Trojan, rischia di saltare l’espulsione di Palamara
Le intercettazioni – Sarà il gip a decidere se sono utilizzabili
di Antonio Massari | 24 APRILE 2021
Due procure – Napoli e Firenze – indagano in modo coordinato sulle modalità di intercettazione del trojan targato Rcs. Le indagini – a Firenze per esempio si ipotizza il reato di frode in pubbliche forniture – potrebbero portare a un dato banale o a un dato esplosivo. È troppo presto per comprenderlo, data la complessità della regolamentazione di uno strumento come il trojan, che necessità di “rimbalzi” tra più server per risultare anonimo e non consentire, al bersaglio da intercettare, di scoprire che la procura gli sta infettando il telefono. Quando Duilio Bianchi, direttore divisione Ip della Rcs, ha spiegato alla procura di Firenze “l’architettura” del sistema, ha fornito una versione diversa rispetto a quella data nel luglio scorso dinanzi al Csm. E dinanzi al Csm aveva spiegato il funzionamento del trojan all’interno delle vicende disciplinari legate al caso Palamara che riguardano il magistrato e parlamentare Cosimo Ferri: è stato proprio un trojan Rcs, infatti, a registrare le conversazioni tra Ferri, Palamara e Luca Lotti, la notte tra l’8 e il 9 maggio all’hotel Champagne di Roma, mentre discutevano del futuro apo della procura di Roma. Quel che si scopre oggi, nell’interrogatorio reso a Firenze, è la conferma di quanto scoperto dall’avvocato in sede disciplinare di Cosimo Ferri, Luigi Panella, che dopo aver disposto delle perizie tecniche ha fatto una scoperta: i dati del trojan, prima di giungere al server installato nella Procura di Roma, transitavano da un server installato nella procura di Napoli.
Un server del quale nessuno fino ad allora conosceva l’esistenza. Bianchi due giorni fa, dinanzi alla procura di Firenze – che, su richiesta del procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, ha inviato il verbale di interrogatorio e altri atti alla procura umbra – ha confermato l’esistenza di questo server “fantasma”. Ora il dubbio è che sia stato violata una norma di procedura penale – la procura di Perugia aveva autorizzato le attività soltanto sul server romano – e il gup dovrà stabilire se le intercettazioni captate con il trojan siano ancora utilizzabili. Se non bastasse, Bianchi ha rivela che questa architettura quindi l’esistenza del server napoletano) ha funzionato non solo per Perugia ma per tutte le procure italiane alle quali Rcs ha fornito la sua tecnologia. E lo scenario diventa surreale: la conversazione intercettata dal trojan al’hotel Champagne finì per travolgere la nomina del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, che assolutamente ignaro di quelle manovre, aveva ottenuto la maggioranza nella commissione del Csm e sembrava pronto per l’investitura del Plenum. Quelle conversazioni portarono alla defenestrazione di Palamara dalla magistratura e a un terremoto giudiziario. La scoperta della perizia dell’avvocato Panella – ora certificata da Bianchi e dalla Procura di Firenze – in teoria può produrre effetti devastanti. Da un lato la Procura perugina è orientata a considerare quello di Napoli un semplice “impianto”, non suscettibile di alcuna autorizzazione, e a difendere l’utilizzabilità delle intercettazioni. Dall’altro la difesa di Palamara contrattacca: “Bianchi ha corretto il tiro rispetto a quanto aveva dichiarato al Csm, una testimonianza centrale per la radiazione del nostro assistito. C’è anche la ‘famosa’ cena all’hotel Champagne e quindi se le intercettazioni dovessero essere dichiarate inutilizzabili si rimetterebbe in gioco tutta la vicenda. Ora vogliamo capire se ci sono state manipolazioni delle intercettazioni con il trojan”, ha commentato ieri l’avvocato Benedetto Buratti, legale di Palamara.
