martedì, 17 Dicembre 2024
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MEGLIO PEGGIO DEI GIORNALIU DI OGGI ( terza comunicazione)

IN EDICOLA/POLITICA

Recovery, stuolo di tecnici: ok al reclutamento-lampo

Recovery, stuolo di tecnici: ok al reclutamento-lampo

Centinaia di esperti nei ministeri (a tempo). Da Brunetta al Tesoro, chi comanderà

di  | 9 MARZO 2021

Il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) sarà incardinato al Tesoro anche nella sua fase attuativa. A gestirlo arriverà uno stuolo di tecnici assunti con “procedure specifiche”, in sostanza senza concorso e per un tempo limitato (andranno poi stabilizzate). È la prima parte di un piano più ampio di riforma affidato al ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, che lo illustrerà oggi. Per quegli strani giri del destino, l’uomo che, dallo stesso ruolo, dieci anni fa avviò la stagione dei tagli nel comparto pubblico, oggi è chiamato a risolvere la grana.

L’audizione del ministro dell’Economia Daniele Franco ieri alle Camere era attesa visto che il tecnico a cui Mario Draghi ha affidato la revisione del Piano ereditato dal governo Conte – che deve usare 191 miliardi di fondi Ue – doveva spiegare anche perché il ministero è ricorso all’aiuto del colosso della consulenza McKinsey (e dei big del settore, da Kpmg, a E&Y e Accenture). A grandi linee, Franco ha anticipato quel che è ormai evidente: a gestire i fondi non bastano le strutture ordinarie della P.A., fiaccata da anni di tagli, ma verranno create strutture ad hoc in tutti i ministeri, a partire dal suo.

Nella versione di Conte, la task force che doveva gestire il piano era incardinata a Palazzo Chigi, coordinata da due dicasteri (Economia e Sviluppo) e affidata a una “struttura di missione” con centinaia di tecnici guidati da 6 figure apicali. Con l’arrivo di Draghi, Franco ha affidato la revisione del piano (da consegnare entro aprile a Bruxelles) alla Ragioneria dello Stato – che nell’idea del governo giallorosa doveva solo “monitorare” le spese – dislocando 50 tra dirigenti e funzionari. Un contingente “che crescerà ancora”.

La governance del Pnrr sarà affidata a una “struttura centrale” al Tesoro che “supervisionerà l’attuazione, gestirà i flussi finanziari, controllerà la spesa, valuterà i risultati e deciderà le eventuali correzioni”. Sarà affiancata da “una unità di audit indipendente, responsabile delle verifiche sistemiche”, che avrà il compito di fare da garante con Bruxelles. La struttura di missione conterà centinaia di figure, e il Tesoro – ha detto Franco – ha chiesto agli altri ministeri di creare strutture ad hoc simili, anche se più piccole.

In sostanza la task force che doveva essere a Palazzo Chigi viene spostata al Tesoro e in parte, in altri ministeri, il grosso dei quali (Transizione ecologica, Digitale, Infrastrutture) è guidato da tecnici che rispondono a Draghi (e al Quirinale). Tradotto: per i partiti che reclamavano più collegialità nelle decisioni, i margini di intervento non aumentano di certo. Ai parlamentari preoccupati, il ministro ha spiegato che le Camere verranno coinvolte nella stesura. Come? Tenendo conto “delle risoluzioni che esprimeranno” sulla bozza del vecchio piano. Ma i tempi sono stretti e di fatto deciderà il governo.

Oggi Brunetta illustrerà le linee guida della riforma, che prevederà procedure specifiche per reclutare migliaia di tecnici specializzati per gestire il Pnrr; rivedere e sbloccare le procedure concorsuali (lo stato dell’arte lo leggete a destra).

Nella sua audizione, Franco ha poi chiarito che il piano lasciato da Conte “presenta molti elementi di solidità”, e che si faranno delle modifiche selettive. Sul ricorso a McKinsey&C. la riposta ha toccato vette quasi surreali. Il ministro si è giustificato spiegando che “le strutture pubbliche hanno spesso bisogno di input specialistici su determinati lavori, come ad esempio la presentazione di slide”. Eppure solo sabato il ministero aveva chiarito che il colosso avrà ruoli di “supporto tecnico di project management e monitoraggio” nella stesura del Piano. Molti colossi già lavorano con i ministeri, ma coinvolgerli nella fase decisiva è una scelta precisa (peraltro all’epoca esplicitamente esclusa dal governo Conte).

