“Macché riforme: vendetta del potere contro i giudici”Inaugurazione. A Palermo Nino Di Matteo duro sulle leggi Cartabia; Ardita a Reggio Calabria: “Il garantismo tuteli prima i deboli, non i boss”

Critiche alla politica che si vuole “vendicare” della magistratura con riforme e referendum “discutibili”. Autocritica per “il male oscuro” del carrierismo che ha pervaso le toghe. Nino Di Matteo, consigliere del Csm, non fa sconti a nessuno e non le manda a dire sullo stato della giustizia in occasione dell’inizio dell’anno giudiziario, che ieri si è aperto nelle Corti d’appello italiane. Il magistrato era nella sua Palermo, dove per 18 anni è stato tra i protagonisti di inchieste e processi contro Cosa Nostra e sulla trattativa Stato-mafia. Sulla politica giudiziaria, Di Matteo denuncia: “Stiamo vivendo una profonda crisi di credibilità nella quale parte del potere politico, economico, finanziario vuole oggi approfittare per avviare un vero e proprio regolamento di conti contro quella parte di magistratura che ha inteso esercitare a 360 gradi il controllo di legalità”. Per il consigliere si tratta di “un regolamento di conti con chiare finalità di vendetta da un lato e di prevenzione dall’altro, con il malcelato scopo di rendere l’organo giudiziario, anche attraverso progetti di riforma e iniziative referendarie assai discutibili, collaterale e servente rispetto agli altri poteri”.Sulla riforma penale della ministra Marta Cartabia, Di Matteo ricorda che il Csm “ha anche evidenziato i numerosi e rilevanti profili di criticità sia di ordine sistematico che di possibile frizione con principi di rango costituzionale, con particolare riferimento all’istituto della improcedibilità” in appello e Cassazione se si superano i tempi prestabiliti per il giudizio. E ai suoi colleghi magistrati chiede di coltivare “la pretesa che il Csm funga da scudo contro quegli attacchi all’indipendenza della magistratura che vengono mossi dall’esterno e dall’interno dell’ordine giudiziario”. Cosa niente affatto scontata, dato che “quello che è appena trascorso non è stato un anno facile. Il Csm sta ancora affrontando l’onda lunga dei ripetuti scandali emersi, a partire dall’inchiesta della Procura di Perugia (sullo scandalo Palamara, ndr), che rappresentano uno spaccato di una patologia che si è diffusa come un cancro, con la prevalenza di logiche di clientelismo, appartenenza correntizia o di cordata, collateralismo con la politica”.

Critiche alla riforma Cartabia sono arrivate anche dai due distretti calabresi. Il presidente della Corte d’appello di Catanzaro Domenico Introcaso sostiene che “è necessario intervenire sul ‘sistema giustizia’ e non su un singolo parametro, il tempo, con un intervento estraneo e formale di risoluzione delle criticità fatto con l’accetta”. Cento chilometri più a sud, a Reggio Calabria, è intervenuto il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, con in prima fila il ministro della giustizia Marta Cartabia. Ardita ha criticato la riforma del Csm, “una complessa e pericolosa sfida per governo e Parlamento”. Poi si è scagliato contro “l’adozione di un sistema maggioritario uninominale o binominale con collegi medio-piccoli” che genererebbe “bipolarismo, conflittualità e un governo politico della giustizia” e consegnerebbe “la vita professionale dei magistrati al sistema di potere delle correnti”. Cartabia, da parte sua, ha auspicato che la riforma del Csm arrivi “al più presto” alle Camere, pur dichiarandosi disponibile all’ascolto “di critiche propositive e non meramente demolitorie”. Il riferimento è proprio ad Ardita che, invece, attacca anche sulla presunzione di innocenza: senza mai nominarlo, critica il decreto che a dicembre ha di fatto messo il bavaglio ai procuratori e alla stampa: “C’è bisogno di garantismo, ma deve essere un garantismo che parta dal basso, che riguardi i più deboli, che non si presti a essere utilizzato da chi comanda nella dimensione del crimine mafioso, della grande finanza, o delle responsabilità pubbliche e istituzionali”. Un punto toccato anche dal pg di Genova Roberto Aniello, secondo cui quella sulla presunzione d’innocenza “non è una legge bavaglio”, ma “probabilmente incorre in un eccessivo irrigidimento delle modalità di comunicazione”.

A Milano, la cerimonia è apparsa quasi surreale: dentro il palazzo di giustizia che vide, 30 anni fa, la nascita di Mani pulite, si è consumato negli ultimi mesi un conflitto mai visto prima. Ma ieri sembrava di essere, tuttalpiù, a un tranquillo convegno giuridico. La relazione del presidente della Corte d’appello, Giuseppe Ondei, trabocca di inutili riferimenti colti, da Husserl a Lyotard, e di panglossiani entusiasmi per le riforme in corso oggi, “momento kairologico”, con l’arrivo salvifico dei soldi del Pnrr (ma neanche un euro per le Procure che fanno le indagini, ha ricordato il procuratore generale Francesca Nanni, e bavaglio all’informazione – aggiungiamo – travestito da “presunzione d’innocenza”). Entusiasmo appena scalfito dalle dure cifre (per esempio: il 42% della popolazione carceraria qui è composto da stranieri). Solo la rappresentante del Csm, Alessandra Dal Moro, osa rompere l’incanto, citando la drammatica crisi morale della magistratura dopo il caso Palamara, il correntismo da battere e i problemi reali da risolvere, con il 13% dei posti da magistrato scoperti e con una riforma (Cartabia) che crede di abbreviare i processi cambiando il nome della prescrizione in improcedibilità. “Una norma che decreta la morte del processo”, ha detto a Torino il pg Francesco Saluzzo. Aggiungendo: “Penso e spero che la Corte costituzionale avrà modo di interloquire su questo istituto”.

FONTE:

23 GENNAIO 2022