Il vitalizio torna reversibile: in Campania vince la Casta
Oplà, si riallargano i cordoni della borsa: in Campania torneranno a prendere il vitalizio anche vedove e vedovi degli ex consiglieri. Lo ha deciso l’altro giorno il consiglio regionale, che si è rimangiato quanto disposto solo due anni fa, quando in nome dell’austerity era stata negata la possibilità ai superstiti degli eletti a partire dal 2015 di godersi l’assegno. Solo 8 i voti contrari: Francesco Borrelli dei Verdi e i Cinquestelle che in commissione però erano stati favorevoli insieme a tutti gli altri gruppi per ripristinare il vecchio regime: un fronte vasto che va dal Pd a Forza Italia passando per i leghisti. “Con lo stop alla reversibilità (e con l’obbligo per i beneficiari degli assegni di versarsi una parte dei contributi per godere dell’assegno), la Campania si era posta all’avanguardia rispetto alle altre regioni. Invece adesso abbiamo fatto un enorme e ingiustificato passo indietro. E senza nemmeno guardare alle condizioni economiche di questi beneficiari: io avevo proposto almeno di basarsi sull’Isee e invece niente. Ma non mollo”, spiega Borrelli, che però non si fa grandi illusioni.Già in passato aveva perso altre battaglie: come quella per mettere mano ai vitalizi diretti o in reversibilità maturati prima del 2015 che non sono mai stati toccati e che restano a carico della regione. O quella per impedire il cumulo degli assegni per chi sia stato consigliere regionale e anche deputato o europarlamentare. “Nel 2017 ho fatto approvare una norma che consente di rinunciare al cumulo: inutile dire che nessuno vi ha rinunciato, neppure chi aveva giurato di farlo”. Insomma un pacco a favore di telecamera. E qualcuno ancora deride Borrelli per aver creduto che qualcuno si sarebbe fatto sotto con un beau geste.
Ora, reintrodotto pure il vitalizio in reversibilità, figurarsi toccare il resto, mai messo in discussione. Gli ex consiglieri regionali percepiscono, chi più chi meno, vitalizi assai consistenti maturati prima del 2015 per i quali non hanno sborsato mai un centesimo. E che in alcuni casi sommano a quelli erogati per gli anni che hanno seduto alla Camera, al Senato o al Parlamento europeo: come l’ex ministro del Lavoro che sogna di riconquistare la fascia tricolore di sindaco di Napoli Antonio Bassolino, che solo dalla Campania di cui è stato presidentissimo intasca 84 mila euro all’anno, che somma a un assegno mensile che supera i 3 mila euro da Montecitorio. Non è il solo: cumulano anche gli ex consiglieri regionali Marcello Taglialatela (An), Cosimo Izzo (Forza Italia) e Domenico Zinzi (Udc) che hanno fatto un giro o due pure sugli scranni a Montecitorio o Palazzo Madama. Anche se il record spetta ad Antonio Mazzone (Msi), Ortenzio Zecchino (Dc) e Giovanni Russo Spena (Rifondazione comunista), già inquilini della regione, del Parlamento italiano e di quello europeo. Risultato? Meglio del triplete: cumulano, cumulano e cumulano.
Tutti ex che a quanto pare non hanno rinunciato al becco di un quattrino nonostante la legge regionale che consentirebbe loro di far professione di generosità, ossia di dirottare i loro vitalizi eccedentari per una buona causa: sostenere la sanità campana. “Macché – dice Borrelli – dal 2017, da quando è prevista questa possibilità, non si è visto un centesimo”. E le vedove? Pure loro ci danno dentro: quella dell’ex banchiere Antonio Girfatti, tra i fondatori campani di Forza Italia, continua a percepire 20 mila euro annui dalla regione. E da qualche giorno è tornata a prendere pure l’assegno dal Senato, nonostante i rovesci giudiziari del de cuius che avevano portato Palazzo Madama a sospendergli il vitalizio nel 2015. Oggi ripristinato per tutti i condannati e pure per gli eredi in regime di reversibilità.
