1956, Aversa  – Uccise il suo amante con il quale aveva  avuto una figlia poi sottoposta a continue vessazioni si ribellò. La storia di un amore di una lavandaia con tanti sogni nel cassetto.

 Avv. Ciro Maffuccini 

Il Dr. Michele Esposito, Pretore del Mandamento di Aversa, il 15 dicembre del 1956 alle ore 16 e 40 si vide costretto ad emettere un ordine di arresto per omicidio nei confronti di Virginia Vegliante, di anni di anni 28, nativa di Giugliano ma  residente ad Aversa,  la quale nella mattinata aveva cagionato la morte del suo amante,  Pasquale Mastrogiacomo, esplodendogli contro la tempia destra, a distanza di circa cinque centimetri, un colpo di pistola riducendolo in fin di vita. L’uomo morirà nella nottata presso il nosocomio di Aversa.

Alberto La Sala, comandante della Stazione dei Carabinieri di Aversa si premurò, prima di accompagnare la donna al carcere per metterla a disposizione  del magistrato inquirenti,  di interrogarla sull’accaduto.

Sono circa tre anni che conosco il mio attuale amante Pasquale Mastrogiacomo, lo conobbi in Giugliano in Campania ove gestiva una lavanderia presso la quale lavorai un tempo come apprendista che mi consentì – dopo qualche anno – di aprire una mia attività di lavanderia in Mugnano di Napoli. Divenne il mio amante ed iniziammo una convivenza ‘more uxorio’.  Da circa tre quattro mesi il Mastrogiacomo mi ha percosso – anche senza ragione – e mi ha sottoposto ad ogni sorta di umiliazione. Quattro mesi fa ho avuto un bambino con lui e da quella data sono diventata intollerante alle percosse e alle sevizie cui mi sottoponeva. Alla mie proteste lui replicava che prima o poi mi doveva uccidere. Ho poi saputo con raccapriccio che lui molti anni addietro aveva commesso un omicidio uccidendo la suocera  per strangolamento (era separato dalla moglie) e che fu condannato a 10 anni di carcere ma per l’avvento dell’ arrivo dei tedeschi fu liberato con notevole anticipo”.

“Ieri sera appena è rincasato  è andato in escandescenze ed ha estratto dalla tasca una pistola. Mi spaventai moltissimo ma mi coricai e per precauzione mi strinsi il mio bambino anche per non farmi ‘disturbare’ dal Mastrogiacomo  il quale ogni sera pretendeva di possedermi contro natura. Lui posò la pistola sul comò e si addormentò. Questa mattina di buonora il bambino si è svegliato e lui subito ha detto di metterlo nella culla io gli ho detto che mi sarei vestita per andare in lavanderia e lui ha risposto “fai quello che vuoi e vattene”. Poi si è riaddormentato. Allora io ho preso la pistola mi sono avvicinato e gli ho sparato un colpo alla testa. Ho poi preso il bambino e la pistola e sono scappata. Volevo andare a Pompei per lasciare il mio piccolo all’orfanatrofio poi non ho avuto la forza e mi sono costituita presso di voi”. 

 

Fu ipotizzato il concorso del fratello Antonio poi scagionato in  istruttoria – Il mistero della provenienza dell’arma del delitto. Sottoposta a maltrattamenti e violenze consistenti in percosse, ingiurie, congressi carnali contro natura e minacce di morte.

 

Virginia Vigliante venne rinviata al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere per rispondere di omicidio e nel corso del dibattimento vennero alla luce altri sconcertanti retroscena che avevano armato la sua mano arrivando ad uccidere il suo amante. Apparì chiaramente che la vittima anni prima era stato condannato per avere strangolato la propria suocera e dimesso dal carcere aveva abbandonato la moglie Antonietta Caruso,  residente ad Andretta (Bari) e si era messo a convivere con tale Antonietta Di Roma in Giugliano. Poi aveva abbandonato anche la Di Roma nonostante la medesima, durante la loro convivenza durata ben nove anni, avesse procreato tre creature ed infine si era unito alla Virginia Vegliante che ben presto aveva preso a maltrattare come confermato in udienza da Vincenzo Della Volpe, Luigi Baldi, Rosa Romeo, Nicolina Feola. Augusto Ricco, Raffaelina Lepore, Elvira Zampella, Maria Rosa Romeo e Ada Ricci.

