martedì, 24 Settembre 2024
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IL MEGLIO E ILPEGGIO DAI GIORNALI DI OGGI

È sempre domenica

È sempre domenica

Bisogna essere onesti, e dare ragione ad Alessandro Di Battista. Oddìo, ho appena scritto una frase di cui non condivido una sola parola.

Comunque, getto il cuore oltre l’ostacolo e la confermo: quando Di Battista sostiene che non è blasfemo criticare Mario Draghi, fa un’opera di salute pubblica, specialmente in giorni di mitologia draghiana, la sobrietà, la competenza, l’autorevolezza, la riservatezza, l’eleganza, i titoli, gli eloquenti silenzi, tutto vero, per carità, ma per esempio ieri è stato annunciato l’arrivo del premier al Quirinale per le 19.00, e quando poi il premier è arrivato al Quirinale alle 19.00 lo sbalordimento ha attraversato l’opinione pubblica: è arrivato alle 19.00! Ecco che siamo: un Paese dove la puntualità è sbalorditiva. Ci aveva visto giusto chi definiva l’Italia una sterminata domenica.

Quindi sì, criticare Draghi non è blasfemo, è sano, è sanissimo. Semmai lascia leggermente disorientati il caso in questione, quello del critico e del criticato. Fra molto altro, governatore di Bankitalia e presidente della Bce il criticato, mentre del critico – cito a memoria – si ricordano escursioni in Sudamerica e in India, ingaggi da animatore di villaggi vacanze, un’esperienza da parlamentare d’opposizione, anche attività da me particolarmente quotate, come quella di barman in spiaggia. I due curriculum appaiono abbastanza asimmetrici, il che non deve però impedire, per la sacra libertà di opinione, a Di Battista di esprimere la sua, e nemmeno sul presidente del Consiglio, perlomeno in omaggio alla vecchia sentenza secondo cui la mediocrità non conosce nulla di superiore a sé stessa.

Il governo Draghi-Colle dà il Recovery ai tecnici, il resto all’ammucchiata

di Fabrizio d’Esposito e Wanda Marra | 13 FEBBRAIO 2021“Crepi il lupo!”. Uscendo dal Quirinale, Mario Draghi abbassa il finestrino dell’auto per rispondere all’“in bocca al lupo” dei fotografi. È un attimo, dopo che davanti alla Sala alla Vetrata il premier scioglie la riserva e poi legge la lista dei ministri. Comunicazione breve e precisa, per dare vita a un esecutivo che porta una doppia firma: quella del presidente del Consiglio e quella del presidente della Repubblica. È stato il Quirinale ad annunciare con solo un’ora e mezza di anticipo che Draghi sarebbe salito al Colle alle 19. I due si sono sentiti più volte al giorno, sia ieri che l’altroieri. Tanto è vero che l’incontro formale di ieri è durato poco più di una mezz’ora. E la lista contiene 15 politici e 8 tecnici, anche se in realtà i pesi sono a favore dei super tecnici.

In primo luogo, il premier tiene per sé la gestione del Recovery, nominando tecnici di sua stretta fiducia: non solo Daniele Franco al Mes, ma anche Vittorio Colao alla Innovazione tecnica e alla Transizione digitale. I risultati della task force che aveva guidato nel governo Conte erano rimasti in un cassetto, in questa esperienza la sua è una posizione cruciale. E poi Roberto Cingolani alla Transizione ecologica. Un super fisico (attualmente nel board di Leonardo) indicato dai Cinque Stelle, che però è stato anche alla Leopolda di Renzi nel 2019 (ed era entrato nei suoi desiderata per un presunto Conte ter). Non c’è un ministro per gli Affari europei: segno evidente che i rapporti con Bruxelles se li gestirà direttamente il premier. Ma tecnici sono in posti nevralgici come la Giustizia, con Marta Cartabia (vicina al presidente della Repubblica), il Mit, con Enrico Giovannini, l’Università e l’Istruzione con due Rettori, Patrizio Bianchi e Cristina Messa. E poi, il Viminale che resta a Luciana Lamorgese. La sua riconferma è stata chiesta dallo stesso Mattarella. Così come quella del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Il Colle aveva allungato il suo ombrello protettivo anche su altre riconferme, che però sono state chieste dai partiti: Roberto Speranza (LeU), Luigi Di Maio (Esteri), Dario Franceschini (Cultura).

