropriato di uva; al che il Merola rispose che era stato autorizzato dal padrone e che lui lo rispettava soltanto perché anziano.
Improvvisamente udì uno sparo – voltatosi – notò che il Merola era stato ferito, senza però vedere in che modo fosse stato colpito. Escludeva, infine, l’Izzo, a conclusione della sua deposizione, che il Merola avesse rivolto al Vinciguerra la frase (riferita dall’assassino) se non fosse stato vecchio gli avrebbe fatto uscire il sangue dalla bocca.
Salvatore Fortunato, Giuseppe Di Vico e Domenico Razzano, altri operai che si trovavano poco lontano, percepirono lo sparo dei due colpi di pistola e poco dopo videro venire loro incontro il Merola che si lamentava di essere stato sparato dal Vinciguerra per una patata. Il proprietario del fondo Aniello Cerreto, riferì come il Vinciguerra fosse di carattere collerico mentre il Merola era individuo calmo ed escludeva che questi avesse potuto usare violenza contro il primo.
Precisava, inoltre, che il Vinciguerra alcuni giorni prima gli aveva manifestato alcuni sospetti contro il Merola in ordine ad una sottrazione di uva, ma egli aveva fatto notare che trattandosi di uva scadente non aveva dato alcun peso alla cosa.
I tuoi polli hanno distrutto il mio campo: io ti uccido
Nel mese di ottobre del 1949 era giunto alla stazione dei carabinieri di Maddaloni un referto – inviato dal locale ospedale con il quale si comunicava il decesso di tale Antonio Crisci, di anni 41, avvenuta per peritonite in seguito ad una grave aggressione. I carabinieri accertarono che il giorno precedente, in località Perrone di Maddaloni, i coloni Antonio Crisci di anni 41, del posto, e Libero Crisci, di anni 28, erano venuto alle mani per futili motivi.
Nella lite Antonio Crisci aveva ricevuto dall’altro un violento calcio. In seguito alle ferite era morto in ospedale. Ma quale era il movente del delitto? Quali i motivi per i quali i due contadini vennero alle mani? Alcuni polli di proprietà della vittima avevano prodotto danni ad una piantagione di cavoli nel suo fondo confinante. Il cosiddetto delitto del… cavolo! Per tale deprecabilissimo fatto (esageratamente considerato dai contadini attaccati alle loro proprietà) sarebbero bastate le scuse dei relativi proprietari di fondi ma la lite scoppiò violenta e drammatica per la caparbietà di Fabrizio Crisci.
Questi, infatti, per constatare i danni che l’invasione di polli aveva provocato alla sua coltivazione di cavoli, prima si rivolse al servizio delle Guardie Campestre – le quali, peraltro, constatarono che si trattava di danni di bassissima entità – e poi, non contento del responso delle Guardie Campestri, Fabrizio Crisci aveva addirittura fatto intervenire (il giorno precedente al delitto) il Professore di agraria Francesco Mammone, da Maddaloni per fargli stilare una perizia per la contestazione e la conseguente stima dei danni.
Libero Crisci prima di morire diede la sua versione dei fatti e ci tenne a ribadire – che egli si era sempre prestato per risarcire il danno provocato dai suoi polli nella giusta misura e che era esagerata la pretesa del suo parente. Durante le operazioni peritali, però, egli si era lagnato del fatto che stando sul suo fondo mentre si procedeva ad una contestazione di danni che avrebbe dovuto lui risarcire senza – però – che fosse stato minimamente avvisato per difendersi eventualmente con un suo consulente di parte ed in contraddittorio Fabrizio Crisci lo aveva apostrofato con una frase ingiuriosa testuale: sei un fetente!
Ma egli di rimando gli aveva risposto che era un fetente e mezzo. Vi erano stato altri battibecchi e alterchi finché non era intervenuto il figlio di esso, a nome Libero, ed altri suoi parenti che lo avevano circondato, aggredito, percosso e quasi spogliato. Ma il pronto intervento del professor Mammone era valso a liberarlo. Ma mentre se ne stava ritornando alla sua masseria – a pochi passi dal luogo dell’aggressione – era stato rincorso e nuovamente aggredito sia dal cugino Fabrizio, che dal nipote Libero e mentre il primo lo aveva preso e tenuto per le spalle, l’altro gli aveva vibrato un fortissimo calcio al ventre, provocandogli dolori che lo avevano fatto cadere a terra.
Strisciando per terra era riuscito ad arrivare fino alla porta della sua abitazione dove era svenuto. Nella sua deposizione indicò come testi la moglie Lucrezia Di Marco. Intanto Libero Crisci, subito dopo l’aggressione dello zio, si rese latitante, ma venne fermato dai carabinieri ma il magistrato non convalidò il suo fermo in arresto.
