NON SONO UN GIURISTA MA SECONDO ME E SECONDO UNA PRASSI COSTANTE DEI PUBBLICI MINISTERI ITALIANI A RENZI PER LE SUE FREQUENTAZIONI ARABE ANDREBBE CONTESTATO IL REATO DI CONCORSO ESTERNO PREVISTO DALL’ART. 7 DELLA LEGGE IN VIGORE.
Si realizza con l’apporto di un contributo effettivo al perseguimento degli scopi illeciti di un’associazione di tipo mafioso senza però prender parte al sodalizio mafioso.
L’applicabilità del reato di associazione a delinquere di tipo mafioso anche a carico di soggetti estranei al sodalizio mafioso è stata, ed è tuttora, questione discussa in dottrina.
Il reato di associazione per delinquere (indipendentemente dalla sua configurazione come “mafiosa” ex 416 bis) è considerata da parte della dottrina fattispecie a concorso di persone necessario (ex art. 110 del codice penale che prevede la compartecipazione di più soggetti nella realizzazione della fattispecie), e ciò nonostante le sostanziali differenze sussistenti fra l’istituto del concorso e il reato di associazione a delinquere. In virtù di ciò tutti i soggetti aderenti all’associazione stessa dovrebbero esser legati dal vincolo associativo, e avere la piena coscienza di far parte di tale associazione.
Il concorso esterno in associazione mafiosa, invece, si configura come una sorta di “concorso nel concorso necessario”, ossia, come la condotta di soggetto esterno all’associazione a delinquere (e quindi di soggetto a cui non è richiesta l’adesione al vincolo associativo) che apporti un contributo effettivo al perseguimento degli scopi illeciti dell’associazione
Tale contributo integrerà la fattispecie del reato in oggetto qualora sussistano una serie di requisiti, delineati, da ultimo, dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n° 22327 del 21 maggio 2003.
ALTRI COMMENTI SUL RENZI ARABO
Magistratura e società
Legittimare un despota? E per un piatto di lenticchie?
di Nello Rossi
direttore di Questione Giustizia
Se l’Italia vuole conservare un accettabile grado di credibilità nel contesto internazionale, deve stringere un cordone sanitario intorno a sortite come quella “araba” di Matteo Renzi, ricordandogli che essere stato presidente del Consiglio comporta oneri anche quando si è cessati dalla carica e che essere parlamentari di una Repubblica democratica non è compatibile – eticamente e politicamente – con l’adulazione dei despoti.
Ne va della capacità del nostro Paese – ed è per questo che una Rivista di magistrati ritiene di dover intervenire – di svolgere il ruolo cui ambisce, e nel quale ha profuso tante energie e risorse, di protagonista nella tutela dei diritti umani fondamentali nel mondo.
1. Il rapporto dell’Office of the Director of National Intelligence statunitense sull’assassinio di Jamal Khashoggi
Nell’executive summary del rapporto elaborato dall’Office of the Director of National Intelligence americano sull’uccisione di Jamal Khashoggi, desecretato il 25 febbraio 2021 per iniziativa dell’amministrazione Biden, si legge testualmente:
«Riteniamo che il principe ereditario Muhammad bin Salman abbia approvato una operazione ad Istanbul, in Turchia, per catturare o uccidere il giornalista saudita Jamal Khashoggi .
Basiamo questa valutazione sul controllo del principe saudita sui processi decisionali nel Regno, sul diretto coinvolgimento di un consigliere chiave e di membri della cerchia di Muhammad bin Salman nell’operazione, sul sostegno del principe ereditario all’uso di misure violente per silenziare il dissenso all’estero, incluso Khashoggi.
Fin dal 2017 il principe ereditario ha avuto il controllo assoluto della sicurezza del Regno e delle organizzazioni di intelligence, il che rende altamente improbabile che funzionari sauditi abbiano portato avanti un’operazione di questa natura senza l’autorizzazione del principe ereditario».
Nel report vengono sinteticamente rappresentati i termini dell’operazione criminale.
Iniziata con l’arrivo ad Istanbul, il 2 ottobre 2018, di una squadra di quindici sauditi – comprendente funzionari legati al Saudi Center for Studies and Media Affairs (CSMARC) della Corte reale e sette membri della scorta di élite di Muhammad bin Salman, nota come Forza rapida d’intervento (RIF) – l’azione programmata, che ha coinvolto 21 persone, è culminata nell’assassinio di Jamal Khashoggi all’interno del Consolato saudita della metropoli turca.
L’intelligence americana ricorda in particolare che, all’epoca dell’operazione, il CSMARC era diretto da Saud al–Qatahani, stretto consigliere di Muhammad bin Salman e sottolinea che questi, alla metà del 2018, aveva dichiarato pubblicamente di non prendere decisioni senza l’approvazione del principe ereditario.
Anche i membri della Forza rapida d’intervento – sostiene il rapporto – non avrebbero partecipato all’operazione senza l’approvazione del principe Muhammad bin Salman.