 

I giudici si convinsero che l’omicidio era stato consumato solo dalla Vegliante anche se i carabinieri avevano adombrato un concorso nel delitto del fratello Antonio specialmente per il reperimento dell’arma. Traevano la  convinzione dei loro sospetti anche dal fatto che il fratello di Virginia era tornato da Trento (ove aveva prestato il servizio militare di leva) a Giugliano in Campania (ironia della sorte, sic!) proprio la mattina del delitto; ed inoltre i carabinieri in sede di sopralluogo sulla scena del crimine avevano rinvenuto una lettera a firma di Antonio, diretta alla sorella che conteneva minacce di morte per lei  e per il suo losco amante. Antonio Vegliante, però, rigettò con veemenza tale infamante accusa sia di concorso nel delitto e sia di essere lui la persona che aveva procurato la pistola alla sorella.

Ma la Virginia Vegliante nel corso degli interrogatori – prima dei carabinieri, poi da parte del Pretore, poi del Giudice Istruttore ed infine, in udienza, dai magistrati della Corte di Assise cadde in numerose contraddizioni. Questo rese quasi ‘non veritiere’ le sue deposizioni. Cambiò spesso il ‘modus operandi’ del delitto, la provenienza dell’arma, i preparativi prima del delitto e quelli posti in essere successivamente. La prima volta disse di aver preso l’arma del delitto sopra al comò; poi invece precisò che l’aveva sottratta alla vittima nella colluttazione.

Frattanto il Giudice Istruttore emise anche nei confronti del fratello Antonio un ordine di cattura per concorso nel delitto il quale, però, si sottraeva dandosi alla latitanza. Ma successivamente  e fortunatamente – su conforme parere del pubblico ministero – in sede di sentenza – il G.I. scagionava Antonio Vegliante dal concorso in omicidio ma rinviava – come detto – al vaglio della Corte di Assise la Verginia per omicidio volontario premeditato.

     

Fu accertato da parte dei giudici che nella convivenza more uxorio tra la Virginia e la vittima la donna era stata sottoposta a maltrattamenti e violenze consistenti in percosse, ingiurie, congressi carnali contro natura, minacce di morte. In particolare l’ostetrica Ada Ricci – presentatasi spontaneamente ai carabinieri appena appreso del delitto  – riferì che durante l’assistenza prestata alla Vegliante in occasione del suo parto, avvenuto alla fine dell’agosto del 1956, ricevette da lei confidenze in odine a congiungimenti carnali contro natura ai quali veniva sottoposta e si rese personalmente conto che essa già al terzo giorno dopo il parto fu costretta dal Mastrogiacomo ad alzarsi e a lavorare e veniva spesso dal medesimo disprezzata, minacciata, percossa, inviata ad andarsene, e lasciata senza sufficiente vitto e senza neppure i mezzi per procurarsi le più indispensabili cure. Ma vi è di più. Delle percosse che la Vegliante subiva furono rilevate tracce (ecchimosi in varie parti del corpo rimontanti a giorni prima) al momento della sua costituzione.

La donna  condannata a 17 anni  di reclusione ridotti in appello a  9. Concesse le attenuanti generiche e quelle della provocazione. Negata l’attenuante del valore morale e sociale del delitto.   

