L’ebreo polacco Simon Laks (1901-1983), pianista e compositore, narra nel suo libro Mélodies d’Auschwitz che verso la fine del 1943 i prigionieri come lui del lager di Auschwitz II-Birkenau “furono autorizzati dal comando tedesco del campo a mandare un messaggio scritto alle loro famiglie. Spinto dal desiderio di far sapere ai miei cari che ero in vita e che questo era l’unico modo di farglielo sapere, scrissi che: ‘Sono in buona salute e faccio il mio mestiere’. Il mio mestiere era quello del musicista”. Quando dopo la liberazione Laks rivide la sua compagna, lei gli “confermò di aver ricevuto la lettera”, ma aggiunse “di non avere creduto che io facessi veramente il mio mestiere, e aveva supposto che lo avessi scritto per metterla tranquilla. Chi, in effetti, avrebbe potuto credere all’esistenza di un lavoro come il mio in un campo tedesco?”.Invece era proprio così, era tutto vero: i campi di sterminio nazisti ebbero una loro musica, vera come le camere a gas, i forni crematori e tutto il resto. Fu intanto una colonna sonora di ribellione e di speranza, declinata nei canti clandestini e nelle composizioni dei detenuti, alcune delle quali di notevole valore. E fu poi la musica infernale connessa agli ordini delle SS, con cui imponevano agli internati di accompagnare con brani musicali le torture, le marce al lavoro e verso le camere a gas. Ad Auschwitz, a Buchenwald, a Dachau, a Terezin, poi, non mancarono la musica delle orchestre di prigionieri, allestite per intrattenere gli aguzzini o per la propaganda nazista. Note che, a volte, potevano persino essere quelle della musica “degenerata” per eccellenza, il jazz, visto che non “erano rari i casi di militari e ufficiali delle SS che amassero il jazz”.Alla colonna sonora dei campi di sterminio, “tormento e motivo di consolazione, ossessione e motivo di speranza”, è dedicato il libro L’ultima nota. Musica e musicisti nei lager nazisti (Marietti 1820, pagg. 328, euro 24) del giornalista e scrittore Roberto Franchini. Tante, quasi tutte tragiche, sono le storie che Franchini racconta. Come quelle di Simon Laks, del violinista gitano Oskar Siebert, di Alma Rosé, la nipote di Gustav Mahler, direttrice dell’orchestra femminile di Auschwitz, morta nell’aprile del 1944; e di Alice Herz-Sommer, che da bambina aveva suonato per Franz Kafka, dei Ghetto Swingers, la jazz band di Terezín, del cantante italiano Emilio Jani. Quest’ultimo, fascista ebreo, emulo di Beniamino Gigli, si salvò proprio grazie alla sua voce. “Sono Emilio Jani di Trieste”, avrebbe ricordato, “mi hanno arrestato a Roma, un tempo facevo il tenore e qui (ad Auschwitz) fortunatamente ho ripreso la professione abbandonata per tentare di salvare la pelle, e fino a ora ci sono riuscito”. In un libro di memorie, scrisse: “Le mie esibizioni canore sono state la mia salvezza e ho la grande soddisfazione di avere risparmiato a più di un compagno, con il mio intervento, ulteriori e più gravi sevizie, sempre in nome del bel canto”.La “grande arte”, disse Thomas Mann, si era alleata durante il nazismo con il “grande diavolo”, cioè Hitler. Del resto, narra Franchini, molte belve naziste amavano la musica, commuovendosi “fino alle lacrime ascoltando sinfonie o romanze d’opera, notturni di Chopin o un brano swing”. Gli assassini “sedevano in prima fila ad ascoltare orchestre e cantanti, gruppi jazz e compagnie di cabaret. Si commuovevano fino alle lacrime, ridevano fino alle lacrime. Poi riempivano i treni e le camere a gas di prigionieri, senza mostrare alcun sentimento, sempre a ciglio asciutto”. Gli esempi, continua Franchini, “sono numerosi e a tutti i livelli della gerarchia militare. Per esempio, Perry Broad, funzionario della Gestapo del campo di Auschwitz-Birkenau, era un virtuoso del jazz, che conosceva a memoria tutti i successi americani”. Con “la sua fisarmonica raggiungeva la baracca dell’orchestra e si metteva a suonare insieme a un quintetto (violino, clarinetto, tromba, trombone e percussioni), oppure si lasciava andare ad assoli pieni di passione. Broad, poco più che ventenne, era capace di apprezzare le capacità di un musicista per poi mandarlo a morte alla prima occasione. Nel dopoguerra venne arrestato e riconosciuto colpevole per aver partecipato a torture e uccisioni”.
Anche il comandante di Birkenau, Josef Kramer, era un appassionato di musica. Fania Fénelon, musicista dell’orchestra di Birkenau, rammenta: “I violini attaccano. Herr Lagerführer tiene gli occhi chiusi, si lascia assorbire completamente dalla musica. La grande Irene attacca il suo assolo di violino. Suona benissimo. La malinconia che mette nell’esecuzione deve toccare il cuore del comandante. Qualche nota prima della fine del pezzo, Kramer riapre gli occhi: sono velati di pianto. Si lascia andare all’emozione e, sulle guance scrupolosamente rasate, scendono le lacrime”.