“Una corrente, che definiamo per comodità neoborbonica (anche se è un aggettivo che viene spesso respinto come denigratorio), ha messo sotto accusa le modalità dell’annessione e le politiche economiche seguite alla dichiarazione dell’Unità il 17 marzo 1861”. Secondo “questo punto di vista i 9 milioni di meridionali che abitavano il Regno delle Due Sicilie sarebbero diventati italiani per forza”. Una “visione questa che non tiene conto di quella parte di meridionali continentali e siciliani che l’Unità la volevano. E spesso si trattava dei ceti più colti e avanzati”.
Comincia con queste considerazioni Italiani per forza. Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare (Solferino, pagg. 325, euro 17), il nuovo libro di Dino Messina, lucano trapiantato da decenni a Milano, giornalista e storico, che esce nei giorni del centosessantesimo anniversario della proclamazione del Regno d’Italia. Indagando la storia con scrupolo e senza pregiudizi, e scavando negli archivi, ma anche interpellando tanto gli studiosi veri quanto gli stessi “revisionisti”, l’autore fa piazza pulita delle innumerevoli fake news e delle leggende con cui il Risorgimento è stato vituperato in questi anni. Una denigrazione becera, portata avanti quasi sempre su Internet dai “neoborbonici”, dai leghisti della prima ora e da una certa pubblicistica reazionaria. Gli attacchi all’Unità nazionale sono fondati essenzialmente su tre assiomi. Primo: il Regno delle Due Sicilie era una sorta di “Austria Felix”, distrutto e colonizzato dal Nord. Secondo: Garibaldi e le camicie rosse erano solo un branco di delinquenti, in combutta con la mafia e con la camorra. Terzo: i militari piemontesi, e poi italiani, si comportarono verso i vinti soldati borbonici, dopo il 1860, come si sarebbero comportati i nazisti.
L’assioma, come è noto, non ha bisogno di dimostrazioni. Da qui, pertanto, ecco le copiose invenzioni sui “lager” del re Vittorio Emanuele II, come quello di Fenestrelle, dove, secondo gli antiunitari, vennero fatti morire migliaia di ex soldati meridionali di Francesco II. E sempre da lì, da quegli assiomi, ecco le stragi compiute dall’esercito italiano nel Mezzogiorno, come a Pontelandolfo, durante la lotta al brigantaggio.
Emersa già in vari studi e basata, in ogni caso, su documenti d’archivio e su fonti spesso non certamente “unitarie” come le parrocchie, la verità è naturalmente assai differente. A Fenestrelle, in Piemonte, non morirono migliaia di soldati del Regno delle Due Sicilie, addirittura 40 mila in base ai “neoborbonici” e affini, ma, in cinque anni, solamente una quarantina. E queste cifre, scrive Messina, “più che un genocidio etnico, spesso nascondono diverse vittime dovute a delitti di camorra, che da tempo si era infiltrata nell’esercito borbonico”. Quanto poi “alla prassi di ‘sciogliere nella calce viva’ i corpi dei poveri soldati è evidente che si tratta di una colossale invenzione. Cospargere di calce i corpi dei defunti era una prassi adottata durante gli assedi, quando non si poteva dar loro subito degna sepoltura”.
Ciò che vale per Fenestrelle vale pure per Pontelandolfo, il paesino beneventano dove, l’11 agosto del 1861, i briganti massacrarono 41 soldati italiani. La reazione militare, per i “neoborbonici” e soci, avrebbe fatto registrare fino a oltre 1400 vittime. Per la cronaca, afferma Messina, “furono 37 i fucilati per l’uccisione dei 41 militari, di cui 12 di Pontelandolfo e 8 di Casalduni”. La storica Silvia Sonetti, citata da Messina, ha osservato a proposito di Pontelandolfo che “il mito dell’eccidio, pur smentito da tutte le ricerche documentate e da ogni fonte archivistica, ha travalicato il limite dell’invenzione e si è trasformato in una storia vera, fino al punto da essere accreditata anche dalle istituzioni”.
Ancora più mitica è la narrazione di un Mezzogiorno che nel 1860 avrebbe subito l’Unità nazionale, senza volerla per niente. Messina rammenta opportunamente che le “province calabresi diedero 10mila uomini all’esercito di Garibaldi (4.000 dei quali parteciparono in ottobre alla decisiva battaglia del Volturno), mentre 3.000 volontari arrivarono dalla Basilicata, dove il 16 agosto era scoppiata la prima rivolta unitaria in un paesino sperduto, Corleto Perticara, e già il 18 agosto a Potenza era stato proclamato un governo provvisorio: Nicola Mignogna e Giacinto Albini avevano assunto la prodittatura”. Il “loro primo atto fu l’abolizione della tassa sul macinato, seguito dalla promessa di distribuzione delle terre demaniali. Propositi subito ritirati dopo le proteste dei maggiorenti”.
Lo “storytelling neoborbonico”, come dice a Messina il giornalista Saverio Paletta, direttore del giornale online L’Indygesto, invece “sposta l’attenzione dalle responsabilità della classe dirigente locale verso il sistema Paese, diventato un vero e proprio capro espiatorio. La mobilitazione basata sulla distorsione dei fatti storici alimenta un sentimento di odio politico che può diventare molto pericoloso. In questo si è dimostrato cruciale l’uso spregiudicato di Internet”.
La foto di Beppe Grillo e Giuseppe Conte sulla spiaggia di Bibbona, dove hanno insediato la costituente del nuovo Movimento, sarebbe piaciuta al grande Raymond Aron, e forse gli avrebbe suggerito di cambiare qualcosa dell’ultima lezione impartita al Collège de France.
Era il 1978 e disse che le giovani generazioni erano accomunate dal detestare il potere in quanto tale. Aron aveva 73 anni e non parlava solo dei ragazzi, ma anche di colleghi cresciutelli, inconsapevoli che la vita è un intreccio di reti, di relazioni e dunque di potere, e infatti oggi scrivere un tweet, rivolgersi ai follower, provare a influenzarli, a mobilitarti per tanti o pochi che siano, è l’esercizio di potere nella diversa intensità consentita a ognuno di noi.
Il potere di Grillo, per esempio, è stato vasto e tuttora non trascurabile, soprattutto sulla sua comunità più ristretta, e Aron ci aveva preso: essere ostili al potere in quanto tale, e stringersi contro il potere in una piccola comunità, spesso porta la piccola comunità a essere dispotica. Ed eccoli lì, in due, a insediare faccia a faccia la costituente del Movimento. Sono in due a esercitare il loro potere perché giocano a considerare il potere in quanto tale, cioè il potere altrui, qualche cosa di sporco e di oppressivo, ma non c’è immagine più innocentemente pura di uso di potere, prossimo all’abuso.
Se Aron fosse vissuto più dei cinque anni che gli restavano, e avesse visto l’evoluzione della lotta al potere fino ai Cinque Stelle, avrebbe detto che le giovani generazioni prima detestano il potere in quanto tale e, un minuto dopo, in quanto tale lo adorano.