La Procura di Perugia ha chiesto al gup di sentire Bianchi nella prossima udienza del 3 maggio. C’è un ulteriore dettaglio che emerge dall’interrogatorio di Bianchi e riguarda proprio la fase in cui dati transitano dai server di Napoli: “In tale fase, ai dati che non erano criptati, potevano aver eventualmente accesso in remoto solo gli amministratori di sistema di Rcs spa dalla sede di Milano”. Il tutto, però, in un fase che, fino all’altro ieri, lo stesso Bianchi aveva negato che esistesse. “Per quale motivo – chiedono i pm fiorentini a Bianchi – in sede di autorizzazione al Csm non ha riferito in ordine all’architettura CSS ed Hdm (i due server napoletani, ndr)?”. Ecco la risposta di Bianchi: “Il 28 luglio 2020 ho fornito al procuratore di Perugia, nella persona del dottor Formisano, una nota di chiarimento in cui vi è descritta l’architettura del sistema. Durante l’audizione al Csm mi sono riportato sostanzialmente alle informazioni contenute in tale nota. Soltanto successivamente, avendo ricevuto una convocazione davanti al Csm nel procedimento nei confronti di Cosimo Ferri, ho ascoltato la registrazione su Radio Radicale dell’intervento della difesa che esponeva di aver individuato un Ip di Napoli come destinatario della trasmissione di dati da parte del trojan (…). Mi sono reso conto allora dell’errore che avevo fatto nella descrizione dell’architettura indirizzata a Perugia ed esposta nell’audizione al Csm”.
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Ecco le riforme: addio Quota 100, soldi alle imprese, meno controlli
E Draghi fu – Nelle bozze la vera differenza rispetto al passato sono le leggi chieste dalla Ue: nuova Pa, liberalizzazioni, giustizia
di Salvatore Cannavò | 24 APRILE 2021
Le riforme di Draghi sono arrivate, finalmente mostrate nel Piano nazionale di ricostruzione e resilienza distribuito a ministri e partiti e che oggi sarà discusso in Consiglio dei ministri. Riforme in larga parte richieste dall’Unione europea tramite le “Raccomandazioni specifiche”, nitidamente riportate (e che, en passant, obbligano il governo a riconoscere la positività di quanto fatto dal governo Conte, ad esempio il “cashless”.)
Si possono sintetizzare in due assi: modernizzazione (Pubblica amministrazione e Giustizia) e mano libera alle imprese (concorrenza, appalti, semplificazioni varie).
Dal punto di vista dei progetti non ci sono differenze rilevanti, mentre è proprio nell’elencazione delle riforme che il documento di 319 pagine è importante. Accanto a quelle più rilevanti – se ne individuano di tre tipi: orizzontali, abilitanti e settoriali – ce ne sono alcune più limitate ma significative come la laurea che abilita direttamente all’esame di Stato, ma anche l’abolizione di “quota 100” sulle pensioni sostituita da un intervento sulle “mansioni usuranti”.
Il documento spiega anche la governance, anzi la spiega a metà. Attuazione in carico alle amministrazioni che potranno assumere un bel po’ di personale in deroga e a tempo determinato; monitoraggio e controllo in capo al Mef; e poi una imprecisata “cabina di regia” a Palazzo Chigi che però non viene dettagliata e su cui si appuntano le speranze e i malumori dei partiti di governo.
Sull’impatto economico, si prevede un aumento del Pil al 2026, del 3,6% ma solo nello “scenario alto” mentre si prevede anche uno scenario “medio”, al 2,7 e uno “basso” a 1,8%.
La distribuzione percentuale delle risorse beneficia soprattutto gli investimenti, un po’ meno i consumi privati e molto le importazioni, ma tra incentivi e defiscalizzazioni, il 20% finirà alle imprese – al netto della quota investimenti – e un 5% alle famiglie.
Le due riforme più importanti sono quella della Pubblica amministrazione e quella della Giustizia. Soprattutto la prima, il cui impatto sul Pil è stimato al 2026 nell’ordine del 2,2%, mentre quello della Giustizia allo 0,5%. Qui si tratta di capire se “accesso, digitalizzazione, competenza e buona amministrazione” produrranno una burocrazia di standard mediamente europeo. Di sicuro al momento ci sono le assunzioni: fuori dai concorsi sono previste tre modalità, per l’emergenza Recovery e quindi con contratti a tempo determinato. Addirittura il ministero di Renato Brunetta punta ad assumere “1000 esperti” per garantire il funzionamento del piano e a tutte le amministrazioni periferiche è lasciata la libertà di creare task force come se piovesse. Si provvederà in parte con un decreto legge previsto entro maggio.