 

Nel corso del dibattimento la Vegliante energicamente ribadì la tesi della legittima difesa rigettando l’ipotesi dell’omicidio premeditato e ribandendo – ancora una volta – che si era impossessata dell’arma nel  corso della colluttazione con l’amante che impugnava l’arma per ucciderla e precisò che sveva fatto fuoco per difendersi senza l’intenzione di uccidere.  Per quanto riguarda l’arma del delitto i giudici ritennero che era della donna e che lei evidentemente se l’era procurata proprio per servirsene per uccidere il Mastrogiacomo. Ne sono prove: l’apprestamento dell’arma, almeno fino al giorno precedente per commettere il delitto (il preventivo studio delle attività successive al delitto)  – la intenzione del ricovero del figlio all’Orfanotrofio di Pompei doveva rimontare a tempi prima. L’imputata – ribadì la Corte – va condannata per omicidio volontario premeditato. Ma poiché è fuori luogo che il delitto fu commesso nello stato d’ira determinato nella Vegliante da un comportamento ingiusto del Mastrogiacomo ( costui aveva sì diritto a troncare la tresca, salvo naturalmente a provvedere per l’allevamento del piccolo nato dalla illegittima unione, ma non aveva comunque  il diritto di perseguire il suo scopo con gravi maltrattamenti) ne consegue che deve applicarsi l’attenuante della provocazione. La Corte pertanto stimò di concedere alla Vegliante anche le attenuanti generiche in quanto ella fu tratta al delitto anche da un particolare stato d’animo di angustia profonda derivato in lei dalla constatazione che, essendo stata già ripudiata dalla propria famiglia e venendo ora respinta anche dall’uomo al quale aveva dedicato la vita,  rimaneva priva di ogni  avvenire e di ogni assistenza proprio quando, essendo divenuta madre ne aveva maggiormente bisogno. La Corte, però, negò l’attenuante per ‘aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale’ che sarebbe stata assai determinante ai fini  del conteggio della pena da infliggere.  La Corte, (Eduardo Cilento, presidente; Guido Tavassi, giudice a latere; pubblico ministero, Gennaro Calabrese) stimò infliggere per l’omicidio in luogo della pena dell’ergastolo la pena di anni 20 di reclusione e di ridurre inoltre detta pena per le attenuanti generiche ad anni 17 di reclusione. La sentenza venne appellata e la difesa della Vegliante affermò nei motivi che quel ‘quid pluris di dolo’ era l’assenza della premeditazione (si chiedeva quindi di escludere l’aggravante della premeditazione); ma non solo, si insistette nella concessione delle aggravanti del motivo morale e sociale (escluso dai primi giudici). È stata negata perché  – chiarirono i difensori nei loro motivi di appello –  non costituirebbe motivo di particolare valore morale l’azione di una donna che agisce per rompere una tresca con un uomo legato da precedente matrimonio.  Si era fatto presente che la donna aveva voluto reagire alle sevizie sessuali sadiche e contro natura, che voleva liberarsi dai ceppi della schiavitù,  nella quale viveva,  che non volle più le sue carni dilaniate da colpi di cinghia, che voleva uscire da una prigionia morale e materiale cui l’aveva legato un criminale. La giurisprudenza riconosce alla vedova che uccide l’amante detta attenuante,  condanna per maltrattamenti un uomo che si comporta come il Mastrogiacomo, la letteratura si indugia benevolmente verso donne che hanno avuto la sorte della Vegliante.  In ogni caso  – conclusero i difensori in sede di appello – si chiede la riduzione della pena al minimo. Mai persona fu provocata come la Vegliante, mai la genesi del delitto trova un’umana comprensione come nel caso di specie. La moglie del Mastrogiacomo, il padre, i fratelli perdonarono la Vegliante –  non si costituirono parte civile – ed ebbero un atteggiamento processuale di condanna per i sistemi infami del loro familiare – che non ci si dimentichi – aveva già strangolato la vecchia suocera della prima moglie. La donna ha un bambino è stata vittima di un criminale ed ha avuto anch’essa un comportamento processuale esemplare. La supplica venne accolta dai magistrati della Corte di Assise di Appello di Napoli che ridussero la pena a nove anni di reclusione. Nel processo furono impegnati  gli avvocati:  Ciro Maffuccini, Nicandro Siravo, Luigi Palumbo e Attilio Pianese.