Chiusa Roma, si apre Glasgow. La fiera multinazionale delle vanità. Più o meno gli stessi problemi, più o meno le stesse facce importanti. A Roma, diecimila poliziotti, a Glasgow venticinquemila delegati.
Sono numeri che colpiscono, come lo scalpello d’uno scultore. Cosa potranno decidere mai a Glasgow, sul clima, venticinquemila delegati, dopo che i venti leader più importanti della terra, a Roma, hanno concluso poco o niente? Nulla.
È dagli anni Ottanta che si è cominciato a parlare del clima e dei problemi dell’inquinamento ambientale, dei rifiuti nocivi e così via, nella generale indifferenza della politica. I Verdi sono stati espressione di queste istanze: un po’ tollerati, quando facevano comodo, un po’ presi in giro, perché ritenuti fuori dal mondo.
Sono passati quasi cinquant’anni e adesso, forse troppo tardi, si scopre che gli ecologisti avevano ragione. Se la Terra si scalda troppo, ci saranno disastri. Basta qualche grado in più perché cambi tutto: inondazioni, incendi, desertificazione e carestie.
È una prospettiva allucinante. Immaginiamo il mare che cresce stabilmente più di un metro per lo scioglimento dei ghiacci alpini e polari: cambia la geografia di molti Paesi, anche del nostro.
Il problema esiste davvero. Non è insolubile, ma quasi. È globale e drammatico, perché il mondo è in ritardo e diviso.
Come in tutte le vicende umane ci sono i buoni e i cattivi, i ricchi e i poveri. L’Occidente, con gli Stati Uniti e l’Unione europea, è in testa, schierato per prendere provvedimenti entro venti, trent’anni. Questi sono i buoni.
Brasile, India, Russia e Cina, invece, dicono che il problema c’è ma non possono prendere impegni. Questi sono i cattivi. Orrore! Poi Biden, nella sua conferenza stampa dopo il G20, ha detto che gli Stati Uniti comunque, prima di venti o trent’anni, non possono riconvertirsi anche perché lo sviluppo delle energie alternative sarà una cosa lunga. E allora? Anche gli Stati Uniti tra i cattivi?
La gente protesta, perché i politici non sono in grado di decidere. Cartelli, assembramenti, risse. Il solito scenario gridato inutile, guidato dalla bimbetta svedese che farebbe meglio a studiare invece di gridare verità inutili.
Perché?
Perché la verità è tutt’altra e nessuno la vuole ammettere. Lo sviluppo industriale del pianeta corre a velocità accelerata, in base all’energia che lo alimenta. L’85-90% dell’energia è data dal carbone. Il carbone inquina. Fermiamo il carbone e fermiamo il mondo.
La cautela di Cina e Russia (e degli Stati Uniti) nel non volere fissare una data certa si spiega con il fatto che la riconversione con nuove fonti di energia, allo stato attuale della tecnologia, è ancora improbabile su grandi numeri.
Fissare una data è impossibile. È possibile passare dall’oggi al domani alle nuove fonti di energia? No, per due ragioni: il processo tecnologico è lento e, nel frattempo, se l’industria si ferma in Cina o in Russia (e nel resto del mondo, Stati Uniti compresi), decine di milioni di persone si troveranno sul lastrico a fare la fame.
Le prospettive nei prossimi decenni sono disastrose. L’emergenza ambientale ci pone di fronte a scelte tardive (ma perché, negli ultimi cinquant’anni non si è fatto nulla?), molto costose e impopolari.
Quella stessa gente che oggi invoca per le strade e le piazze che i politici si decidano, subito, a prendere provvedimenti, saranno lì, domani, con altri cartelli, a chiedere pane, lavoro, riscaldamento. Solo che non saranno poche migliaia di disinformati: ma milioni.
Al G20 di Roma si è deciso di piantare alberi in tutto il mondo. Una bella iniziativa, utile, ma quanto? C’era, fra i presenti, Bolsonaro, il Presidente brasiliano che non crede al Covid (e intanto seicentomila Brasiliani ci hanno perso la vita), che ha fatto emigrare in territori aridi o malsani le tribù amerindie, che ha tagliato ampie porzioni della foresta amazzonica per favorire lo “sviluppo” industriale del Paese (che va a carbone) È credibile tutto ciò?
Nell’ultimo anno, la scarsità del gas naturale, anche per ragioni politiche dovute ai non buoni rapporti di Putin con l’Unione europea, ne ha fatto decuplicare il prezzo, in Europa e in Asia. Ciò costringe l’industria a ripiegare sull’uso di una fonte d’energia “più inquinante”, il carbone, il cui prezzo, a sua volta, di fronte all’aumento massiccio della domanda, è cresciuto ininterrottamente nelle ultime ventiquattro settimane (il prezzo del carbone australiano “Newcastle thermal”, che guida il mercato del fossile, è cresciuto del 400% in un anno, e con un tasso d’incremento settimanale del 12%!).
A fronte dell’aumento dei prezzi dell’energia, l’alternativa nucleare è un altro spettro, invocato da alcuni, nonostante i disastri nucleari giapponesi e russi (quando l’Ucraina era Unione Sovietica), che sono nella memoria di tutti. Terrorizzano. Per fare nuovi impianti occorrono almeno quindici anni, con costi enormi e rischi continui. Basterà pensare alle scorie nucleari, che sono già un problema enorme. Anche questa è un’alternativa, ma drammaticamente pericolosa.
In buona sostanza, se l’emergenza ambientale è tale come si profila, c’è pochissimo tempo per provvedere, affrontando pericoli enormi. Nessun governo può permettersi di chiudere il proprio sistema industriale da un giorno a un altro.
Questo è il vero dilemma dell’alternativa. O affrontare una rivoluzione planetaria o monitorare ciò che sta avvenendo sulla terra e prendere di volta in volta, misure di adeguamento progressivo. Non ci sono altre soluzioni possibili, con buona pace della Greta Thunberg.