La giustizia si muove nel solco delineato dall’ex ministro Bonafede. L’obiettivo è velocizzare i processi addirittura con una “selezione” per i ricorsi in appello sia nel procedimento civile che in quello penale. Ulteriori assunzioni rispetto alle 13.000 previste dal governo Conte, riorganizzazione degli uffici, responsabilizzazione dei capiufficio. Nel processo civile si punta ai riti alternativi (Alternative Dispute Resolution). Si colloca qui l’ipotesi di velocizzare gli accessi in magistratura. La riforma si farà con legge delega e il suo impatto è previsto entrare in vigore nel 2024.
Sugli appalti e semplificazioni si procederà per decreto legge. Nel primo caso è prevista l’abolizione del controllo della Corte dei Conti – visto che esiste già il controllo Ue – e la riduzione della responsabilità “per danno erariale”. Le semplificazioni saranno il cuore del Pnrr, infatti è previsto un “ufficio” speciale a Palazzo Chigi – e prevedono anche una “speciale Via statale”, la valutazione di impatto ambientale.
La “concorrenza” prevede l’approvazione, entro il 15 luglio 2021, del disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza, ma nel piano è compresa anche la riforma del fisco basata sulla revisione dell’Irpef, sulla riduzione della pressione fiscale conservando la progressività, la riforma degli ammortizzatori sociali e l’istituzione di un salario minimo legale.
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Bongiorno Italia
di Marco Travaglio | 24 APRILE 2021
Per dire come funziona quella che spiritosamente chiamiamo “informazione”. Il Tempo riporta una dichiarazione di Salvini dopo il video di Grillo sulle accuse al figlio: “Qualcosina su come siano andate le cose mi ha detto il mio avvocato, dato che è lo stesso della ragazza che ha denunciato lo stupro, ovvero Giulia Bongiorno”. Né Salvini né Bongiorno smentiscono. Anna Macina, sottosegretario M5S alla Giustizia, pone la domanda che tutti si pongono: la Bongiorno, nella sua doppia veste di legale della ragazza e di Salvini, nonché di avvocata e di senatrice, ha spifferato notizie sul caso di Grillo jr. al suo cliente e leader che l’ha portata in Parlamento? Se così fosse, un conflitto d’interessi già enorme (un’eletta per rappresentare l’intera nazione che rappresenta tizio o caio) si moltiplicherebbe vieppiù, senza contare la questione deontologica degli eventuali segreti di una cliente rivelati a un altro cliente. In un Paese normale, tutti chiederebbero a Salvini e Bongiorno di chiarire l’imbarazzante situazione. Invece siamo in Italia e tutti attaccano la Macina, che si dovrebbe dimettere dal governo per aver detto l’unica cosa sensata in tutta la vicenda. Salvini tace. La Bongiorno chiede le dimissioni della Macina e minaccia di trascinare anche lei in tribunale per non si sa bene cosa, visto che la sua domanda è tipica dell’attività parlamentare, scriminata dall’insindacabilità. A quel punto, toma toma cacchia cacchia, arriva l’ineffabile ministra Cartabia, che ammonisce la sottosegretaria al dovere “istituzionale del massimo riserbo sulle vicende giudiziarie aperte”. Peccato che la Macina non abbia detto nulla sul processo a Grillo jr.: è il senatore Salvini che ha detto di sapere ciò che non dovrebbe grazie alla Bongiorno che non l’ha smentito. Intanto l’altro sottosegretario alla Giustizia, il forzista Sisto, deputato e avvocato di B. nel processo Escort, dichiara che il rinvio a giudizio di Salvini per Open Arms non sta in piedi perché “è impossibile pensare che abbia commesso tutto da solo”. Tifo da stadio per il neoimputato anche dai ministri Gelmini e Garavaglia e dai sottosegretari Durigon e Gava. Ma per loro non risultano moniti della Cartabia.