Svolta in Vaticano: la pedofilia è reato grave. “Delitto contro la persona e la sua dignità”
Pedofilia e abusi sessuali non saranno più reati “contro gli obblighi dei consacrati” ma “contro la persona e la sua dignità”. Svolta nella riforma del Diritto canonico. Cambia la gravità che assume la violenza sessuale in Vaticano, nella riscrittura di un intero libro, il VI, del codice ecclesiastico. “Chi, oltre ai casi già previsti dal diritto, abusa della potestà ecclesiastica, dell’ufficio o dell’incarico sia punito a seconda della gravità dell’atto o dell’omissione, non escluso con la privazione dell’ufficio o dell’incarico, fermo restando l’obbligo di riparare il danno, sancisce il nuovo testo pubblicato il 23 maggio, che entrerà in vigore l’8 dicembre. Un passaggio della riforma riguarda anche l’aborto, collegato appunto agli episodi di violenza sessuale, di pedofilia e pedopornografia. “Chi procura l’aborto ottenendo l’effetto incorre nella scomunica latae sententiae”, si legge, “nei casi più gravi il chierico reo sia dimesso dallo stato clericale”. Uguale eventualità per chi “commette un delitto contro il sesto comandamento del Decalogo con un minore o con persona che abitualmente ha un uso imperfetto della ragione”.
Da Brusca ai referendum, Salvini in tilt sulla giustizia
Da una parte vorrebbe che Giovanni Brusca, il boss che uccise Giovanni Falcone premendo il telecomando a Capaci, restasse in carcere a vita (“la scarcerazione è una schifezza, Brusca è una bestia”), dall’altra propone sei referendum per “punire” i giudici e limitare il carcere ai colletti bianchi. Ieri il leader della Lega, Matteo Salvini, ha presentato nella sede del Partito Radicale i sei quesiti referendari sulla giustizia che saranno depositati domani in Cassazione: la raccolta firme partirà nel weekend del 2-4 luglio e andrà avanti fino al 30 settembre, data ultima per presentare le 500 mila firme necessaria per ogni quesito per indire il referendum popolare. A fianco di Salvini a presentare i quesiti referendari ieri c’erano anche il segretario del Partito Radicale, Maurizio Turco, e la tesoriera, Irene Testa, che da anni portano avanti battaglie iper-garantiste come l’abolizione dell’ergastolo, l’amnistia o l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non proprio in linea con le posizioni di Salvini negli anni, noto per voler vedere “marcire in galera” terroristi, assassini e mafiosi e per la “castrazione chimica” per gli stupratori.
Ma ieri mattina, nella sede storica dei Radicali di Torre Argentina, tutte le differenze tra la Lega e il partito di Marco Pannella sembravano sparite. A ognuno serve l’altro: i Radicali vogliono sfruttare la potenza di fuoco del primo partito italiano per raccogliere le firme e avere un punto di riferimento in Parlamento, il Carroccio invece vuole intestarsi il sentimento anti-pm che sta emergendo nel Paese dopo gli scandali Palamara e Csm (e anche dopo i processi a Salvini). “Non stiamo qui a discutere delle cose su cui non siamo d’accordo, perché abbiamo tanto da fare”, ha detto il segretario dei Radicali Turco. Salvini invece ha elogiato il Partito Radicale per “la sua storia” e per la sua “capacità di partecipazione e di democrazia” e ammettendo che con la Lega ci sono “idee e culture diverse”. I quesiti referendari sono sei, presentati dall’avvocato e responsabile Giustizia dei Radicali, Giuseppe Rossodivita: la responsabilità civile dei magistrati (già ritoccata dal governo Renzi), la separazione delle carriere, i limiti alla custodia cautelare, l’abolizione della legge Severino, l’elezione del Csm e l’equa valutazione dei pm.
Oltre alla responsabilità civile e alla separazione delle carriere, storiche battaglie berlusconiane, a Salvini interessa l’abolizione della legge Severino che prevede l’incandidabilità o l’ineleggibilità per il parlamentare che abbia avuto una condanna superiore ai due anni o la decadenza (anche da membro del governo) se il mandato è in corso. Ipotesi che potrebbe riguardare anche il leader della Lega che dovrà affrontare un processo a Palermo per il caso Open Arms con l’accusa di sequestro di persona con pene fino a 15 anni: una condanna potrebbe definitivamente fermare la sua carriera politica.