Nella formazione del nuovo esecutivo, la dinamica non è meno importante dei nomi e dei pesi: Draghi non ha trattato con i partiti, le interlocuzioni con loro sono avvenute tramite il Quirinale, il presidente e i suoi consiglieri, a partire da Zampetti. E anche ieri, i politici fino all’ultimo momento sono stati tenuti al buio: alcuni ministri sostengono di aver saputo direttamente dalle dichiarazioni pubbliche di Draghi di essere stati scelti, anche se qualche segnale era arrivato. Molti hanno avuto contatti con il Colle, più che con il premier. Ma alla fine, il compromesso c’è stato: dentro ci sono tre rappresentanti per ogni partito principale, ma con scelte che rispecchiano l’idea non solo di una continuità, ma anche di una certa moderazione. Per la Lega, i nomi sono sbilanciati in favore di quelli a Giancarlo Giorgetti, che – in virtù del suo rapporto storico con Draghi – prende anche un ministero di spesa, con il Mise. Per i 5 Stelle, non è un caso che esca Alfonso Bonafede e resti Stefano Patuanelli: il Movimento nella sua parte meno barricadera. Per premiare il Pd, con tre nomi rappresentativi delle tre correnti principali (il vice segretario, Andrea Orlando e Dario Franceschini e Lorenzo Guerini), Draghi ha aumentato i posti pure per gli altri partiti. Anche se quelli finiti a Forza Italia sono tre ministeri minori, con due figure poco rappresentative dell’area berlusconiana (Mara Carfagna e Renato Brunetta). Tanto che pare che per loro l’interlocuzione sia avvenuta con Gianni Letta.

Insomma, Draghi e Mattarella hanno realizzato un esecutivo che si garantisce l’appoggio dei partiti, attraverso alcune figure di primo piano, ma tende nello stesso tempo ad annacquarli. Per questo è rimasto fuori Nicola Zingaretti, per non far entrare Matteo Salvini. Da non trascurare in questo disegno la nomina del sottosegretario a Palazzo Chigi: Roberto Garofoli, già capo di gabinetto di Padoan e segretario generale con Letta. Un grande burocrate e un uomo macchina in un posto fondamentale per il funzionamento del governo.

I Migliorissimi

di  | 13 FEBBRAIO 2021

Mentre il Premier Incaricato, Sempre Sia Lodato, leggeva la lista del Governo dei Migliori con i Ministri di Alto Profilo, il primo pensiero andava a Cirino Pomicino: per reclutare una ciurma del genere, bastava e avanzava lui, senza scomodare Draghi. Il secondo pensiero era per i poveri 5Stelle e soprattutto per i loro elettori, gabbati da Grillo gabbato da Draghi, passati da partito di maggioranza relativa a partito e basta, con tanti ministri (peraltro inutili come gli Esteri o minori come gli altri) quanti il Pd (che ha metà dei loro seggi e 3 dicasteri più un tecnico d’area) e uno in più della Lega (metà dei loro seggi) e di FI (un quarto). Notevole anche l’ideona di inventare il super-ministero della Transizione Ecologica, già diventato mini perché gli manca il Mise, e regalarlo al renzian-leopoldiano Cingolani. Il terzo pensiero era per Previti e Dell’Utri: perché escluderli? Il quarto era per i cercatori d’“anima”, i cacciatori di “visione”, i ghostbuster di “identità della sinistra”, i gemmologi di “purezza progressista”, gli spingitori di “competenza” e dunque di “discontinuità”, i guardiacaccia anti-“trasformisti”. Ora i nuovi dioscuri Sergio e Mario li hanno accontentati tutti in un colpo solo, con un governo dotato contemporaneamente di anima, identità, sinistra, ecologismo, competenza, discontinuità e anti-trasformismo. Il Governo dei Migliori, appunto.

All’“anima”, “identità” e “purezza” di sinistra ci pensa il governo Berlusconi-4, momentaneamente parcheggiato presso il Draghi-1 nelle persone di Gelmini, Brunetta, Carfagna, Giorgetti e Stefani.