Riavvolgiamo il nastro. Se Salvini ha detto la verità, la Bongiorno ha tradito il mandato legale, dunque dovrebbe dimettersi, se non da parlamentare, almeno da avvocata della ragazza, e querelare per diffamazione non la Macina, ma se stessa. Se Salvini ha mentito, dovrebbe dimettersi lui e la Bongiorno dovrebbe querelare lui, non la Macina. In attesa di sapere chi se ne deve andare e fra Salvini e la Bongiorno, gli unici che devono dare spiegazioni sono Salvini e la Bongiorno. E l’unica che deve restare al suo posto senza spiegare nulla è la Macina.
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Stop al vitalizio ai condannati: Senato contro Formigoni&C.
Sentenza Caliendo: il ricorso di Palazzo Madama
di Ilaria Proietti | 24 APRILE 2021
Ha sfondato quota 100mila firme l’appello con cui il Fatto ha chiesto ai massimi vertici del Senato di rimediare alla decisione di ridare i vitalizi ai condannati portando la questione di fronte alla Corte costituzionale. Sì, perché a Palazzo Madama dieci giorni fa l’organo di giustizia interna presieduto da Giacomo Caliendo di Forza Italia ha cancellato le regole che il massimo organo politico dello stesso Senato si era dato nel 2015 quando aveva deciso di chiudere i rubinetti agli ex inquilini che si fossero macchiati di reati gravissimi, dalla mafia al terrorismo passando per la corruzione. In una sorte di autogolpe, che ha favorito non solo Roberto Formigoni che aveva fatto ricorso per riavere l’assegno, ma pure tutti gli altri, da Berlusconi a Dell’Utri passando per Del Turco a cui era finora rimasto negato per via del casellario giudiziale non esattamente puro come un giglio. Un conflitto tra poteri tutto interno a Palazzo consumato sulla questione dell’argent. Che conta eccome. E ieri Formigoni ha attaccato il Fatto: “Nessun altro esponente di partito si è espresso, riconoscendo la giustezza della Commissione contenziosa. È stato solo il M5S, agitato dal proprio house organ, che è il Fatto Quotidiano, alimentato dagli odiatori, ma ho pietà per loro”.
Non è una pensione
Così, mentre si riflette sul ricorso alla Consulta, il segretario generale del Senato, Elisabetta Serafin, che guida l’amministrazione di Palazzo Madama, ha impugnato in appello la sentenza di Caliendo&C. Con un ricorso che smonta in radice il presupposto che ha consentito di riaprire i rubinetti a Roberto Formigoni e ad altri 12 condannati (o loro eredi) baciati, diciamo così dalla fortuna. Perché, checché ne dica la Contenziosa, il vitalizio non è affatto una pensione pure se lo si vuol far a tutti i costi credere. “L’affermazione della natura previdenziale dell’assegno degli ex parlamentari che sarebbe contenuta nelle ordinanze delle Sezioni unite del 2019 (ossia la novità giurisprudenziale invocata a sostegno della tesi sostenuta dalla Contenziosa, ndr) non si evince dalla portata delle ordinanze stesse” ha scritto infatti il segretario generale sottolineando come le ordinanze in questione si limitino ad affermare “che il cosiddetto vitalizio rappresenta la proiezione economica dell’indennità parlamentare per la parentesi di vita successiva allo svolgimento del mandato. Ma sulla natura previdenziale non viene specificato nulla di più”.
E non è tutto. Perché nel ricorso il segretario generale evidenzia pure che, per ridare il vitalizio a Formigoni, l’organo di giustizia interna del Senato abbia addirittura smentito se stesso. In altre pronunce precedenti aveva infatti confermato la sospensione del vitalizio ai condannati sulla base della delibera che nel 2015 ha introdotto un nuovo presupposto di onorabilità per poterne godere: ossia le condizioni di dignità e onore che l’articolo 54 della Costituzione prevede per coloro che rivestono cariche pubbliche. Ma allora perché la commissione Caliendo oggi afferma il contrario brutalizzando con l’onta dell’illegittimità la stessa delibera?