Il 17 ottobre, però, a seguito del decesso del Crisci, era stato spiccato un mandato di cattura nei confronti del giovane, accusato di omicidio preterintenzionale, che, però, si costituì dopo alcuni giorni. La sua versione dei fatti fu diametralmente opposta a quello dello zio. Dichiarò che egli, mentre era intento a zappare il terreno di suo proprietà assieme alla sorella Anna, aveva sentito Antonio Crisci ingiuriare suo padre Fabrizio con frasi pesanti: “Marijuolo…uomo da niente.. fetente… sei hai coraggio vieni qui”… Lui era corso sul posto ed aveva diviso i due litiganti che già erano avvinghiati. In ciò – precisava – era stato aiutato dal prof. Mammone che si era allontanato da poco e, sentite le grida, era ritornato indietro. Mentre, però, egli se ne stava ritornando alla sua masseria, era stato rincorso nuovamente dalla moglie di Antonio Crisci e dallo stesso zio che lo avevano aggredito e quest’ultimo addirittura gli aveva dato un morso che quasi gli aveva staccato un dito.
Per allentare la presa aveva sferrato il calcio. Negò la circostanza – già riferita dallo zio in punto di morte – secondo la quale il padre aveva trattenuto lo zio e lui aveva vibrato il calcio. Fu accertato che effettivamente – come dichiarò il medico legale – il giovane aveva una lesione al pollice della mano destra.
L’esame autoptico – disposto dalla magistratura sul cadavere di Antonio Crisci – accertò che “tranne la già riscontrata rottura dell’intestino tenue per cui vi era stata resezione di un buon tratto di questo” niente altro di patologico si era notato nei vari organi ed apparati e quindi detta lesione fu determinata da trauma diretto (calcio o pugno o ginocchiata, sferrata con estrema violenza e pressione tanto da produrre lo scoppio delle anse intestinali in quel punto schiacciandole contro le ossa del bacino), cagionando un processo infiammatorio acuto di tutto il pacchetto intestinale e del peritoneo per la virulenza dei germi della flora intestinale. Il versamento enterico in cavità con le sue abnormi fermentazioni era stata la “sola causa della morte” di Antonio Crisci.
Il dottor Salvatore Sagnelli, da Maddaloni, nel pomeriggio dell’11 ottobre del 1949 – chiamato d’urgenza – visitò Antonio Crisci e riscontrò una contusione addominale con sospetta rottura di qualche tratto dell’intestino. Aggravandosi le condizioni del ferito il giorno seguente fu fatto ricoverare all’Ospedale civile di Maddaloni, dove venne operato di laparotomia, e questa dimostrò che a metà dell’intestino tenue si era aperto un foro della grandezza di un vecchio soldo e che un buon tratto di questo intestino era stato fortemente maltrattato e si procedeva quindi alla recessione di 10 centimetri di esso, ma, per la peritonite in atto, il Crisci moriva il giorno dopo.
La condanna fu per omicidio preterintenzionale alla pena di anni 22 di reclusione e mesi 8.
A chiusura della complessa istruttoria formale, la Sezione della Corte di Appello di Napoli, rinviava l’imputato al giudizio della Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, per rispondere di omicidio aggravato, per omessa denuncia dell’arma, con la contestazione della recidiva specifica per quanto atteneva il porto abusivo di armi. Evidentemente il Vinciguerra era stato già condannato – nei cinque anni precedenti – per porto e detenzione di armi. L’imputato nel processo si difese asserendo di aver esploso un colpo nel terreno ad esclusivo scopo intimidatorio e di avere esploso il secondo colpo contro il Merola, solo quando questi, mentre con una mano lo teneva afferrato per una spalla, con l’altra (la destra) faceva la mossa per estrarre un coltello (prima aveva detto una pistola).
Clemente Vinciguerra, fu giudicato dalla Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (composta dal Presidente Pietro Giordano, giudice a latere Victor Ugo De Donato, pubblico ministero, Pasquale Allegretti, cancelliere Domenico Aniello, ufficiale giudiziario, Giuseppe Girardi): la stessa affermava la sua colpevolezza, condannandolo per omicidio preterintenzionale, con le aggravanti contestate, alla pena di anni 22 di reclusione e mesi 8.
Il Pubblico Ministero l’appellò, perché aveva chiesto una pena maggiore e non era soddisfatto, cioè secondo il suo parere la condanna non era adeguata (per turbamento sociale arrecato) al reato, non era equa nei confronti della società che era stata disturbata. La pubblica accusa sosteneva infatti che non poteva trattarsi di omicidio preterintenzionale, bensì di omicidio volontario e per questo aveva chiesto una condanna a 30 anni di reclusione.
