Gli Usa: “Stop a J&J” Effetto AstraZeneca sul vaccino monodose
La terza ondata
Neanche il tempo di esultare per il primo mini-lotto di Johnson&Johnson atterrato in Italia, che subito le prime 184 mila dosi del vaccino monodose made in Usa devono tornare in magazzino. La Food and Drugs Administration (l’Agenzia statunitense del farmaco) ha infatti ieri ordinato lo stop precauzionale, con effetto immediato, della somministrazione di J&J negli Stati Uniti, a causa di sei casi di trombosi venosa e cerebrale (su 6,8 milioni di somministrazioni totali), una rarissima patologia riscontrata in sei donne di età compresa tra i 18 e i 48 anni: una è morta, un’altra si trova ricoverata in gravi condizioni. L’azienda ha di consegueza sospeso le consegne previste in Europa.Se anche non fossero realmente a rischio le 200 milioni di dosi attese dall’Ue entro la fine del 2021 (le autorità Usa potrebbero già oggi dare un nuovo via libera, magari con qualche limitazione), un nuovo caso AstraZeneca potrebbe essere un duro colpo per la campagna vaccinale europea. Un colpo è sicuramente per l’Italia, alle prese con un oggettivo problema di forniture. Le 184 mila dosi sbarcate ieri a Pratica di Mare sono infatti le prime di 26,57 milioni attese nel nostro Paese entro la fine dell’anno (7,31 entro giugno, 15,94 entro settembre e 3,32 entro dicembre). Il rischio – oltre al ritardo certo nelle consegne che influirà non poco sul piano Figliuolo – è che si inneschi un nuovo effetto AstraZeneca, la diffidenza verso un prodotto sospeso per accertamenti su effetti letali comunque rarissimi (nel caso specifico meno di uno su un milione, come ha sottolineato anche Anthony Fauci, direttore dell’Istituto malattie infettive degli Stati Uniti e consigliere capo per la Salute della Casa Bianca).
Lo stop precauzionale della Fda, tuttavia, non deve stupire più di tanto. Johnson & Johnson, infatti, è un vaccino a vettore virale come AstraZeneca e come tale sta dando gli stessi (rarissimi) effetti collaterali. Già dall’8 aprile Ema (l’Agenzia europea del farmaco) aveva avviato indagini su 4 casi di trombosi denunciati negli Stati Uniti: “Al momento – comunica Ema – non è chiaro se esista un’associazione causale”. L’attenzione da parte di Aifa, l’agenzia italiana del farmaco, è ovviamente alta, così come quella del ministro della Salute, Roberto Speranza. E anche se per ora non è scattato il grande allarme (“Penso comunque che si debba usare”, ha commentato Speranza), il caso Johnson&Johnson ieri è stato al centro di una riunione al ministero con i vertici della stessa agenzia. Molti medici lo avevano previsto: dopo il caso AstraZeneca ci sarebbe stato un caso Johnson&Johnson: “Parliamo di due vaccini simili, a vettore virale – spiega Gabriele Gallone, medico esperto di vaccini, membro del direttivo di Anaao, sindacato dei medici dirigenti del Ssn –. Con entrambi si può creare una reazione tra il vettore e le piastrine che genera un richiamo di cellule infiammatorie che provocano il trombo. Il rischio è reale ma estremamente basso: circa 4 casi ogni milione di vaccinazioni. Come ha dimostrato uno studio danese, nelle donne che assumono la pillola anticoncezionale i casi di trombosi sono 629 ogni milione”.
A differenza dei vaccini Usa Pfizer/Biontech e Moderna, che utilizzano una tecnologia diversa basata sull’Rna messaggero (mRna), i sieri AstraZeneca e Johnson&Johnson utilizzano due virus.
Il primo l’adenovirus dello scimpanzé, il secondo un virus umano. “Il problema, qualora venisse utilizzato anche da noi, si riproporrebbe anche con il russo Sputnik, altro vaccino a vettore virale che però per la prima dose usa l’adenovirus uguale a quello di AstraZeneca e per la seconda dose quello uguale al vaccino Johnson&Johnson – prosegue Gallone –. L’Europa finora ha fatto una comunicazione pessima sui vaccini. E sarebbe folle pensare di poter utilizzare solo i vaccini mRna: la produzione mondiale è insufficiente a soddisfare la domanda. Dovremmo aspettare ancora molti mesi e in questa situazione dobbiamo basarci anche sui vaccini a vettore virale”.
Molte speranze sono riposte sul siero tedesco Curevac, anche questo basato sull’Rna messaggero, che si conserva a una temperatura di 5 gradi. Ma non dovrebbe arrivare prima di giugno. C’è poi il vaccino della casa farmaceutica Usa Novavax (con la quale sta trattando la Ue), che usa le proteine del virus.
