Pulci di notte

di Stefano Lorenzetto

Nella rubrica che tiene sulla Repubblica, Concita De Gregorio commenta, a proposito del rapimento di Aldo Moro, «il fatto che una casa d’aste metta al bando l’originale del volantino numero uno delle Br». Il verbo corretto doveva essere bandisca. Per Lo Zingarelli 2022 la locuzione mettere al bando significa infatti «condanna, specialmente di esilio, proclamata in pubblico» e per il Devoto-Oli anche, in senso figurato, «allontanamento da una comunità».

«È in atto la tenace resistenza di forze, politiche e sociali, ma anche di abitudini, così radicate, così incistite, da non potere essere non dico eliminate (il che sarebbe impossibile) ma nemmeno seriamente ridimensionate», avverte Angelo Panebianco nel suo editoriale di prima pagina sul Corriere della Sera. Con tutta la considerazione dovuta alla cistite, infiammazione assai dolorosa, il plurale femminile del participio passato di incistare è incistate, non incistite.

Nel Tg1 di massimo ascolto (ore 20), la conduttrice Emma D’Aquino ospita in studio la sua collega Giorgia Cardinaletti per «capire e spiegare bene» l’accordo «importante» con le farmacie sulle mascherine Ffp2. Cardinaletti, agitando trionfante un dispositivo di protezione, annuncia che «il prezzo calmierato sarà di 0,75 centesimi». O la telegiornalista non ha capito oppure non sa spiegarsi bene: 1 euro equivale a 100 monete da 1 centesimo, quindi 0,75 centesimi sono tre quarti di 1 centesimo. Il prezzo delle mascherine calmierate è invece di 75 centesimi, quindi tre quarti di 1 euro. Senza lo zero e senza la virgola. Per capirci meglio, il 10000 per cento in più rispetto a quanto annunciato da Cardinaletti.

Il coltissimo Mephisto Waltz nell’omonima rubrica sul Sole 24 Ore riporta, in una forma aggiornata, un vecchio scherzo sugli auguri natalizi degli avvocati (anglosassoni o che se la tirano per apparire di quel tipo). Solo che trascrive senza fare una piega anche l’espressione «celebration of the summer solstice holidays». Summer? Ma vive agli antipodi? Siamo in inverno, mica in estate. Avrebbe potuto (dovuto) sottolinearne l’incongruenza solstiziale, rettificando in «winter solstice holidays».

Pietro Senaldi, condirettore di Libero, intervista Paolo Mieli sull’imminente elezione del nuovo capo dello Stato e gli fa pronunciare la seguente frase: «Diciamo che per la par destruens i calcoli sono giusti, per quella construens invece sono folli». Me par sbaglià, come diciamo invece dalle nostre parti. E la colpa non può essere certo attribuita all’ex direttore del Corriere della Sera, il quale anni fa ebbe a dichiarare: «Una citazione latina sbagliata in un discorso o riportata erroneamente in un articolo dovrà diventare un’onta perenne, un guaio peggiore di un avviso di garanzia». Si scrive pars destruens, come Mieli ben sa (ma Senaldi no).

Nel suo editoriale in prima pagina, Stefano Feltri, direttore di Domani, ricorda: «Nel febbraio 2021 Mattarella ha spiegato che non si poteva votare per il Covid». Il virus era ineleggibile? Spostandosi subito a destra, l’occhio cade su questa didascalia: «Mario Draghi sembra ormai alla fine della sua corsa, con i partiti della maggioranza già rompono le fila mentre lui è ancora a palazzo Chigi». A parte il «che» mancante dopo «maggioranza», di norma si rompono, si serrano o si disertano le file, essendo fila il singolare e file il plurale.

I titolisti dei giornali spesso lasciano a desiderare, ma quelli che lavorano per il cinema sono anche peggio. In occasione della morte del protagonista di Indovina chi viene a cena?, Sidney Poitier, nessuno dei primi si è chiesto che cosa c’entri quel punto interrogativo che i secondi hanno infilato 55 anni fa nel titolo italiano del film di Stanley Kramer. «Indovina chi viene a cena?» è una domanda che postula la presenza di una terza persona singolare sottintesa («Lei indovina chi viene a cena?»), quindi esclude che la moglie Christina Drayton (Katharine Hepburn) possa averla rivolta al marito Matt (Spencer Tracy). Diverso sarebbe stato il caso di un’esortazione, «Indovina chi viene a cena» (sottinteso «tu»). E, se proprio si voleva scomodare un segno di punteggiatura, serviva un esclamativo: «Indovina chi viene a cena!». Controprova: il titolo originale del capolavoro è Guess who’s coming to dinner, senza punto interrogativo. Segno che gli americani sanno scrivere meglio degli italiani.

Il Corriere della Sera annuncia in prima pagina la dipartita di Sidney Poitier con una foto in cui egli regge la mitica statuetta assegnata dall’Accademia statunitense delle arti e delle scienze cinematografiche e con un richiamo che lo qualifica quale «primo attore afroamericano a vincere l’Oscar nel 1967». Non è così: ebbe il premio nel 1964, come miglior attore protagonista de I gigli del campo di Ralph Nelson, uscito l’anno prima. C’è anche il rimando a un commento di Valter Veltroni, vero nome che in effetti si rintraccia sia nella biografia che Paola Salvatori gli dedica sull’Enciclopedia Italiana della Treccani sia nell’archivio storico della Camera, ma che il Corriere non usa abitualmente per il suo illustre collaboratore, che infatti a pagina 35 torna a essere Walter Veltroni, con la W.

Dalla Gazzetta di Mantova: «Si è svegliata di soprassalto nel cuore della notte e ha visto un’ombra al buio china sui cassetti del comò della sua camera da letto. Si è spaventata all’impossibile, ma non ha perso lucidità». A differenza del cronista, dimentico della locuzione all’inverosimile.

SL
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