Gli spiriti guida

di  | 9 MARZO 2021

Tra i rari spiriti guida che ci aiutano a campare, mai rinunceremmo ad Angelo Panebianco e Massimo Recalcati. Figuratevi la gioia nel ritrovarli entrambi ieri, in stereo, su Corriere e Stampa. Una doppia boccata di ossigeno. Panebianco spiega perché Usa, Uk e Israele hanno vaccini da buttare e l’Europa no: quelli sono “pragmatici” e badano al “risultato”, mentre noi europei ce ne fottiamo perché siamo “giuridici”. Una “patologia” tipica di noi italiani, in aggiunta ad altre infezioni: “populismo”; “atteggiamento ostile nei confronti delle imprese private”, del “profitto” e della “concorrenza di mercato”, in particolare “quelle farmaceutiche”, viste come “le peggiori” dai comunisti che preferirebbero lo Stato; e, last but not least, “leggi acchiappa-ladri” con “procuratori e polizie che si sforzano di acchiapparli”. Chissà se Withebread ha saputo che Big Pharma ha consegnato meno della metà delle dosi pattuite da contratto con la Ue, per vendere le altre a chi le paga il doppio. Che un anno fa, grazie alla “concorrenza di mercato”, non producevamo mascherine, camici e guanti perché si faceva tutto in Asia e abbiamo dovuto inventarci una produzione nazionale grazie ai famigerati Conte e Arcuri. Che intanto Arcuri, più pragmatico che giuridico, comprò un miliardo di mascherine dalla Cina senza badare troppo ai costi e ai mediatori, così ottenne il risultato e salvò migliaia di vite, ma i giornaloni gli ruppero le palle perché non aveva tirato sul prezzo e ora esultano perché Draghi l’ha silurato. Che, tirando sul prezzo, la Von der Leyen s’è fatta fregare dalla “concorrenza di mercato” metà dei vaccini già pagati e ora si converte al sovranismo dirigista bloccando addirittura le esportazioni extra-Ue. E poi, già che ci siamo, che minchia c’entrano le polizie e i pm che acchiappano i ladri?

Al cupo pessimismo panebianchiano fa da contrappunto l’illuminato ottimismo del prof. Recalcazzola (“Il Draghismo e la legge del padre”): dopo tanti padri degeneri, tipo Berlusconi, Grillo e pure Prodi, l’Italia ha finalmente trovato la “figura della leadership paterna”, “ideologicamente desensibilizzata” ma dotata di “ascetismo di matrice weberiana” e “autorevolezza carismatica”, che “riattiva la funzione orientativa del padre” con “la via composta e rigorosa del silenzio nobile della prassi”, obbligando “i figli litigiosi a rimettere le loro pietre nelle tasche per il bene comune”. Indovinate: chi è questo Geppetto lacaniano 2.0? Mario Draghi, naturalmente, che “si profila come un paradossale erede di Berlinguer”. Ma pure, a ben vedere, di Che Guevara. Ora che ci ha trovato un babbo, se non è troppo pretendere, chiederemmo a Recalcazzola un ultimo sforzo: ci manca tanto uno zio.

Conte, il piano per la segreteria senza i soliti big

Conte, il piano per la segreteria senza i soliti big

di  | 9 MARZO 2021

L’avvocato che si è fatto rifondatore vuole e deve riscrivere regole e struttura dei Cinque Stelle. E visto che c’è, intende anche rinfrescare le gerarchie. Perché Giuseppe Conte ha quell’idea, una segreteria di sua fiducia con volti (sostanzialmente) nuovi, insomma non inzeppata dei soliti big. E a suggerirgliela, dicono, è stato Beppe Grillo. D’altronde proprio con il Garante, come rivelato dal Fatto, domenica scorsa Conte ha discusso del futuro prossimo del Movimento, facendogli visita nella sua villa a Marina di Bibbona in Toscana. In riva al mare, hanno fatto il punto. E l’avvocato se lo è sentito ripetere dal Garante: “Giuseppe, dobbiamo puntare su facce nuove”. Un concetto che Grillo ha ripetuto anche ia diversi 5Stelle. Vuole una segreteria o direzione con 5Stelle finora non in primo piano, il fondatore, anche per tranquilizzare il corpaccione parlamentare. Ieri l’Adnkronos ha scritto che Conte valuterebbe di coinvolgere anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, ma per ora non ci sono conferme. Di sicuro però Raggi è popolarissima nella base, e di questi tempi è merce rara per il M5S. Ma ha anche molti avversari di vecchia data tra i big. Prima che Conte arrivasse a caricarsi il Movimento in crisi di identità, la sindaca era pronta a candidarsi per l’organo collegiale, anche per blindare la sua ricandidatura. Ma ora tutto il Movimento, a partire da Grillo, ha confermato che a correre per il Campidoglio sarà ancora lei. E allora in questi giorni la sindaca starà a osservare i passi dell’ex premier. Pronta anche a prendere in esame la proposta di un ruolo, sostengono fonti del M5S.