“È troppo facile utilizzare l’arma giudiziaria per far fuori avversari politici”, gli ha dato manforte l’avvocato Rossodivita. L’altro quesito che avrebbe conseguenze esplosive è quello sul limite alla custodia cautelare: si chiede di abolire il criterio di rischio di reiterazione del reato per decidere se disporre il carcere per un indagato. In questo caso però i casi di indagati in carcere diminuirebbero molto, anche tra i colletti bianchi. Ma il leader della Lega è stato molto meno garantista su Brusca: “Con 100 omicidi sulle spalle, sapere che c’è un signore libero è preoccupante, va cambiata la norma”. I referendum creano anche una spaccatura nella maggioranza. “È un’arma di distrazione, si vogliono imbrigliare i pm”, dice il M5S Mario Perantoni, mentre la responsabile Giustizia Pd, Anna Rossomando, chiede a Salvini di “affrontare i dossier in Parlamento”. Duro Alessandro Di Battista: “Salvini governa da anni con Berlusconi: stia lontano dalla giustizia”.
Brusca libero, parte l’assalto alla legge sui pentiti: Lega e Forza Italia chiedono di cambiarla. Ecco perché sarebbe la fine della lotta alla mafia
Dopo il ritorno in libertà del boss di San Giuseppe Jato, Salvini, Musumeci, Ronzulli e Carfagna chiedono di cambiare la legge sui collaboratori di giustizia. Una norma inventata proprio dalla vittima più illustre del boia di Capaci: Giovanni Falcone. Senza sconti di pena, senza la possibilità di avere permessi premio e soprattutto senza la garanzia di avere protezione per sè e per i propri cari, perché un mafioso dovrebbe collaborare con la giustizia? Grasso: “Se davvero facessero quello che dicono, potremo anche dichiarare chiuso il capitolo del contrasto a Cosa nostra”
L’uscita dal carcere di Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, diventa l’assist perfetto per far partire ancora una volta all’assalto legislazione che premia i collaboratori di giustizia. A intestarsi una battaglia che rischierebbe di azzerare la lotta a Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra è Matteo Salvini, non si sa quanto consapevolmente. “Va cambiata la norma, è un’uscita imbarazzante, vergognosa, diseducativa”, dice il leader della Lega, ripetendo il concetto in tre diverse occasioni a distanza di poche ore: a Mattino Cinque (“Se è uscito di carcere significa che c’erano i requisiti, ma allora bisogna cambiare la legge“), in diretta su Facebook (“Profondo rammarico per una legge che va cambiata“), e alla conferenza stampa di presentazione dei referendum sulla giustizia promossi assieme al Partito radicale (“Che una persona ha ammazzato cento persone possa passeggiare per Roma, mi sembra figlio di una legge sbagliata“). Ma non è il solo: anche per il governatore della Sicilia, Nello Musumeci, “se una norma è palesemente sbagliata va cambiata. Magari non potrà più servire per Brusca ma servirà almeno ad evitare un altro caso simile”. “La legge che consente ai collaboratori di giustizia la scarcerazione va rivista e a chi oggi si limita a dire che la legge va rispettata dico: abbiamo il dovere di lavorare per cambiarla, perchè questa non è giustizia”, sostiene pure Licia Ronzulli, vicecapogruppo di Forza Italia al Senato, mentre già ieri la ministra per il Sud Mara Carfagna invocava “mai piú sconti di pena ai mafiosi, mai più indulgenza per chi si é macchiato di sangue innocente”.
La legge voluta da Falcone – Ma di che sconti parlano le due berlusconiane? Che legge vuole cambiare il leader del Carroccio? Quale è questa norma che il presidente della Sicilia arriva a definire come “palesemante sbagliata“? Se Brusca è uscito di galera si deve a una legislazione che fu ispirata, ideata e fortissimamente voluta dalla sua vittima più illustre: Giovanni Falcone. Colpevole di centinaia di omicidi e stragi, il boss di San Giuseppe Jato è uscito dopo “soli” 25 anni perché per gli atroci crimini commessi ha ottenuto una serie di sconti di pena. Li ha avuti grazie alla legge 82 del 1991: “Nuove norme per la protezione e il trattamento sanzionatorio dei collaboratori di giustizia”, si chiama e a progettarla è stato il giudice siciliano. Per quella norma Falcone si era ispirato al Witness protection act in vigore negli Stati Uniti, grazie al quale Tommaso Buscetta aveva ottenuto la libertà vigilata. Senza sconti di pena, senza la possibilità di avere permessi premio e soprattutto senza la garanzia di avere protezione per sè e per i propri cari, perché un mafioso dovrebbe collaborare con la giustizia? Perché dovrebbe autoaccusarsi di stragi e delitti efferati, chiamando in causa ex sodali ed esponendo i propri famigliari al rischio di finire assassinati? A Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi, il primo grande pentito di Cosa nostra che con le sue dichiarazioni rese possibile il Maxiprocesso, Totò Riina fece uccidere in totale 35 parenti. A Francesco Marino Mannoia, il chimico più bravo della piovra, assassinarono la madre e due zie. A Mario Santo Di Matteo, detto Mezzanasca, rapirono, uccisero e sciolsero nell’acido il figlioletto di 15 anni: a occuparsi di quel raccapricciante omicidio fu proprio Brusca.