Miracolo Celeste: riecco il vitalizio da 7mila euro
Ok del Senato. Ora Del Turco
Il Senato ha ridato il vitalizio da 7.000 euro al mese a Roberto Formigoni: tutto intero, arretrati compresi. Perché la commissione contenziosa di Palazzo Madama ha letteralmente fatto carta straccia della delibera del 2015 con cui l’allora presidente Piero Grasso aveva imposto la sospensione dell’assegno agli ex senatori condannati per reati gravi fino all’eventuale riabilitazione. E così, grazie alla decisione presa ieri dalla commissione presieduta da Giacomo Caliendo di Forza Italia, dovrà essere restituito il vitalizio non solo al Celeste, condannato in via definitiva per aver asservito la sua funzione agli interessi economici della Fondazione Maugeri e del San Raffaele. Ma pure agli altri ex rimasti a secco causa fedina penale, per usare un eufemismo, non immacolata. Una decisione che innanzitutto potrà essere applicata anche a Ottaviano Del Turco, condannato per aver preso mazzette nell’ambito della sanitopoli abruzzese, il cui vitalizio è ormai divenuto una telenovela: prima l’annuncio della revoca dell’assegno poi l’immediata sospensione della revoca stessa: domani, grazie alla “fortuna” che ha baciato Formigoni il caso sarà chiuso.Non si conoscono ancora le motivazioni della sentenza firmata da Caliendo&C. ma il dispositivo è piuttosto eloquente: “Disattesa ogni contraria istanza, eccezione e difesa, accoglie il ricorso e annulla delibera n. 57/2015 del Consiglio di Presidenza (quella che ha imposto la regola dello stop ai vitalizi per i condannati, ndr) e la successiva delibera n. 28/2019 del Consiglio di Presidenza (la decisione con cui erano stati chiusi i rubinetti al Celeste, ndr)”. Inutile dire che Formigoni non sta più nella pelle: “La commissione Contenziosa rimedia a un errore clamoroso. Ho ottenuto una misura di giustizia non solo per me ma per tanti altri cittadini” ha detto l’ex presidente della Lombardia assistito dall’avvocato Domenico Menorello che al Fatto dice: “Al Senato qualcuno ha riconosciuto che lo stato di diritto è ancora un valore: non è contemplato che qualcuno debba morire di stenti come misura punitiva”.E sì perché Formigoni ha sostenuto di essere alla frutta, ai domiciliari per via della condanna e senza il becco di un quattrino. “Avendo, infatti, dedicato l’intera esistenza alle istituzioni, le uniche fonti reddituali a disposizione della sua ‘terza età’ potevano consistere negli assegni vitalizi della Regione Lombardia e del Parlamento italiano” aveva scritto nel suo ricorso lamentandosi della spietatezza della Corte dei Conti che sorda a ogni suo richiamo gli ha pignorato l’assegno erogato dalla Regione negando che si tratti di una pensione. Ora Palazzo Madama gli ha riaperto invece i rubinetti ridandogli tutto intero il vitalizio di ex senatore che gli era comunque in parte stato già restituito due anni fa in via cautelare. Quando sempre Caliendo&C. gli avevano accordato un assegno di mantenimento riconoscendogli le tutele dell’articolo 38 della Costituzione in base al quale “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
E allora a chi altri potrebbe essere restituito il vitalizio riottenuto dopo tanto lottare dal condannato Formigoni? Al Senato, per via delle condanne è stato tolto ad alcuni pezzi da novanta come Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri o Vittorio Cecchi Gori (nella lista dei revocati ci sono anche Ferdinando Di Orio, Vincenzo Inzerillo, Giorgio Moschetti, Franco Righetti. Per chi è morto, come Giuseppe Ciarrapico, a questo punto potrebbero vantare delle pretese gli eredi). E alla Camera? Attendono “giustizia” l’ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, l’indimenticato Giancarlo Cito e un altro paio di ex deputati, Luigi Sidoti e Raffaele Mastrantuono: che da anni reclamano il malloppo e pure gli arretrati. Anche loro da ieri sperano. E forse hanno già messo in fresco lo champagne.
Caccia grossa a Speranza, l’ultimo rigorista di Conte
Il ministro assediato
Oggi il Quirinale ancora considera Speranza inamovibile, visto che siamo in piena pandemia. Ma ieri Peppe Provenzano, vicesegretario del Pd, fa notare in un’intervista all’Huffington Post: “Vogliono farne il capro espiatorio per non aver mantenuto la promessa irresponsabile di aprire tutto e subito, e magari togliersi le mascherine”. È la linea discussa ieri nella segreteria dem, anche se poi né il Pd né il M5s si spendono granché nella difesa pubblica di Speranza. Semmai Draghi “ora deve pretendere lealtà da Salvini”, dice ancora Provenzano. Ancora ieri il leader della Lega cavalcava le proteste di piazza, e alludendo al libro di Speranza (ritirato precipitosamente a ottobre ma uscito su Amazon France, come haraccontato ieri Il Foglio) lo definiva “arrogante” e “volgare”. Ma più Salvini attacca frontalmente Speranza, più Draghi deve blindarlo.