Nell’attesa, Conte e Grillo hanno altri problemi da affrontare. E il primo è sempre lui, Davide Casaleggio, che domani presenterà il suo manifesto, “Controvento”. con “i principi e i valori del modello Rousseau”. Un testo per sottolineare l’importanza e il ruolo della piattaforma web, “di cui è necessario definire, pubblicamente e definitivamente, lo spazio di azione” come scrive l’associazione Rousseau, ossia Casaleggio. Che in particolare sostiene: “Rousseau non è uno strumento o un media da utilizzare per il voto, ma rappresenta una architettura digitale della partecipazione, che conferisce il potere decisionale ai cittadini permettendo loro un attivo esercizio dei diritti di cittadinanza digitale”. Tradotto, come spiega un parlamentare in buoni rapporti con la casa madre di Milano, “Davide si lamenta perché la piattaforma viene usata solo per qualche voto di ratifica, mentre dovrebbe essere il luogo delle assemblee e del confronto interno”. Ma il manifesto a tanti grillini è suonato come una prova tecnica di scissione. E non è piaciuto nè a Conte nè a Grillo. Tanto che il Garante, a un parlamentare che gli aveva inoltrato il post di presentazione, ha risposto con una battuta delle sue: “Non pisciare controvento”. Ma al di là del sarcasmo Grillo e l’ex premier cercano ancora una mediazione con Casaleggio. E nel caso del Garante c’entra moltissimo il suo rapporto con il padre del manager, Gianroberto.

Ma a pesare è anche una ragione molto più prosaica. Perché giuridicamente separarsi in modo totale e definitivo da Rousseau, come pure chiedono molti parlamentari, appare rischioso. “L’attuale Statuto conferisce alla piattaforma un ruolo centrale, e poi Casaleggio detiene i dati degli iscritti” ricorda una fonte di peso. Certo, Conte sta lavorando a una nuova normativa, e si sta ragionando su un ritorno all’associazione del 2012, quella fondata a Genova da Grillo con suo nipote Enrico e il suo commercialista, Enrico Maria Nadasi. Ma strappare con Milano, senza almeno arrivare a un contratto di servizio che renda Casaleggio un fornitore esterno, porterebbe a una guerra in tribunale dai confini e dagli esiti incerti. Così si cerca ancora un punto di caduta. Perché di guai il M5S ne ha già abbastanza.

“Aspi, 42 intercettazioni ora incastrano i vertici”

“Aspi, 42 intercettazioni ora incastrano i vertici”

di Marco Grasso | 9 MARZO 2021

La prova più importante, quella che per l’accusa dimostra come i vertici di Autostrade per l’Italia fossero consapevoli del degrado del Ponte Morandi, è racchiusa in 42 audio. Si tratta di registrazioni di riunioni riservate, avvenute fra il 2016 e il 2017, di durata che varia da 1 a 2 ore l’una. Colloqui precedenti la strage che il 14 agosto 2018 ha provocato la morte di 43 persone. La tensione sui temi della sicurezza era tale che due dirigenti di Spea (società del gruppo Atlantia che effettuava i controlli) registravano i manager di Autostrade, abitudine che si è trasformata in un’arma insperata per i pm di Genova.

