C’è una “coincidenza”, definita dalla Procura di Verbania “significativa e singolare”. Dopo gli arresti per la strage di Stresa, c’è un’altra funivia ad aver chiuso frettolosamente: l’impianto Nostra Signora di Montallegro, in provincia di Genova. Il Comune di Rapallo, un paio di giorni fa, si è affrettato a comunicare che si tratta di una “manutenzione ordinaria già programmata”. Una versione che non convince gli investigatori che stanno indagando sulle cause del disastro che domenica scorsa ha provocato la morte di 14 persone, fra cui due bambini.La struttura chiusa in Liguria, notano i magistrati, ha lo stesso direttore d’esercizio appena finito in carcere: Enrico Perocchio, 51, “dipendente della Leitner”, società di Vipiteno che aveva ristrutturato fra il 2014 e il 2016 l’impianto del monte Mottarone, e che ne curava la manutenzione. Inoltre la funivia Nostra Signora di Montallegro non viene interrotta in un momento qualsiasi, ma proprio “a seguito dell’arresto di Perocchio”. I sospetti si accompagnano a un nuovo scenario, emerso nelle ultime ore: le prime falsificazioni dei documenti emerse nell’impianto del Mottarone, attribuite al capo del servizio Gabriele Tadini, a cui, scrivono i pm, “potrebbero aggiungersene altre”.
i primi interrogatori vanno in scena già domenica 23 maggio, a poche ore dalla strage. I carabinieri della compagnia di Verbania, guidati dal capitano Luca Geminale, convocano in caserma i dipendenti della società di gestione Ferrovie del Mottarone srl: Emanuele Rossi, Stefania Bazzarro, Ahmed El Kattabi, Pietro Tarizzo, Fabrizio Coppi. Tutti confermano una pratica “assolutamente vietata”, quando “si trasportano passeggeri”, “perché inibisce l’innesco del sistema d’emergenza”: l’utilizzo dei cosiddetti “forchettoni”, staffe di metallo che, inserite, bloccavano i freni d’emergenza. Non è un dettaglio. I freni sono un dispositivo “essenziale” e “obbligatorio”, perché, in caso di rottura del cavo traente (caso rarissimo, che però è esattamente ciò che si è verificato domenica scorsa) possono salvare le vite di chi è a bordo, agganciando la cabina alla seconda fune, detto portante. Proprio per evitare che qualcuno li dimentichi, erano stati colorati di rosso.
La svolta arriva martedì, quando i pm convocano il capo degli operai, Gabriele Tadini, veterano della funivia, da 38 anni fidato braccio destro del proprietario della concessionaria, Luigi Nerini: è Tadini a inserire i forchettoni, per sua stessa ammissione (i dettagli della sua deposizione nell’articolo a fianco). Una decisione che, però, per chi indaga “viene condivisa e avallata” dai suoi superiori, “Nerini e Perocchio”, si legge nella richiesta di misure cautelari di undici pagine depositata ieri dal procuratore Olimpia Bossi e dal sostituto Laura Carrera. È “irrealistico”, proseguono i magistrati, che non ne fossero informati. I malfunzionamenti andavano avanti da un mese, e “la necessità di non interrompere il funzionamento dell’impianto” sarebbe legata alle “ripercussioni di carattere economico”. La Procura chiede il carcere per tutti e tre, esigenze cautelari motivate dalla “reiterazione del reato”, dal “pericolo di fuga” e da possibile “inquinamento probatorio”.
Sia Nerini che Perocchio (assistiti dagli avvocati Marcello Perillo e Andrea Da Prato) negano le contestazioni. Riguardo alla chiusura di Rapallo, Perocchio precisa, documenti alla mano, come fosse già prevista il 26 aprile. L’ingegnere aveva già sollecitato il Comune di Rapallo a provvedere. Ma forse la chiusura dopo gli arresti è una coincidenza su cui chiedere un chiarimento proprio all’amministrazione comunale.
“Fortuna”, quando i bambini vengono traditi dagli adulti
Fortuna. Nicolangelo Gelormini
di
Federico Pontiggia | 29 MAGGIO 2021
Una bambina (Cristina Magnotti) con due nomi, Nancy e Fortuna, una madre e una psicologa (alternativamente interpretate da Valeria Golino e Pina Turco), e una vita difficile. Non a dettare, bensì a ispirare è una tragedia: la morte di Fortuna Loffredo, bambina di sei anni gettata dall’ottavo piano di un palazzo al Parco Verde di Caivano, Napoli, nel 2014. È Fortuna, opera prima di Nicolangelo Gelormini, già assistente di Paolo Sorrentino, che prende la strada più stretta: sottrarre il fatto di cronaca nera al genere d’elezione, il (Neo)realismo, e sublimare nel pudore fantastico.
Alle nostre latitudini non è solo un rischio, ma un azzardo: buona parte della critica italiana ritiene che al sordido, al criminale, all’aberrante si confacciano unicamente la poetica e lo stile informati nel Dopoguerra cinematografico, rielaborati dall’impegno anni Settanta e più recentemente corroborati da Gomorra ed epigoni. Nondimeno, la trasfigurazione non ha evitato le polemiche: il padre di Fortuna, Pietro Loffredo, ha sporto denuncia e chiesto il blocco del film, istanza rigettata dal tribunale di Napoli giacché l’opera non implica danno o dolo ai familiari, ovvero non lede il diritto alla privacy e all’oblio. Del resto, l’intento di Gelormini è dichiaratamente altro dal film-inchiesta. Il regista prende l’inquadratura dallo statuto più ambiguo, se non infido, la semi-soggettiva e ci fa un lungometraggio intero: se il piccolo schermo è uso al Chi l’ha visto?, questo grande, e non solo per formato, si vota al “Come l’ha visto?”, con una terza persona che non è esclusivo appannaggio della protagonista ma di tutti noi. Anziché rassicurare, Gelormini, che scrive con Massimiliano Virgilio, eleva il non riconoscimento – nominale: Nancy/Fortuna; facciale: la madre Rita e la psicologa Gina che si scambiano Golino e Turco – a valore ideologico, traslando il senso di non appartenenza di Fortuna nella sensazione di spaesamento dello spettatore. Fosse soggettiva tout court l’esperienza della piccola vittima sarebbe derubricabile ad alterazione psicofisica, viceversa, la semisoggettiva ci richiama all’assunzione di responsabilità: spogliata dell’infanzia, dell’amore materno, della solidarietà umana, Fortuna pensa di essere una principessa in attesa di tornare sul suo pianeta nello spazio, e noi, chi pensiamo di essere? Il film delega molto allo spettatore, gli chiede di abitare il fuoricampo e di tradurre la sottrazione spettacolare in posizione morale: non è facile, questa trasformazione del fatto di cronaca in epifania cinematografica (ed etica), ma è preziosa. Con Anna e Nicola, gli amici del cuore con cui condivide le giornate di giochi nel palazzone, Fortuna dice di quel che avrebbe potuto essere il suo essere bambina, e di quel che non è stato: il miracolo dell’osceno di Gelormini non elude le colpevolezze, ma alla fedina penale preferisce la fede nel potere immaginifico – e salvifico – del cinema. Non perdetelo.