La carta: Dignità e onore
E sì che, come ricorda anche nel ricorso la Serafin, prima di decidere lo stop degli assegni ai condannati, era stata fatta una istruttoria approfondita con la richiesta di pareri a costituzionalisti ma anche al Consiglio di Stato che aveva dato semaforo verde. Anche perché il provvedimento che stabilisce la sospensione dell’assegno al venir meno delle condizioni di dignità e onore, era stato modellato sulla legge Severino (che ha stabilito che le condanne di un certo tipo facciano venir meno il requisito soggettivo per il mantenimento delle cariche pubbliche) ritenuta perfettamente legittima dalla Corte costituzionale.
Ora grazie a Caliendo&C. si vorrebbe tornare all’antico, ma non senza conseguenze.
Perché quella decisione adottata peraltro non per il solo Formigoni ma erga omnes, espone il Senato non solo alle critiche e allo sdegno, ma pure “alla restituzione di rilevanti importi verso i dodici senatori nei confronti dei quali è cessata da anni l’erogazione del trattamento”. Con l’ulteriore complicazione che se in Appello la sentenza venisse ribaltata, l’amministrazione dovrebbe recuperare le somme provvisoriamente ripristinate. Per questo il segretario generale oltre a fare appello ha chiesto che la sentenza, immediatamente messa in esecuzione da Sua Presidenza Casellati, venga sospesa in attesa della definizione del giudizio di secondo grado.
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Sanità lombarda: l’ex presidente deve dare 47mln
Caso Maugeri – Confermato in appello il pagamento dei danni
di Gianni Barbacetto | 24 APRILE 2021
Scherzi del destino: proprio mentre arriva in libreria un libro di 500 pagine in cui Roberto Formigoni tenta di riabilitare se stesso (Una storia popolare, con tanto di prefazione del cardinale Camillo Ruini), arriva anche la sentenza d’appello della Corte dei conti che, il 21 aprile, smonta ogni pretesa innocentista e rigetta il ricorso di Formigoni, confermandogli la condanna a pagare 47,5 milioni come risarcimento del danno, in solido con presidente e direttore della Fondazione Maugeri, Umberto Maugeri e Costantino Passerino, e con i mediatori Pierangelo Daccò e Antonio Simone. Follow the money, segui il denaro: e i giudici contabili lo seguono con una precisione che diventa per Formigoni una disfatta. L’allora presidente della Regione Lombardia – scrivono i giudici – ha stretto un patto (c’è anche la data, indicata da Maugeri e Passerino: 6 settembre 2001) per organizzare un “sistema corrotto e corruttivo” in cui le cosiddette funzioni non tariffabili, sommamente discrezionali, venivano superpagate dalla Regione. Così il denaro pubblico veniva “distratto in maniera illecita”, “sottratto alla sua destinazione per l’espletamento di funzioni sanitarie d’interesse pubblico” e dirottato per “formare oggetto di illecite dazioni a favore del presidente Formigoni e degli intermediari, nonché suoi amici personali, Daccò e Simone”. Il “contenuto delle delibere regionali è stato, con l’intermediazione del faccendiere Daccò, per così dire tagliato su misura delle esigenze economiche della Fondazione Maugeri”. “L’obiettivo perseguito e raggiunto era quello di ottenere, a parità di prestazioni, una maggiore remunerazione, accettando ovviamente di pagare un (sovra)prezzo: quello della corruzione”. I pagamenti alla Maugeri erano decisi personalmente da Formigoni: il suo è un “ruolo assolutamente centrale, vero e proprio deus ex machina, svolto in virtù del ruolo istituzionale e dell’indubbio carisma personale del presidente”, con un “sostanziale svuotamento del ruolo della dirigenza e dello stesso assessore alla sanità, estraneo al cerchio magico di Formigoni”. “Oggetto del patto corruttivo è stato il mercimonio della funzione del presidente, non la delibera finale adottata dall’organo collegiale”.
Così i soldi regionali entravano nelle casse della Maugeri, da cui sono poi usciti 71 milioni, “di cui 61.485.583 euro destinati a finanziare la corruzione degli amministratori regionali e degli intermediari”: Formigoni, Daccò e Simone. Nel periodo 2006-2011 “il prezzo della corruzione del presidente è stato conseguentemente quantificato in euro 37.312.209,00”.
