1949 – San Prisco – Un vero delitto d’onore. Uccise a fucilate e lo buttò su un mucchio di letame. Questa la fine di un suo cugino seduttore che l’aveva contagiata di sifilide e istigata ad uccidere i propri genitori dopo averla resa incinta. Alla base anche un ricatto e delle estorsioni per ricevere una cospicua dote di nozze: 5 milioni di lire ed un appezzamento di terreno.
Gli indizi, il movente, il delitto
“Fonogramma – Alla procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere – Ore 6 circa stamane, ABBATE Maria di Antonio e di Casella Anna, nata a San Prisco il 18/I0/1931, ivi residente, via Pola, contadina, nubile, costituivasi quest’Arma, asserendo di avere ucciso – ore 21 circa ieri – 14 andante, motivi onore, mediante fucile retrocarica, proprio fidanzato Abbate Giovanni, (cugino primo grado) di Vincenzo e di Cantiello Tommasina, nato a San Prisco, il 15/05/1930, residente Casagiove, “Masseria Cepparulo”, celibe, contadino, punto. Cadavere rinvenuto presso Masseria “Schettini” est piantonato, atteso sopralluogo codesta Autorità Giudiziaria punto. Non è stato possibile, finora, rintracciare arma omicida punto. Indagini in corso punto”.
Ucciso a fucilate e buttato su un mucchio di letame.
Questa la fine di un cugino seduttore che l’aveva contagiata di sifilide e istigata ad uccidere i propri genitori dopo averla resa incinta.
Verso le ore 5 di martedì, 14 del 1956, la signorina Maria Abbate di anni 25, bussava al portone di ingresso della caserma dell’Arma di San Prisco, annunciando di essersi resa responsabile di omicidio in danno del proprio cugino e fidanzato Giovanni Abbate, di anni 26. I carabinieri dopo poco, si portarono alla “Cappelluccia Boccardi”, la mulattiera che conduceva alla masseria di Antonio Abbate, padre della omicida, e precisamente nel fondo “Fossataro”, rinvennero il cadavere di Giovanni Abbate il quale giaceva supino su di un mucchio di letame alto circa un metro.
Descritta minuziosamente in tutti i particolari la “scena del crimine”, piantonata fino all’arrivo del Sostituto Procuratore di turno Gennaro Calabrese, il maresciallo si orientò verso un interrogatorio della ragazza anche perché la “solite” voci confidenziali della caserma avevano ipotizzato che il delitto era stato consumato da altri (un fratello o il padre della ragazza) e che la stessa intendeva coprire accollandosi la colpa.
Ecco il drammatico racconto della giovane: “Mi sono costituita spontaneamente stamattina siccome ieri, ho ucciso nei pressi della Cappelluccia Boccardi con due colpi di fucile da caccia il mio seduttore, Giovanni Abbate da Casagiove. Col predetto Giovanni Abbate – che peraltro è mio cugino – mi fidanzai circa 3 anni orsono di nascosto dei miei genitori siccome costoro non vedevano di buono occhio l’eventuale nostro matrimonio. Un anno e mezzo fa il mio fidanzato col pretesto di imporre il matrimonio ai miei parenti mi sedusse nell’abitazione di tale Orsola Carrillo, domiciliata in San Prisco, nella Masseria Schettino. Da allora fui facile preda del mio fidanzato. Egli pretendeva che i miei genitori mi donassero in dote 4, 5 milioni in denaro liquido ed un appezzamento di terreno”.
“Circa un anno fa egli si avvicinò alla masseria di mio padre e pretendeva di salire in una stanza al primo piano con una corda che io gli avrei dovuto celare. Il chiasso richiamò l’attenzione di mio padre alle cui dimostranze egli esplose contro due colpi di fucile che fortunatamente andarono a vuoto. Ciò, se non erro, risulta anche dagli atti di quest’Arma. Nel mese di settembre o ottobre dello stesso anno egli mi contagiò di sifilide. In quel tempo io ero alquanto abbattuta e i miei genitori – per farmi svagare – mi mandarono per pochi giorni a Firenze presso mia sorella Pasqualina domiciliata in quella via Novoli. Un giorno io mi sentii male è un dottore chiamato d’urgenza dai miei familiari consigliò il mio ricovero all’ospedale “Santa Maria Nuova” siccome affetta da sifilide. Nel predetto ospedale rimessi ricoverata per circa due mesi; tornai in San Prisco nello scorso mese di marzo. Il mio fidanzato – che era stato a trovarmi anche a Firenze – continuò a farmi visita nella mia abitazione sempre di nascosto dei miei genitori”.