Le Agorà di Bettini: la sinistra si riprenda il “suo” popolo e guardi a Giuseppe Conte
Gli show “aperturisti”di Salvini per fermare la corsa di Meloni
Della moderazione meloniana si è avuto contezza sul Copasir, dove Giorgia avrebbe potuto dar fuoco alle polveri e invece si è molto trattenuta. Dopo qualche uscita da bullo di Salvini (“io mi occupo di vaccini e riaperture, non di poltrone”), ora sulla vicenda s’intravede la fine, anche grazie alla sponda del Quirinale: dimissioni di tutti i commissari ed elezione di un nuovo presidente, che sarà un deputato meloniano, ma non il senatore Adolfo Urso. “Azzeriamo tutto. Noi siamo pronti alle dimissioni”, ha detto ieri Salvini. E Meloni potrebbe starci, ché, così facendo, otterrebbe almeno tre commissari dei cinque che spetterebbero all’opposizione, tra cui il nuovo presidente.
Ma la guerriglia tra le due forze è a tutto campo. Nel mese di marzo, per esempio, a Savona il presidente del consiglio regionale, Renato Giusto, ha lasciato la Lega e ora è a un passo da FdI. In Abruzzo, Umberto D’Annuntiis ha lasciato FI per aderire a FdI. Segno che il derby sovranista si gioca pure sulle spalle dei berluscones.
Come in Lombardia, dove sempre più insistenti sono le voci di un passaggio dell’ex assessore azzurro Giulio Gallera al partito meloniano. Mentre al Pirellone i tre consiglieri di destra fanno quasi vita a sé, in una sorta di Aventino contro il governatore Attilio Fontana. “Non vengono nemmeno più alle riunioni di maggioranza”, si lamentano i forzisti. La Lega, intanto, incassa un’altra pedina importante, quella di Massimiliano Fedriga alla presidenza della Conferenza delle Regioni. In Parlamento, poi, altri nervosismi. Con i meloniani consapevoli della loro posizione di vantaggio. E i leghisti a dividersi. Nei giorni scorsi, per dire, mentre in Senato Alberto Bagnai proponeva nuovi farmaci anti-Covid, con tanto di medici al seguito, Giancarlo Giorgetti partecipava a un webinar con i ceo italiani di Pfizer, J&J e AstraZeneca. Nell’ultimo sondaggio di Swg per il tiggì di Mentana, la Lega cala al 22%, mentre FdI è al 17,3. Il Carroccio sente il fiato sul collo e questo complica anche la partita per i candidati amministrativi. Dove lo stallo è totale.
La storia sono loro: tv pubblica affare della famiglia Minoli?
Canale preferito – Il giornalista e la corsa al posto nel cda, la moglie e la casa di produzione, il genero e lo sponsor per la nomina a futuro Ad
L’eventuale ritorno in Rai avrebbe del clamoroso. Non certo per le qualità del professionista, una figura di assoluta eccellenza nella storia del servizio pubblico, ma per il macroscopico conflitto d’interessi che porterebbe in dote Minoli nel cda o alla presidenza. Non solo e non tanto per la questione multimilionaria dell’archivio (a quel punto sarebbe trattativa “Minoli-Minoli”), ma per i rapporti commerciali ancora più pesanti che legano la tv pubblica alla casa di produzione Lux Vide di Matilde e Luca Bernabei, moglie e cognato di Gianni. La società lavora assiduamente con la Rai, alla quale ha venduto, tra gli altri, prodotti come Don Matteo, Un passo dal cielo, I Medici, Che Dio ci aiuti, Sotto copertura, C’era una volta Studio Uno. Il gioiello di famiglia di recente è stato messo sul mercato, ma anche se dovesse essere venduto (tutto o in parte) in tempi brevi, i Bernabei dovrebbero conservare incarichi operativi.
Ma c’è un’altra notizia che rimbalza tra i corridoi di Viale Mazzini che potrebbe trasformare il settimo piano – quello nobile della dirigenza – in un’autentica dependance di casa Minoli. Il ministro della Cultura Dario Franceschini starebbe valutando di spingere come prossimo amministratore delegato della Rai il suo uomo di fiducia (e segretario generale al Mibact) Salvo Nastasi. Lo scrive sul sito Sassate.it – generalmente ben informato sui fatti della tv pubblica – l’ex direttore Comunicazione della Rai, Guido Paglia. Nastasi è sposato con Giulia Minoli, figlia di Gianni e Matilde Bernabei. Se si dovesse realizzare, anche in parte, la clamorosa triangolazione minoliana, per adesso frutto di suggestioni e (auto)candidature, ci sarebbe una concentrazione di potere spaventosa nella televisione nazionale.