Campania. Appena 36 posti di degenza per 7400 reclusi

di Samuele Ciambriello

Il Riformista, 25 agosto 2021

I detenuti non possono ammalarsi: in Campania appena 36 posti di degenza per 7400 reclusi. La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità. E la pandemia ha certamente peggiorato le condizioni di vita dei detenuti. Il diritto alla salute va sempre tutelato, in particolare in un contesto che vede limitazioni alla libertà.

Sono stato un grande sostenitore nel 2008 della riforma della sanità penitenziaria che ha riportato il tema della salute nelle competenze delle sole aziende sanitarie locali, affermando così un principio fondamentale: il diritto alla cura e alla salute è unico per la persona libera come per la persona priva di libertà. Come garante campano delle persone private della libertà personale sono consapevole che il tema della sanità in carcere presenta notevoli difficoltà operative e gestionali e richiede una più ampia cooperazione istituzionale tra Asl e amministrazione penitenziaria. Ho constatato, in questo anno di Covid, come con competenza e scrupolo è stata fronteggiata l’emergenza, impedendo una diffusione di contagi che avrebbe potuto assumere proporzioni allarmanti.

In alcuni casi, però, assisto ad un rimpallo di responsabilità che offende le istituzioni e chi le rappresenta. Certo, la sanità, nelle carceri della Campania, presenta molte criticità ma anche buone prassi ed esperienze significative. Solo a Poggioreale e a Secondigliano vi è la presenza di centri clinici oggi chiamati SAI (padiglioni o reparti dove vi è un’intensità di cura maggiore), ma non si tratta di un vero reparto ospedaliero. A Poggioreale, per esempio, vi è un ottimo impianto di Radiologia, di recente acquisto, utilizzabile anche dai detenuti delle carceri limitrofe, ma non vi sono dei macchinari utili e necessari per effettuare in sede una Tac o una risonanza magnetica. Una possibile soluzione, che rappresenterebbe un altro buon esempio di buone prassi nella sanità penitenziaria, sarebbe l’acquisto di una “tac mobile” che possa essere trasportata nei diversi istituti. È auspicabile che quanto prima venga aperto un piccolo reparto attrezzato per detenuti dializzati.

Negli ospedali i posti letto da destinare alla popolazione ristretta devono aumentare, in Campania ce ne sono solo 36 per una popolazione di 7400 detenuti. E non si fanno ricoveri in altri ospedali perché non ritenuti idonei alla sicurezza. Un’altra osservazione riguarda i turn-over nei centri clinici. Sono lenti, perché i detenuti che sono lì presenti vi restano il più a lungo possibile. Non parliamo del tema dei farmaci o della loro mancanza. L’assistenza dietetica risulta abbastanza approssimativa. E si registrano difficoltà per l’ingresso dei medici specialisti nominati dai detenuti. Non è tutto.

Un’altra criticità riguarda il trasferimento dei detenuti dalle carceri per visite specialistiche, trasferimenti che sono lenti nei tempi sia per le lunghe attese ospedaliere che per la carenza di personale adibito al trasferimento del detenuto e al suo controllo durante la visita. La stessa non stabilizzazione degli operatori penitenziari dell’ambito sanitario impedisce di intervenire bene e con continuità: questo vale per medici, infermieri ed altre figure sanitarie. La cartella sanitaria informatica e la telemedicina devono entrare con forza nei piani regionali di settore. A livello regionale, inoltre, si rilevano anche criticità strettamente collegate alla mancanza di una sistematica attività di monitoraggio epidemiologico volta a definire, in termini di evidenza scientifica, l’entità, la natura e le tendenze evolutive della domanda di salute espressa dalla popolazione dei detenuti.

Un capitolo a parte merita il tema della presenza di tantissimi detenuti con problemi psichici. Parlare della salute mentale, nell’ambito della tutela delle persone private della libertà personale, appare quasi un paradosso. La salute mentale è insediata dalla costrizione fisica e dalla dipendenza totale per qualsiasi necessità della vita quotidiana. Il carcere per sua stessa natura può comprimere i diritti individuali. Il carcere non può e non deve essere una risposta per queste persone soprattutto se si considera che in tantissimi istituti mancano gli psichiatri. Il personale sanitario (medici, specialisti, psicologi, infermieri eccetera) opera da anni nel carcere con rarissime e sporadiche attività di aggiornamento o di valutazione del lavoro svolto.

Pertanto diventa naturale che vengano segnalati frequentemente episodi di cattive pratiche dipendenti probabilmente dal burnout, fenomeno che notoriamente riguarda il personale di assistenza che opera in condizioni particolarmente critiche (reparti di rianimazione, centri clinici, tossicodipendenti, reparti psichiatrici, e così via). E a tutto ciò si aggiunge il capitolo dolente relativo a tempi e modalità delle decisioni della magistratura di Sorveglianza.