Il principe – prosegue il report – vedeva in Khashoggi una minaccia per il Regno ed era il sostenitore del ricorso, se necessario, a mezzi violenti per ridurlo al silenzio.
Unico aspetto di relativa incertezza per gli estensori del report è “con quanto anticipo” i funzionari sauditi avessero deciso di colpire a morte il giornalista nell’ambito di una operazione punitiva da tempo pianificata.
2. Il miserevole tassello italiano
Diciamo subito che non si tratta di sposare il rapporto e le sue conclusioni dando aprioristicamente per certo ciò che pure in esso è asseverato con un alto grado di sicurezza e sulla base di dati di fatto e argomentazioni difficilmente confutabili (e infatti non confutate ma semplicemente respinte dalle autorità saudite).
Piuttosto va messo in rilievo che i contenuti del rapporto e le sue più che realistiche valutazioni non fanno altro che “aggiungersi”, come un’ultima, ennesima tessera di mosaico, ad una lunga serie di rivelazioni, di notizie, di immagini, raccolte da una pluralità di fonti di informazioni indipendenti ed ormai a tutti note sull’orribile omicidio di un giornalista e dissidente politico perpetrato all’interno di un Consolato saudita in terra straniera.
Così come sono a tutti conosciuti i caratteri dispotici del regime saudita e i tratti arcaici, profondamente autoritari e illiberali del governo di quel Paese.
E’ in questo drammatico mosaico che si è inserito il tassello italiano, reso non meno inquietante dai suoi tratti miserevoli e grotteschi.
Risale solo a qualche settimana fa lo spettacolo di un ex Presidente del Consiglio, senatore in carica e leader di una forza politica presente in Parlamento e nel Governo, che si reca alla corte del principe ereditario Muhammad bin Salman per rendergli omaggio ed intrattenersi amabilmente con lui sul Rinascimento arabo ed altre amenità, tra cui l’invidiato costo del lavoro in Arabia Saudita (dovuto, per inciso, all’enorme numero di immigrati che vi lavorano).
3. Ci sono due Muhammad bin Salman?
Stropicciamoci gli occhi per assicurarci di essere ben svegli, di non avere le traveggole, di non vedere doppio.
Dinanzi a noi ci sono due Muhammad Bin Salman.
Il primo, additato, ieri come oggi, come il mandante dell’efferato omicidio di un giornalista dissidente, come l’utilizzatore della violenza come metodo di governo, come un autocrate detentore di un potere incontrollato e incontrollabile.
Il secondo, elogiato, riverito, vezzeggiato, adulato.
Da molti dei suoi sudditi, con l’attenuante della paura per la propria esistenza e per quella delle loro famiglie.
Da un rappresentante del popolo italiano, con il corredo del cinismo politico e del tornaconto economico, e senza neppure la possibilità di invocare la foglia di fico della ragion di Stato o della necessità di mantenere in vita accettabili relazioni diplomatiche.
Eppure la prima reazione – un vivo rossore di vergogna, di sdegno, di ripulsa – che l’accaduto suscita nei cittadini che hanno ancora a cuore l’Italia e la sua “civiltà” deve cedere il posto ad una più attenta valutazione istituzionale e a domande sin qui neppure poste o comunque rimaste senza alcuna risposta.
La visita di Matteo Renzi – al di là degli aspetti e dei toni che hanno suscitato tra molti spettatori un riso assai amaro – aveva uno scopo preciso: legittimare un governante screditato sulla scena internazionale, rinsaldando il suo potere all’interno del Paese e mostrandolo ai suoi sudditi come interlocutore privilegiato di chi ha ricoperto altissimi incarichi istituzionali in un grande Paese democratico.
Che queste finalità, come è più che probabile, non siano state raggiunte non attenua la gravità dell’atto compiuto e non mitiga la responsabilità politica dell’inqualificabile iniziativa.
Si è assistito ad una svendita a prezzi di saldo non dell’immagine di Matteo Renzi ma di quella del nostro Paese, messo in evidente imbarazzo dalla sconcertante performance televisiva di un suo esponente politico di primo piano.
Se l’Italia vuole conservare un accettabile grado di credibilità nel contesto internazionale, deve stringere un cordone sanitario intorno a sortite come quella “araba” di Matteo Renzi, ricordandogli che essere stato presidente del Consiglio comporta oneri anche quando si è cessati dalla carica e che essere parlamentari di una Repubblica democratica non è compatibile – eticamente e politicamente – con l’adulazione dei despoti.
Ne va della capacità del nostro Paese – ed è per questo che una Rivista di magistrati ritiene di dover intervenire – di svolgere il ruolo cui ambisce, e nel quale ha profuso tante energie e risorse, di protagonista nella tutela dei diritti umani fondamentali.
Non vendere la primogenitura per un piatto di lenticchie è il minimo che si deve a quanti per la Repubblica democratica hanno lavorato, lottato, sofferto e persino dato la vita ed a coloro che sono impegnati, in ogni parte del mondo, nella salvaguardia del diritto e dei diritti, di contro alla violenza e alla sopraffazione.