“Vi era volontà omicida – disse il pubblico ministero nel corso della sua requisitoria – e deve rispondere di omicidio volontario che si desume sia dalla sua personalità che dalle modalità dell’esecuzione”. L’imputato fece appello attraverso i suoi difensori, gli avvocati Vittorio Verzillo e Giacomo Iacuzio, per ottenere la concessione delle attenuanti e quindi una riduzione della pena con la pretesa difensiva di avere almeno le attenuanti della provocazione. La difesa chiese anche alla Corte di esaminare la possibilità di concedere l’eccesso colposo di legittima difesa. In subordine, fu invocata la scriminante dello stato d’ira.
Giudicato, in sede di Appello, dalla Corte di Assise di Appello di Napoli (Presidente Nicandro Siravo, a latere, Gennaro Guadagno, pubblico ministero Filippo D’Errico), avverso la sentenza della Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 24 marzo del 1952, con la quale era stato condannato alla pena di anni 22 e mesi 8 di reclusione e mesi 4 di arresto, per omicidio preterintenzionale in persona di Giuseppe Merola, per poco non corse il rischio di vedersi aggravata la condanna.
A motivazione della propria decisione la Corte di Assise di Appello di Napoli osservava che entrambe le doglianze (cioè le richieste della pubblica accusa – e dell’accusa privata che per l’occasione era rappresentata dall’avvocato Francesco Lugnano, e sia, infine, dell’imputato) andavano disattese. Respinse la richiesta della pubblica accusa della contestazione dell’omicidio volontario; respinse la richiesta della difesa (non era vero che la vittima aveva pronunciato la frase: Se non fosse stato vecchio gli avrei fatto scorrere il sangue al naso) – neppure l’imputato stesso ne parlò nella prima deposizione.
“L’imputato ha ucciso per un motivo futile – dissero i giudici di secondo grado – spinto all’azione lui sparò per il semplice fatto che il Merola aveva preso una sola patata dalla caldaia che egli era intento a sorvegliare. Però era una volontà che non mirava ad uccidere (per cui andava respinta la richiesta della pubblica accusa di contestare all’imputato l’omicidio volontario e si ravvisa quindi un omicidio); una condotta sproporzionata, una condotta che deve condurre ad una volontà generica di ledere, tuttavia, insufficiente ad integrare gli estremi del dolo specifico del reato di omicidio in cui occorre l’intenzione particolare dello agente di raggiungere il fine di uccidere”. In conclusione i giudici d’appello negarono perfino la concessione delle attenuanti generiche e confermarono in tutto il verdetto del primo grado.
La Corte condannò il Crisci a 7 anni di reclusione.
Libero Crisci, 28 anni all’epoca dei fatti, da Maddaloni, venne arrestato il 17 ottobre del 1949 e accusato di omicidio preterintenzionale per avere mediante un calcio vibrato all’addome di Antonio Crisci, prodotto al medesimo lesioni di organi interni addominali (intestino) dalle quali ne derivò la morte. Chiusa l’istruttoria formale il giovane venne rinviato al giudizio della Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Presidente Carlo Fellicò; giudice a latere Mario Mancuso; pubblico ministero Francesco Andreozzi) per omicidio preterintenzionale.
Nel corso del dibattimento furono ascoltati moltissimi testimoni. Ma il più attendibile di tutti si rivelò il prof. Francesco Mammone che distinse l’avvenimento in due episodi. Riguardo al primo escluso in modo assoluto e categorico che, mentre Fabrizio Crisci manteneva alle spalle Antonio Crisci, il giovane Libero avesse inferto il colpo mortale. Che i cugini si erano azzuffati in due momenti diversi. Questa versione dei fatti venne anche confermata da altri testimoni: Maria Giuseppa Bernardo, Domenico Timorato, Antonio Ferraro, Michelina Napolitano, Nicola Di Marzio e Pietro Crisci. Libero Crisci, nella sua condizione di detenuto si difese strenuamente e i suoi difensori, gli avvocati Ettore Botti e Alberto Martucci, si battettero per una totale assoluzione per insufficienza di prove ed in subordine per legittima difesa ed ancora in via subordinata la concessione delle attenuanti generiche e della provocazione. A chiusura dell’istruttoria dibattimentale, il pubblico ministero, chiese una condanna a 12 anni di carcere. La Corte, dopo le arringhe difensive, con la concessione delle sole attenuanti generiche condannò il Crisci a 7 anni di reclusione.