Chi è Brusca e perché è considerato un pentito – Rampollo di una storica famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, per spiegare che tipo di mafioso fosse il boia di Capaci bastano tre elementi. Due sono soprannomi: lo chiamavano ‘u Verru, il porco, o più semplicemente ‘u scannacristiani, lo scanna persone. Il terzo è una nota autobiografica: “Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento”. È questo l’uomo che arrestano il 20 maggio del 1996 in una via vicino al mare di Agrigento. La sua collaborazione con la giustizia è problematica: all’inizio aveva intenzione di screditare il mondo dell’antimafia, gli altri collaboratori di giustizia, politici di alto livello. Poi comincia a parlare: racconta di aver esordito come artificiere della strage di Rocco Chinnici, si autoaccusa della strage di Capaci, dell’uccisione del piccolo Di Matteo. Parla anche di quando nell’inverno del 1991 Riina ordinò la strategia dell’attacco allo Stato a suon di bombe, della Trattativa aperta nel 1992 con alcuni esponenti delle Istituzioni, dell’obiettivo coltivato insieme a Leoluca Bagarella “di arrivare a Berlusconi” tramite Vittorio Mangano. Su alcuni punti delle sue dichiarazioni, però, persistono i coni d’ombra: sulle dinamiche operative della strage di Capaci, sui motivi reali che portarono al rapimento del piccolo Di Matteo, sui racconti relativi a presunti – e finora mai dimostrati – incontri tra Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, con il primo che – a sentire Brusca – conosceva persino il valore dell’orologio al polso del secondo.
La kriptonite delle mafie – Ciò nonostante le dichiarazioni dello scannacristiani sono state considerate attendibili in decine e decine di processi. Per questo motivo dal 2000 ha incassato lo status di collaboratore di giustizia e dal 2004 gli è stato concesso di uscire dal carcere ogni 45 giorni per far visita alla famiglia in una località protetta. A prevederlo è appunto quella legge voluta da Falcone. Già alla fine degli anni ’80 il giudice aveva capito quale potesse essere la kriptonite della piovra: una legislazione ad hoc, fatta di norme che premiano i collaboratori e leggi che rendono più aspra la detenzione per chi non parla. Per questo motivo il magistrato lascia Palermo e vola a Roma per andare a guidare gli Affari penali del ministero della Giustizia: l’obiettivo è portare a un livello superiore la lotta alla mafia. Ci riuscirà ma solo dopo aver pagato con la vita: sull’onda lunga delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, lo Stato inasprirà le pene per i mafiosi irridubicibili. Dopo la legge sui pentiti, nascono le suprecarceri di Pianosa e dell’Asinara, viene istituito il 41-bis, il regime di carcere duro, diventa legge l’ergastolo ostativo. In maniera semplificata funziona così: tutti i condannati al fine pena mai dopo 26 anni di carcere possono accedere alla libertà vigilata. Tutti, tranne quelli condannati per reati di mafia o terrorismo: per loro il fine pena mai vuol dire carcere a vita nel vero senso della parola.