Respinti i tentativi di Formigoni di conquistare la prescrizione contabile, sostenendo che debba essere calcolata a partire dalle delibere con cui la giunta ha finanziato le operazioni non tariffabili (2007-2010) e non dal suo rinvio a giudizio (2014). Niente da fare: si conta dal 2014. Provata “la distrazione delle risorse dal fine pubblico al quale erano destinate”. Accolto, in parte, solo il ricorso di Simone, a cui è revocato il sequestro conservativo: è sì il mediatore della corruzione, ha indicato lui alla Maugeri Daccò come strada per arrivare a Formigoni, ha messo a disposizione i conti all’estero per far sparire i soldi della Fondazione, ma non è “agente contabile di fatto”, perché “non ha disposto materialmente del denaro pubblico”.
Bruxelles prova a regolamentare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale
GIOVEDÌ, APRILE 22, 2021
L’Unione europea punta a diventare un polo mondiale per l’intelligenza artificiale, nel rispetto dei diritti umani e della rule of law e seguendo un approccio flessibile, basato sul rischio. In questa direzione, la Commissione europea ha presentato, il 21 aprile, una proposta di regolamento per stabilire regole armonizzate in questo campo (COM(2021)206, Proposal), accompagnata da un Nuovo Piano Coordinato sull’intelligenza artificiale, che segue quello del 2018 (NewCoordinatedPlanonArtificialIntelligencepdf). La Commissione vuole aprire la strada a una tecnologia etica e a misura dei diritti dell’uomo in tutto il mondo e fornire un modello per l’adozione di nuove norme universali. Se, da un lato, l’intelligenza artificiale è in grado di fornire un enorme potenziale in diversi settori come sanità, giustizia, trasporti, energia, agricoltura, turismo, giustizia, cybersecurity, dall’altro lato, la tecnologia più avanzata può mettere a rischio alcuni diritti umani. Così, per la Commissione dovranno essere vietati sistemi o applicazioni che manipolano il comportamento umano, che sfruttano situazioni di vulnerabilità o che consentono alle autorità nazionali di attribuire un punteggio sociale, con una situazione svantaggiosa per determinati gruppi.
Bruxelles vuole un approccio flessibile, basato sul rischio: alcuni sistemi sono classificati tra quelli a rischio inaccettabile che impongono, in via generale, un divieto di impiego come quelli che comportano l’identificazione biometrica a distanza (articolo 5); seguono quelli a rischio alto, che comportano l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in infrastrutture critiche (come i trasporti); nell’istruzione e nella formazione professionale; in componenti di sicurezza dei prodotti; nell’occupazione e nella gestione dei lavoratori e nell’accesso al lavoro autonomo; nei servizi pubblici e privati essenziali; nell’attività di contrasto; nella gestione della migrazione, dell’asilo e del controllo delle frontiere; nell’amministrazione della giustizia e nei processi democratici. In ultimo ci sono i sistemi a rischio limitato e a rischio minimo. La proposta di regolamento mette al bando sistemi di sorveglianza generalizzata, ma prevede deroghe per la lotta al terrorismo e per ragioni di sicurezza pubblica. Escluso dall’ambito di applicazione del regolamento l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per fini militari.
Dipartimento di Giustizia
Ufficio del procuratore degli Stati Uniti
Distretto orientale della Pennsylvania
PER IL RILASCIO IMMEDIATO
Martedì 13 aprile 2021
Membro dell’equipaggio di MSC Gayane condannato a più di 5 anni per cospirazione per contrabbandare $ 1 miliardo di cocaina negli Stati Uniti
PHILADELPHIA – Il procuratore in carica degli Stati Uniti Jennifer Arbittier Williams ha annunciato oggi che Vladimir Penda, 27 anni, del Montenegro, è stato condannato a cinque anni e dieci mesi di prigione e due anni di rilascio controllato dal giudice del tribunale distrettuale degli Stati Uniti Harvey Bartle III, con l’accusa di cospirazione per possesso con l’intento di distribuire 5 chilogrammi o più di cocaina su una nave soggetta alla giurisdizione degli Stati Uniti.
