*Il rottamatore di se stesso*

di Vincenzo D’Anna*

Ricordate Matteo Renzi? si affacciò alla ribalta politica nazionale nei primi anni del Terzo Millennio quando volle intestarsi la battaglia di rinnovamento della classe dirigente del Pd: una sorta di palingenesi politica, la sua, per un movimento che, pur tra molti cambiamenti di simboli e sigle, si era trascinato appresso negli anni una buona parte di arcinota e datata classe dirigente. Il discorso di Renzi era chiaro, e per taluni versi affascinante: bisognava rottamare uomini e mentalità di un partito, quello del Nazareno, nato a vocazione maggioritaria come surrogato di un’esperienza liberal democratica che cestinava le vecchie incrostazioni del socialismo e del cattolicesimo democratico, le due aree politiche confluite nella creatura che Valter Veltroni aveva presentato al Lingotto di Torino come un prodotto nuovo di zecca. Riforme a tutto spiano, quelle prospettate, per eliminare le scorie ideologiche della prima repubblica sopravvissute nel tempo del maggioritario e dell’alternanza di stampo anglosassone che caratterizzava la seconda repubblica.

Il giovanotto era sveglio e scaltro, la parlantina fluente, ampia la dose di perspicacia accompagnata da un’ancor più ampia ambizione, quella di rinnovare i ranghi e le personalità politiche che un tempo erano stati i dominus dei dem. Non ci sarebbe stato scampo per le vecchie liturgie, nulla per la premiata ditta di Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema e per la pattuglia degli ex democristiani, ovvero Romano Prodi ed i suoi accoliti. Col beneplacito di questi stessi, forse per uno stato di necessità, nelle vesti di un puro più puro che epura, Renzi riuscì effettivamente a strappare dalle mani degli ex e dei vetero comunisti il controllo del Pd. Sull’onda di questi presupposti il consesso crebbe e le elezioni europee confermarono che il giovanotto di Rignano poteva contare su di un cospicuo consenso elettorale per tentare la rivoluzione copernicana. I fatti che sono seguiti hanno, tuttavia, deluso gli elettori e decretato una certa antipatia verso l’ei fu “rottamatore”, anche ben oltre i propri demeriti. La simpatia si trasformò, infatti, in astio e la spigliata facondia verbale divenne cacofonia alle orecchie di vasti strati della popolazione. La delusione nasceva dalle mancate realizzazioni dei propositi di rinnovamento della prassi politica e della costruzione, su basi moderne, di un partito veramente riformista. Neanche l’oltre 40 per cento dei consensi comunque riscossi anche nel referendum costituzionale che pure ne sancì la sconfitta politica, convinse il giovane di Rignano a tentare la possibilità di mettere insieme i riformisti di ogni colore, per apprestarsi a cambiare dalle fondamenta il sistema istituzionale e parlamentare, ammodernare la funzione e la presenza pervasiva dello Stato e della burocrazia. Insomma la logica del piccolo cabotaggio, la furbizia di credere d’essere il più attrezzato per dominare la scena, presero il posto di un’idealità propositiva votata a più vasti orizzonti di riferimento. Fu così che Renzi si ritrovò a capo di un partitino – Italia dei Valori – avendo ottenuto, in precedenza, una manciata di posti nelle liste parlamentari (ed una quarantina di onorevoli). Pur con le ridotte schiere di seguaci seppe ben districarsi per scansare l’astio e la voglia dei nuovi dirigenti dem che lo volevano morto, identificandolo come la causa vera e prima del declino del partito. Entrato nei governi con Giuseppe Conte presidente del consiglio dei ministri, quelli di centrodestra e di centrosinistra, Renzi è sopravvissuto alla presidenza Draghi ed al governo tecnico politico di unità nazionale. E tuttavia il ruolo a cui aspira, quello di king maker della politica italiana, è tramontato essendo in campo leader con ben maggiore seguito parlamentare. Se la furba ambizione non lo condizionasse si sarebbe reso conto che i numeri di cui dispone gli assegnano un ruolo di valore aggiunto tra due blocchi che si fronteggiano e si sgambettano senza poter contare , né gli uni né gli altri, su di una maggioranza autosufficiente. Nossignore, Matteo Renzi non abbassa le vele e continua col suo tourbillon parolaio a voler recitare il ruolo di colui che determina gli eventi politici. E così si conferma in quel ruolo anche nel caso dell’elezione del nuovo capo dello Stato. Né il centrodestra né tantomeno il centrosinistra gli riconoscono primogeniture e titoli per “dettare la linea”, ma egli, imperterrito, sembra non curarsene. Eppure i suoi voti aggregati a quelli del centrodestra raggiungerebbero la soglia di sufficienza per eleggere il Presidente della Repubblica. Un centrodestra che non ha il nerbo di giocarsi la carta di Marcello Pera con la disponibilità di Renzi, potrebbe anche ben concretizzare questa soluzione! Renzi invece si avventura in mille tatticismi e rinuncia ad essere determinante numericamente. Come in passato, finirà per rottamare solo se stesso.

*già parlamentare