Il primo assalto ai pentiti – È per questo motivo che a partire dal 1992 iniziano a moltiplicarsi i mafiosi che si pentono: capiscono che se collaborano con la giustizia saranno protetti, avranno sconti di pena e permessi. In caso contrario moriranno in carcere. Uno dopo l’altro cominciano a saltare il fosso boss i rango come Salvatore Cancemi, Giuseppe Marchese, Gaetano Grado, lo stesso Brusca ma pure soldati che custodiscono i segreti dell’organizzazione come Gaspare Mutolo. Nel 2000 i collaboratori di giustizia raggiungono il record di 1100 per un totale di 5174 persone protette. Poi nel 2001 il governo di centrosinistra di Giuliano Amato – ministro della giustizia Piero Fassino, dell’Interno Giorgio Napolitano – decide di modificare la legge sui collaboratori: vengono ridotti i benefici, con una serie di sbarramenti per l’accesso ai programmi di protezione. Ma soprattutto si impone ai mafiosi di raccontare ai magistrati tutto ciò che sanno nei primi 6 mesi di collaborazione. Uno come Brusca che dice non ricordare esattamente quante persone ha ucciso, come fa a mettere a verbale tutto quello che sa in sei mesi? “Con questa legge al posto di un mafioso non mi pentirei più”, commenta Pietro Grasso, all’epoca procuratore di Palermo. Infatti il numero di pentiti inizia a scendere: nel 2007 il Viminale ne conta 791 per un totale di 3754 protette: quasi la metà di sette anni prima.
L’ultimo assalto e l’ergastolo ostativo – Quindici anni dopo ecco che Lega e Forza Italia provano a cavalcare la scarcerazione di Brusca per mettere di nuovo mano alla legge sui pentiti. Grasso, nel frattempo diventato senatore, spiega cosa potrebbe succede se davvero Salvini e i berlusconiani “facessero quello che dicono, ovvero ridurre gli sconti per chi collabora con la giustizia: diminuirebbe l’incentivo a pentirsi”. Ma non solo: “Se a questo – continua l’ex magistrato antimafia – aggiungiamo che si sta cercando di limitare l’ergastolo ostativo potremo anche dichiarare chiuso il capitolo del contrasto a Cosa nostra. Al contrario, servono sconti di pena forti per chi aiuta lo Stato e prospettiva di ergastolo senza sconti per chi non collabora“. L’ex presidente del Senato si riferisce alla sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale l’altra legge inventata da Falcone, quella per tenere al carcere a vita i mafiosi che non collaborano. Il Parlamento ha tempo fino al maggio del 2022 per riscrivere l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario: in alternativa il rischio è che mafiosi irriducibili come Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella ottengano la libertà vigilata senza dire una parola. L’effetto sarebbe paradossale: gli uomini che custodiscono i segreti delle stragi escono anche se rimangono muti, quelli che parlano invece rimangono in carcere. Una legislazione basata sul principio l’omertà.
Quando Salvini commenta le indagini sulle bombe – Va detto che quando la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo, Salvini ha spiegato di volersi impegnare per riscrivere quella norma ed evitare il ritorno in libertà degli stragisti irriducibili. Molto diversa, invece, la posizione tenuta dal leader della Lega due anni fa, quando era diventata di dominio pubblico l’ultima indagine della procura di Firenze sulle bombe del 1993: nel registro degli indagati erano stati iscritti i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, con l’accusa di concorso in strage. Ipotesi clamorosa già battuta negli anni ’90 sia dalla procura toscana che da quella di Caltanissetta. Dopo qualche giorno di silenzio il primo ad attaccare i magistrati era stato Matteo Renzi che aveva parlato – non si sa bene con quali elementi in mano – di un’inchiesta “senza uno straccio di prova”. Una linea alla quale si erano accodati subito sia Salvini che Giorgia Meloni. La capa di Fdi aveva riciclato i classici concetti usati dal centrodestra quando si tratta di commentare le inchieste su Berlusconi e Dell’Utri: l’accanimento giudiziario e la magistratura politicizzata. Quello della Lega, invece, aveva usato toni meno classici, liquidando la questione con poche perentorie parole: “Ma basta giudici che usano risorse pubbliche per indagini senza logica… Siamo seri, ma indaghiamo su stupratori, ‘ndranghetisti e camorristi“. Nell’elenco fatto quel giorno dall’ex ministro dell’Interno mancavano solo gli uomini di Cosa nostra, cioè quelli che hanno piazzato le bombe del ’92 e ’93. Ancora oggi la procura di Firenze sta cercando di capire se esistano altri responsabili di quelle stragi. “Ci vorrebbe un pentito di Stato, uno delle istituzioni che faccia chiarezza e disegni in modo ancora più completo cosa avvenne negli anni delle stragi”, era l’auspicio del pm Nino Di Matteo, poco dopo che la corte d’Assise di Palermo aveva condannato quasi tutti gli imputati del processo sulla Trattativa. Per avere un pentito di Stato, però, serve che nessuno metta mano alla legge sui collaboratori.
Dietro le quinte della finanza