I magistrati, dunque, hanno a disposizione una fotografia dei due anni precedenti l’inizio delle indagini. E, soprattutto, conversazioni in cui ritornano alcuni temi fondamentali: la corrosione dei cavi, la perdita di tensione dei tiranti, la necessità di intervenire in modo urgente e di velocizzare i lavori di ristrutturazione rinviato per oltre tre anni. Nei giorni scorsi tutto questo materiale è stato depositato agli atti dai finanzieri del Primo Gruppo (coordinati dal colonnello Ivan Bixio) e del Nucleo Metropolitano (guidati dal colonnello Giampaolo Lo Turco). L’archivio di file era stato trovato durante le perquisizioni ai computer di Marco Vezil e Massimiliano Giacobbi, quadri di Spea, fra i 71 indagati per il disastro. Negli audio ritorna spesso Michele Donferri Mitelli, ex capo delle manutenzioni Aspi e braccio destro dell’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci. Le sue direttive, per i pm, sono indicative delle pressioni esercitate dai vertici della società per rinviare i lavori e addomesticare i report sui viadotti, comportamenti ispirati da “finalità di lucro”. In una delle intercettazioni clou Donferri spinge per fare “abbassare” i voti dei report sui viadotti: più un valore è alto, e più è urgente la manutenzione da fare. Fino al limite di 70, soglia che impone la chiusura: “Ma che sono tutti questi 50? – dice Donferri – me li dovette toglie tutti. Adesso gli riscrivete e fate Pescara a 40, perché il danno di immagine è un problema di governance”. Sull’argomento interviene un altro dirigente Aspi, Gianni Marrone: “La realtà dei voti la so che è sottostimata, ma non lo so da adesso, lo so da parecchio”. Risposta di Donferri: “Allora, scusame un attimo, mo’ fama finta de niente … perché se è sottostimata e qualcuno non ti ha messo in evidenza ‘sti errori .. vaffanculo”. Donferri, riprende i tecnici di Spea che rivedono i voti al rialzo: “Me fai alzà i voti? Che cazzo fai alzà? Ma sei scemo?”.

Le registrazioni hanno portato all’apertura di una nuova inchiesta della Procura di Firenze sui falsi report. Per il gip Angela Nutini “l’obiettivo primario dei tecnici non era fornire la risposta tecnicamente corretta, ma far sì che sulla carta tutto fosse coerente, disinteressandosi alla realtà fattuale, lavorando alacremente per fornire dati quanto più incompleti al Ministero”.

I lager e le stragi inventate. Le fake sull’Unità d’Italia

I lager e le stragi inventate. Le fake sull’Unità d’Italia

Il saggio di Messina mette ordine

di Massimo Novelli | 9 MARZO 2021

“Una corrente, che definiamo per comodità neoborbonica (anche se è un aggettivo che viene spesso respinto come denigratorio), ha messo sotto accusa le modalità dell’annessione e le politiche economiche seguite alla dichiarazione dell’Unità il 17 marzo 1861”. Secondo “questo punto di vista i 9 milioni di meridionali che abitavano il Regno delle Due Sicilie sarebbero diventati italiani per forza”. Una “visione questa che non tiene conto di quella parte di meridionali continentali e siciliani che l’Unità la volevano. E spesso si trattava dei ceti più colti e avanzati”.

Comincia con queste considerazioni Italiani per forza. Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare (Solferino, pagg. 325, euro 17), il nuovo libro di Dino Messina, lucano trapiantato da decenni a Milano, giornalista e storico, che esce nei giorni del centosessantesimo anniversario della proclamazione del Regno d’Italia. Indagando la storia con scrupolo e senza pregiudizi, e scavando negli archivi, ma anche interpellando tanto gli studiosi veri quanto gli stessi “revisionisti”, l’autore fa piazza pulita delle innumerevoli fake news e delle leggende con cui il Risorgimento è stato vituperato in questi anni. Una denigrazione becera, portata avanti quasi sempre su Internet dai “neoborbonici”, dai leghisti della prima ora e da una certa pubblicistica reazionaria. Gli attacchi all’Unità nazionale sono fondati essenzialmente su tre assiomi. Primo: il Regno delle Due Sicilie era una sorta di “Austria Felix”, distrutto e colonizzato dal Nord. Secondo: Garibaldi e le camicie rosse erano solo un branco di delinquenti, in combutta con la mafia e con la camorra. Terzo: i militari piemontesi, e poi italiani, si comportarono verso i vinti soldati borbonici, dopo il 1860, come si sarebbero comportati i nazisti.

L’assioma, come è noto, non ha bisogno di dimostrazioni. Da qui, pertanto, ecco le copiose invenzioni sui “lager” del re Vittorio Emanuele II, come quello di Fenestrelle, dove, secondo gli antiunitari, vennero fatti morire migliaia di ex soldati meridionali di Francesco II. E sempre da lì, da quegli assiomi, ecco le stragi compiute dall’esercito italiano nel Mezzogiorno, come a Pontelandolfo, durante la lotta al brigantaggio.