“Circa un mese fa siccome ero rimasta incinta di tre mesi raccontai della mia relazione a mia madre e poiché mi accorse di aver generato sconforto nei miei familiari mi allontanai di casa ed andai ad abitare sola in un vano della vicina “Masseria Schettino”. Debbo precisare che circa 6 -7 mesi or sono i miei genitori denunciano ai carabinieri che il mio amante aveva rubato degli utensili di rame nella mia abitazione. Per questa circostanza fui interrogata dal Giudice Istruttore del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nell’occasione confessai a quella Autorità i rapporti esistenti tra me e l’Abbate oltre che della malattia di cui era stata contagiata”.
“Il mio fidanzato continuo però a frequentarmi nella casa presa in fitto da me e in quella circostanza mi tempestò di richieste assurde facendomi intendere, tra l’altro chiaramente, che non mi avrebbe mai sposata se i miei genitori non mi avessero fornito della dota sopra menzionata. Qualche volta mi disse anche che per poter ottenere la somma desiderata avrei dovuto uccidere sia mio padre che mia madre. Ieri, 14 corrente, verso le ore 19:30 egli si avvicinò alla masseria e mi chiamò dalla sottostante strada. Scesi sulla via e mi accorsi che egli era munito di una motoleggera, una bottiglia ricolma di vino e di un sacco nel quale era avvolto un fucile da caccia.
Mi invitò a seguirlo e lungo la strada mi chiese per l’ennesima volta di uccidere i miei genitori col fucile che portava con sé. Parlando su tale argomento giungemmo nel fondo attiguo alla cappelluccia Boccardi. Ivi vi era un mucchio di letame ove il mio fidanzato dopo di avermi consegnato l’arma vi si appoggiò e poi vi si sedette”.
“Mi incitò ancora di recarmi alla masseria per uccidere i miei, per cui io mi mossi da quel luogo come automa senza nulla comprendere dirigendomi verso la mia masseria. Ad un certo punto mi resi conto di quello che stava succedendo, ritornai indietro e non appena mi accorsi che il mio fidanzato era girato di spalle gli esplosi contro due colpi di fucile scappandomene poscia nell’abitazione che avevo preso in fitto. Volevo costituirmi ieri stesso ma avevo paura della strada. Stamattina, invece, appena alba ho ripreso forza e mi sono costituita. Il fucile da caccia l’ho buttato lontano dal luogo del delitto una cinquantina di metri e non so spiegarmi chi possa averlo preso. Non so spiegarmi del come mai voi abbiate potuto trovare il cadavere del mio fidanzato privo della scarpa sinistra così come non so spiegarmi come mai questa possa essere stata trovata nella siepe della costeggiata strada a circa 15 metri dal cadavere Non è vero che i miei genitori abbiano preso parte al delitto che io abbia colpito il mio fidanzato con un’arma da taglio. Penso che la scarpa il mio fidanzato se la sia tolta prima di raggiungere il mucchio di letame. Non è vero neanche che il mio fidanzato sia stato ucciso altrove da me e dai miei familiari e poi trasportato sul luogo indicato innanzi. Stamattina nel costituirmi ho incontrato tale Filomena, domiciliata nella Masseria Coppetiello di San Prisco, la quale mi ha assicurato di aver sentito distintamente due colpi d’arma da fuoco che io esplosi ieri sera contro il mio fidanzato. Aggiungo anche che tale Orsola Carrillo, domiciliata nella Masseria Schettino, vide il mio fidanzato ieri sera quando si presentò a casa mia anzi mi chiamò per dimmi testualmente: ‘O’ sposo vuoste ve va truvanne’”.
Gli interrogatori dei sospettati di concorso in omicidio
Con il sopralluogo degli investigatori alla masseria “Vignarelli” però, i sospetti che i famigliari della Maria fossero comunque coinvolti nella faccenda si accentuarono. Il fucile da caccia, cui essi erano proprietari – regolarmente denunziato alla competente Autorità di P.S., era scomparso misteriosamente. Tale particolare fondamentale – ai fini dell’indagine in quanto esse vertevano anche a stabilire se l’arma omicida fosse o no di proprietà di Giovanni Abbate – indusse i carabinieri (il cui comandante era il famigerato Aniello Romanucci) ad operare il “fermo” – debitamente convalidato dal magistrato inquirente – del padre della ragazza, Antonio Abbate, di sua moglie Anna Casella e del figlio Pasquale.
Pasquale Abbate dice poco nel corso del suo interrogatorio purtroppo egli era a conoscenza delle disavventure occorse alla sorella e a causa delle quali il padre (avvelenatissimo!) egli dice “caccio di casa per un periodo di tempo la moglie e tutti i suoi bambini”. Si protesta innocente del delitto consumato in persona del cugino e chiarisce che proprio costui, tempo addietro, sorpreso con la sorella della “Masseria” esplose contro il padre alcuni colpi di fucile da caccia.
