Pulci di notte
di Stefano Lorenzetto
Nel supplemento culturale Domenica del Sole 24 Ore torna a colpire il coltissimo Mephisto Waltz. Stavolta parla di una scialuppa «spinta da una ventina di rematori, al pari di una triremi romana». Duole notificargli che si scrive trireme e non triremi (plurale femminile) e che l’antica nave da guerra certo non aveva una ventina di vogatori, ma dai 150 ai 180. Sopra lo svarione nautico, in quella che pomposamente è chiamata «Terza pagina», compare il titolo «Il buon scrittore tiene la Bibbia aperta». Non ci pare che suoni benissimo, considerata la s impura, soprattutto a corredo di un articolo scritto dal cardinale Gianfranco Ravasi, custode pontificio della Cultura con la c maiuscola.
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Nella rubrica Facce di casta, sul Fatto Quotidiano, Veronica Gentili scrive: «Così da un certo momento in poi la titolare del Viminale è diventata il simbolo di tutte le contraddizioni insite al certificato verde». Desideriamo informarla che insito significa «intimamente radicato», pertanto le contraddizioni possono essere insite nel certificato verde, non al certificato verde.
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Il sito di Libero riprende da questa rubrica una precedente strigliata a Veronica Gentili ma dimostra di non averne colto appieno il senso: «Parliamo dello “ca vas sans dire”, modo di dire francese che richiede la cediglia. Quel segno grafico che la Gentili ha dimenticato di aggiungere». Per la verità, la telegiornalista aveva anche sbagliato il verbo: si scrive ça va, non ça vas.
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Per la serie I grandi gialli su Specchio, supplemento della Stampa, Gianluigi Nuzzi si occupa nei seguenti termini di «Carlo “l’ammazzabimbi”. Un serial killer del 1800» (così il titolo): «Ci vollero due anni, ma alla fine i resti del piccolo Luigino Bonecchi vennero ritrovati sotto appena trenta centimetri di terra nel sottoscala della bottega dove Callisto Grandi, classe 1849, da insospettabile cardatore riparava carri». Più avanti, Nuzzi precisa che «Grandi viene arrestato mentre sta cercando di eliminare Amerigo Turchi di nove anni» e dettaglia: «Arrivano i carabinieri, sfondano la porta e sorprendono il cardatore di paese dagli occhi fuori dalle orbite, come indemoniato, che maneggia con un’imponente ruota per passarla sopra il povero Amerigo a terra terrorizzato». A parte l’uso creativo del verbo transitivo maneggiare, anche la scheda a corredo dell’articolo conferma che Grandi aveva una bottega nella quale riparava e costruiva carri. Che c’entra dunque la definizione di cardatore, attribuita a chi carda lana, canapa e lino, non a chi si occupa di carri? Senza parlare del deprecabile uso d’indicare un solo anno (qui il 1800) intendendo un secolo (il XIX, cioè l’Ottocento).
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Nella rubrica Il chierico vagante, sul Fatto Quotidiano, Fabrizio D’Esposito demolisce «Monsignor Macchietta alias Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, ispiratore del Vatileaks 1 e cospirazionista anti-bergogliano che propaganda le sciempiaggini di QAnon e del Great Reset». Quanto alle scempiaggini a mezzo stampa, senza la i, ci pare che l’arcivescovo possa contare sui chierici.
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Soffermandosi sui disordini di piazza provocati dagli anti green pass a Roma, culminati con le devastazioni negli uffici della Cgil, Luca Sablone scrive sul sito del Giornale: «La sede del sindacato è stata assaltata da alcuni protestanti». Valdesi? Pentecostali? Evangelici? Luterani? Calvinisti? Battisti? Presbiteriani? Metodisti?
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Con quattro righe in prima pagina, Il Fatto Quotidiano riferisce di un’indagine (Concorsopoli) che riguarda l’infettivologo Massimo Galli, pubblicata a pagina 4: «Non solo il caso del “falso verbale”. Secondo le nuove carte dell’inchiesta di Milano, il candidato “prescelto” per la prova finale “ha 45 minuti”, ma l’ex primario del Sacco: “Fanne 15”». Tutto chiaro.
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Titolo di un’intervista che occupa due pagine su Domani: «Giorgio Poi è un intimista normcore figlio di Luca Carboni che si ostina con l’indie, anche se non esiste più». Ancora più chiaro.
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Silvia Moscati sul Gazzettino: «“Non si è mai preparati alla perdita di un proprio caro, neanche dopo i 100 anni” sono le parole di Vanna Nube che ha rivissuto recentemente il distacco dalla madre Antonia attraverso la morte dello zio Severino Centenaro, fratello gemello della mamma. I due fratelli avevano 101 anni. Di quel fantastico trio di centenari, a Mogliano è rimasto solo il più giovane del gruppo, Ruggero Nube». Tutto definitivamente chiaro.
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Laura Zangarini sul Corriere della Sera presenta La bottega del caffè di Carlo Goldoni, messa in scena dal regista Paolo Valerio, direttore del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, con Michele Placido nei panni di Don Marzio. La giornalista cita la «ballerina Lisaura che sta soltanto con chi ha da spendere gli “sghei”, i soldi». Premesso che Goldoni in questa e in altre sue commedie parla di bezzi, la grafia corretta della parola, usata più dai veronesi che non dai veneziani, è schei, abbreviazione degli austriaci Scheidemünze, gli spiccioli in uso nel regno Lombardo-Veneto. È vero che sui dizionari Treccani e Zingarelli viene riportata anche la versione sghei, ma solo perché è la forma erronea più utilizzata dai giornalisti italiani. Il grande Luigi Meneghello usava schei, mai sghei, arrivando a porsi un interrogativo in Maredè, maredè: se fosse meglio scrivere «i schei» anziché «gli schei». E Gian Antonio Stella ha intitolato il suo saggio Schei.
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Dalla Gazzetta di Mantova: «È mistero sull’elevato numero di gatti che sarebbe scomparso negli ultimi tempi in città». Toh, è sparito un numero, bravo chi lo ritrova.
SL
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