Emersa già in vari studi e basata, in ogni caso, su documenti d’archivio e su fonti spesso non certamente “unitarie” come le parrocchie, la verità è naturalmente assai differente. A Fenestrelle, in Piemonte, non morirono migliaia di soldati del Regno delle Due Sicilie, addirittura 40 mila in base ai “neoborbonici” e affini, ma, in cinque anni, solamente una quarantina. E queste cifre, scrive Messina, “più che un genocidio etnico, spesso nascondono diverse vittime dovute a delitti di camorra, che da tempo si era infiltrata nell’esercito borbonico”. Quanto poi “alla prassi di ‘sciogliere nella calce viva’ i corpi dei poveri soldati è evidente che si tratta di una colossale invenzione. Cospargere di calce i corpi dei defunti era una prassi adottata durante gli assedi, quando non si poteva dar loro subito degna sepoltura”.

Ciò che vale per Fenestrelle vale pure per Pontelandolfo, il paesino beneventano dove, l’11 agosto del 1861, i briganti massacrarono 41 soldati italiani. La reazione militare, per i “neoborbonici” e soci, avrebbe fatto registrare fino a oltre 1400 vittime. Per la cronaca, afferma Messina, “furono 37 i fucilati per l’uccisione dei 41 militari, di cui 12 di Pontelandolfo e 8 di Casalduni”. La storica Silvia Sonetti, citata da Messina, ha osservato a proposito di Pontelandolfo che “il mito dell’eccidio, pur smentito da tutte le ricerche documentate e da ogni fonte archivistica, ha travalicato il limite dell’invenzione e si è trasformato in una storia vera, fino al punto da essere accreditata anche dalle istituzioni”.

Ancora più mitica è la narrazione di un Mezzogiorno che nel 1860 avrebbe subito l’Unità nazionale, senza volerla per niente. Messina rammenta opportunamente che le “province calabresi diedero 10mila uomini all’esercito di Garibaldi (4.000 dei quali parteciparono in ottobre alla decisiva battaglia del Volturno), mentre 3.000 volontari arrivarono dalla Basilicata, dove il 16 agosto era scoppiata la prima rivolta unitaria in un paesino sperduto, Corleto Perticara, e già il 18 agosto a Potenza era stato proclamato un governo provvisorio: Nicola Mignogna e Giacinto Albini avevano assunto la prodittatura”. Il “loro primo atto fu l’abolizione della tassa sul macinato, seguito dalla promessa di distribuzione delle terre demaniali. Propositi subito ritirati dopo le proteste dei maggiorenti”.

Lo “storytelling neoborbonico”, come dice a Messina il giornalista Saverio Paletta, direttore del giornale online L’Indygesto, invece “sposta l’attenzione dalle responsabilità della classe dirigente locale verso il sistema Paese, diventato un vero e proprio capro espiatorio. La mobilitazione basata sulla distorsione dei fatti storici alimenta un sentimento di odio politico che può diventare molto pericoloso. In questo si è dimostrato cruciale l’uso spregiudicato di Internet”.

Giochi di potere

Giochi di potere

La foto di Beppe Grillo e Giuseppe Conte sulla spiaggia di Bibbona, dove hanno insediato la costituente del nuovo Movimento, sarebbe piaciuta al grande Raymond Aron, e forse gli avrebbe suggerito di cambiare qualcosa dell’ultima lezione impartita al Collège de France.

Era il 1978 e disse che le giovani generazioni erano accomunate dal detestare il potere in quanto tale. Aron aveva 73 anni e non parlava solo dei ragazzi, ma anche di colleghi cresciutelli, inconsapevoli che la vita è un intreccio di reti, di relazioni e dunque di potere, e infatti oggi scrivere un tweet, rivolgersi ai follower, provare a influenzarli, a mobilitarti per tanti o pochi che siano, è l’esercizio di potere nella diversa intensità consentita a ognuno di noi.

Il potere di Grillo, per esempio, è stato vasto e tuttora non trascurabile, soprattutto sulla sua comunità più ristretta, e Aron ci aveva preso: essere ostili al potere in quanto tale, e stringersi contro il potere in una piccola comunità, spesso porta la piccola comunità a essere dispotica. Ed eccoli lì, in due, a insediare faccia a faccia la costituente del Movimento. Sono in due a esercitare il loro potere perché giocano a considerare il potere in quanto tale, cioè il potere altrui, qualche cosa di sporco e di oppressivo, ma non c’è immagine più innocentemente pura di uso di potere, prossimo all’abuso.

Se Aron fosse vissuto più dei cinque anni che gli restavano, e avesse visto l’evoluzione della lotta al potere fino ai Cinque Stelle, avrebbe detto che le giovani generazioni prima detestano il potere in quanto tale e, un minuto dopo, in quanto tale lo adorano.