Per la prima metà del 2019 fino alla metà di giugno dello stesso anno, Penda, un membro dell’equipaggio che ha lavorato a bordo della nave da trasporto MSC Gayane come quarto ingegnere della nave, ha cospirato con altri per impegnarsi in un piano di contrabbando di cocaina sfusa. In più occasioni durante il viaggio della MSC Gayane e in mare, i membri dell’equipaggio, tra cui Penda, hanno aiutato a caricare grandi pacchetti di cocaina sulla nave da motoscafi che si avvicinavano alla nave nel cuore della notte sotto la copertura dell’oscurità. I membri dell’equipaggio hanno utilizzato la gru della nave per sollevare le reti da carico piene di cocaina sulla nave e poi hanno nascosto la cocaina nei container della nave. I membri dell’equipaggio hanno piegato le ringhiere della nave e hanno tirato indietro le porte dei container in modo da poter inserire le enormi quantità di cocaina nei container. Dopo aver nascosto le droghe tra i carichi legittimi,
Il 17 giugno 2019, agenti delle forze dell’ordine federali, statali e locali sono saliti a bordo della MSC Gayane quando è arrivata al Packer Marine Terminal di Filadelfia e hanno sequestrato circa 20 tonnellate di cocaina per un valore di oltre $ 1 miliardo di dollari USA dai suoi container in uno dei più grandi sequestri di droga nella storia degli Stati Uniti.
Altri sette membri dell’equipaggio della MSC Gayane coinvolti in questo programma di contrabbando sono stati arrestati e si sono dichiarati colpevoli di cospirazione per possesso con l’intento di distribuire cocaina in base alla loro partecipazione al programma. Questi membri dell’equipaggio includono Bosko Markovic, 39 anni, del Montenegro, l’ufficiale capo della nave; Ivan Durasevic, 31 anni, del Montenegro, il secondo ufficiale; Nenad Ilic, 41 anni, del Montenegro, l’ingegnere cadetto; Aleksandar Kavaja, 27 anni, del Montenegro, l’elettricista; Stefan Bojevic, 29 anni, della Serbia, assistente di Reeferman; Fonofaavae Tiasaga, 29 anni, di Samoa, abile marinaio; e Laauli Pulu, 34 anni, di Samoa, un normale marinaio.
“Sono passati quasi due anni da quando gli agenti federali hanno condotto uno dei più grandi sequestri di droga nella storia degli Stati Uniti”, ha affermato il procuratore USA Williams. “L’indagine successiva ha scoperto una condotta clandestina nel buio del traffico di droga che sembra la trama di un film, e da allora i pubblici ministeri del nostro ufficio hanno lavorato senza sosta per perseguire la giustizia in questo caso. Con la sentenza pronunciata oggi dal signor Penda, questo capitolo della saga di MSC Gayane sta volgendo al termine “.
“Facciamo in modo che la sentenza odierna serva a ricordare che 2 anni fa, a giugno, il signor Penda ei suoi cospiratori hanno tentato di contrabbandare quasi 20 tonnellate di cocaina, con un valore di strada stimato di 1 miliardo di dollari attraverso il porto di Filadelfia. Questo invia un messaggio chiaro ai criminali di tutto il mondo che la nostra infrastruttura critica non è un porto sicuro per il traffico di droga “, ha affermato Brian A. Michael, agente speciale responsabile per le indagini sulla sicurezza interna a Philadelphia. “La protezione della patria contro la criminalità transnazionale è una priorità assoluta delle indagini sulla sicurezza interna e, insieme ai nostri partner delle forze dell’ordine federali, statali e locali, ci impegniamo a rilevare e interrompere il traffico di droga transnazionale”.
“I numerosi procedimenti giudiziari di successo a seguito del sequestro record di cocaina da parte del CBP del giugno 2019 dovrebbero servire a ricordare a coloro che desiderano aiutare le organizzazioni del traffico di droga che il contrabbando di stupefacenti ha conseguenze molto gravi”, ha affermato Keith Fleming, direttore ad interim delle operazioni sul campo per il Baltimore Field della CBP. Ufficio. “Customs and Border Protection ei nostri partner delle forze dell’ordine rimangono fermi nel nostro impegno di intercettare le spedizioni di droghe pericolose prima che possano essere contrabbandate attraverso i confini della nostra nazione”.
Il caso è indagato da Homeland Security Investigations e dalla United States Customs and Border Protection, insieme a un team multi-agenzia di partner federali, statali e locali.