Anche Maria Casella e Antonio Abate si professarono innocenti delle accuse loro mosse e si soffermarono ad elencare i vari avvenimenti che determinarono la perdita morale della loro famigliola.
Nulla venne tralasciato per concludere un accordo “prematrimoniale” e non mancarono persone assennate che cercano di convincere i genitori del ragazzo i quali però furono fino all’ultimo ostili. “Piuttosto preferisco che mio figlio sposi una puttana di Casino” azzardò Vincenzo Abbate… “E sì è cazzo… mo se sposa o’ figlio e Lignammiello?... replicò la genitrice di Giovanni Abbate. Tali frasi assumono i coniugi Abbate vennero profferite alla presenza di Luigi Abbate e di Matrona Salemme, i quali in sede di interrogatorio confermarono nella loro integrità. Confermarono inoltre che la loro figliola si era allontanata da casa circa un mese prima e dopo di essere stata resta incinta dal proprio fidanzato chiarirono, infine, di essere venuti a conoscenza del delitto solo per caso. La Casella, anzi, affermò di aver saputo tutto ciò nelle prime ore del giorno i 15 (il giorno del delitto) da tale Francesco Casertano, il quale in sede di interrogatorio confermò integralmente.
I successivi interrogatori di Pasqualina Abbate, Orsola Garrilla e Filomena Zibella confermarono le circostanze addotte da Maria Abbate e dai suoi genitori in ordine agli antefatti e al delitto. La sorella Maria, in particolare, che viveva a Firenze con il marito agente di P.S., chiarì che quando la sorella era presso di lei a Firenze dovette essere ricoverata di urgenza presso l’Ospedale “Santa Maria Nuova” per sifilide acuta. La circostanza venne poi confermata anche dalla Polizia Giudiziaria di Firenze. Orsola Garrillo confermò la circostanza secondo la quale Giovanni Abbate era sempre “violento” e “sgarbato” verso la futura suocera.
Drammatica e toccante la deposizione di Filomena Zibella, che incontrò Maria Abbate subito dopo aver commesso il delitto. “Ho ucciso il mio fidanzato e ora vado a costituirmi ai carabinieri di San Prisco” disse la ragazza.
Il processo in Corte di Assise
Una mite condanna a 13 anni. In appello ridotta a 10 anni con l’attenuante della provocazione
Il 14 agosto del 1958 il giudice istruttore su conforme richiesta del pubblico ministero ordinò il rinvio al giudizio di Maria Abbate innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere per rispondere di omicidio. Intanto l’otto febbraio del 1957 la Maria Abbate aveva partorito una bambina nel carcere ove era ristretta. L’autopsia accertò Giovanni Abbate era stato attinto da due colpi di fucile da caccia caricato “a caprioli” e che i colpi erano stati esplosi da breve distanza alle spalle. Il emerse dalle risultanze della perizia affidata a Emiddio Farina e Claudio Scapaticci periti dei giudici. Prevalse l’opinione che il delitto fosse stato commesso da altri e comunque con la collaborazione di ignoti.
La Corte ritenne, inoltre, che l’imputata commise il delitto per motivi di particolare valore morale e sociale. Tali motivi sono senz’altro apprezzabili sia sul piano morale che su quello sociale, giacché la tutela dell’onore sessuale della donna è imposta da principi morali e costituisce altresì esigenza di ordine sociale vivamente sentita specialmente nelle nostre zone, dalla comune coscienza. La Corte ritenne, tuttavia, di non poter applicare anche la scriminante della provocazione oltre a quella del particolare motivo sociale e morale ma ritenne cdi concedere le attenuanti generiche (per la sua giovane età, per i suoi precedenti completamente incensurati, per le sue misere condizioni di salute, per la sua recente maternità) appare meritevole di clemenza e dalla pena edittale di anni 22 per l’omicidio da ridursi a 16 per l’attenuante del motivo di particolare valore morale e sociale ad anni 13 per le attenuati generiche.
La Corte di Assise, con sentenza dell’11 settembre del 1959, condannò Maria Abbate con le attenuanti del motivo di particolare valore mortale e sociale e le attenuanti generiche in ordine al delitto alla pena di anni 13. In appello la pena fu ridotta a 10 anni con l’attenuante della provocazione. Nei due gradi di giudizio si impegnarono per la difesa e per la parte civile gli avvocati: Giuseppe Garofalo, Ciro Maffuccini, Alfonso Martucci, Alfredo De Marsico, Guido Cortese, Luigi Patroni Griffi, Francesco Saverio Siniscalchi, Efisio Actis e Leucio Fusco.