All’ecologismo badano Giorgetti, le truppe forziste e altri santi patroni del partito del cemento, del bitume, delle trivelle e del Tav.

Per la competenza, a parte tre o quattro tecnici (fra cui quel Colao che, quando lo chiamò Conte, tutti sghignazzavano su Colao Meravigliao), c’è un trust di cervelli mica da ridere: dalla Gelmini e i suoi neutrini nel tunnel Gran Sasso-Ginevra; a Brunetta, grande esperto di tornelli e diplomazia; a Orlando (quello che “mai con la Lega”), che può passare dalla Giustizia al Lavoro al nulla con la stessa enciclopedica impreparazione.

Alla discontinuità provvedono Franceschini (al suo quarto governo), Brunetta, Gelmini, Carfagna, Giorgetti e Di Maio (terzo), Bonetti, Stefani, Garavaglia, Giovannini, Orlando, Guerini, D’Incà, Dadone, Patuanelli, Lamorgese, Speranza (secondo). Otto ministri del Conte-2: ma quindi era vero che erano i “migliori del mondo”?

All’anti-trasformismo, c’è solo l’imbarazzo della scelta: lo rappresentano praticamente tutti.

Manca solo Giuseppe Conte che, pur nella momentanea disgrazia, è il solito fortunello: non essendo né un migliore né un competente, lui non c’è. Che culo.

La coerenza, una moneta fuori corso

di  | 13 FEBBRAIO 2021

Fuori la coerenza, antica e tristanzuola come lo scialle della nonna e dentro il pragmatismo Prêt-à-porter che si porta su ogni gabbana nella collezione dell’allegra ammucchiata. E dunque fuori dalle scatole Alessandro Di Battista, uno fissato con la coerenza che, come diceva Oscar Wilde, è l’ultimo rifugio delle persone prive di immaginazione (per non dire peggio). Che infatti annuncia l’addio al Movimento “con un video ambientato nella cucina Ikea di casa zona Cassia tra tegami, presine fatte con l’uncinetto” (Il Messaggero). Poveraccio, che brutta fine, fornelli a gas e squallidi uncinetti invece della sala d’armi di un casale umbro tra stemmi araldici e teste di cervo impagliate, mentre nel camino scolpito a mano il sobrio fuoco crepita. Un tipo davvero strano questo “Che de’ noantri” (ah ah) visto che “nessuno ha mai capito veramente perché sia rimasto fuori dalle elezioni del 2018, rinunciando a una poltrona sicura da ministro degli Esteri” (Repubblica): e chissà cosa c’è sotto. Uno che “negli ultimi anni ha postato quasi ogni giorno una foto di sé con i figli , Dibba in famiglia, uno sfoggio che testimoniava un certo imborghesimento, una lontananza dalle durezze della battaglia politica” ( Repubblica). Foto quotidiane con pargoli e consorte: davvero un borghesuccio. E mentre gli altri capi grillini “si sono mossi eccome, esercitando una coerenza che gli va riconosciuta Alessandro Di Battista è rimasto fermo. E si è trasformato nell’ultimo panda” (Corriere della Sera).

Diciamolo, un panda un po’ cretino. Del resto, continuare a credere negli ideali giovanili, rifiutare seggi in Parlamento e poltrone ministeriali, e poi staccarsi dalle proprie radici, dai ricordi più belli (e magari provarne dolore) non ha molto senso se l’unità di misura è la coerenza. Moneta fuori corso e con cui non si mangia, soppiantata dal pragmatismo (che è come paragonare il tallero al bitcoin). “Io europeista? Sono un pragmatico”, replica Matteo Salvini a chi gli fa notare la giravolta leghista a 360 gradi. Pragmatismo: corrente filosofica/atteggiamento finalizzato a ottenere, talvolta anche in modo spregiudicato, risultati concreti. Ricordate quel motivetto? “Io sono un uomo nuovo, da un po’ di tempo ambientalista, sono progressista, al tempo stesso liberista antirazzista, e sono molto buono sono animalista, non sono più assistenzialista, son federalista”. Non vi sembra un eccellente programma di governo? Autore Giorgio Gaber. Titolo: Il Conformista (“che senza consistenza si allena a scivolare dentro il mare della maggioranza”).