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1956, Castelvolturno. Un omicidio e un tentato omicidio per causa d’onore. Uccise il guardaspalle del suo seduttore che stava convolando a giuste nozze con una ragazza di Mondragone. Una delle vittime era il direttore del Centro Sperimentale dell’Università Agraria di Portici di Ferdinando Terlizzi
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1956, Castelvolturno. Un omicidio e un tentato omicidio per causa d’onore. Uccise il guardaspalle del suo seduttore che stava convolando a giuste nozze con una ragazza di Mondragone. Una delle vittime era il direttore del Centro Sperimentale dell’Università Agraria di Portici di Ferdinando Terlizzi
Il 1° giugno del 1956 i carabinieri vennero informati che, alle ore 7 presso il “Campo Sperimentale dell’Università di Portici”, sito in agro di Castelvolturno, era stato ucciso un guardiano e ferito il direttore del Centro, Giuseppe Budetta, perito agrario e all’inizio della strada si trovava il cadavere di un uomo. Quindi i militi venivano a conoscenza che a sparare era stata Angelina Palazzo, di anni 19 abitante poco lontano dal luogo del delitto; arrivati nell’abitazione della donna la stessa fu tratta in arresto e condotta in caserma. Il cadavere venne identificato per quello di Francesco Tummolo di anni 60. Accanto al cadavere una pistola Beretta Calibro 42 con il caricatore infilato e con la canna rivolta verso il centro della strada; poco distante – quasi al centro della strada – v’era a terra l’asta di fissaggio del tamburo di una rivoltella; a circa due metri dal cadavere, sull’argine destro della stradella, vi era il berretto del cadavere, di color grigio, lacerato dalla parte posteriore destra; più innanzi, a circa 90 metri dal cadavere, precisamente prima della curva, rispetto a chi proviene dal campo, vi era per terra una bicicletta da uomo appoggiata sul fianco sinistro e col manubrio rivolto verso il fiume. Terreno calpestato (segno di una colluttazione) e copiose macchie di sangue in ogni dove.
Ai carabinieri – secondo le prime indagini – era risultato che a sparare assieme alla ragazza vi era un uomo (si accertò poi trattarsi del padre della giovane che aveva commesso l’omicidio) il quale però si era reso latitante. La moglie di quest’ultimo Cecilia Sammarco dichiarava che il marito si era di buon’ora recato a Caserta presso la Cassa Mutua per riscuotere delle somme.
Nello stesso tempo i carabinieri si recarono presso la Clinica “Salus” di Mondragone ove era stato ricoverato per ferite da arma da fuoco Giuseppe Budetta, di anni 31, da Montecorvino Rovella (Salerno), direttore del Campo Sperimentale presso l’Istituto di Chimica Agrario di Castelvolturno, il quale interrogato dichiarava che in seguito ad una colluttazione con una ragazza a nome Angelina Palazzo, spalleggiata dal padre, oltre a riportare escoriazioni da graffiamento era stato attinto al naso. Si appurò anche il padre della ragazza, Ignazio Palazzo aveva esplose un colpo di fucile all’indirizzo di Francesco Tummolo, guardia del corpo del direttore dell’Agraria uccidendolo sul colpo.
E’ agevole seguire il calvario della povera ragazza dal giorno in cui il Budetta la piegò alle sue voglie fino a quando esasperata dal dolore, rispondeva col fuoco della sua arma all’ultima umiliazione inflittale dal suo persecutore. Nessun dubbio infatti può sorgere sul fatto che il Budetta, abusando del suo ascendente, come direttore dell’azienda nella quale la ragazza lavorava in qualità di bracciante, ne approfittò nelle circostanze di tempo e di 1uogo rilevate poi dalla Palazzo.
Mentre le donne della famiglia Palazzo cercavano di sedare lo scandalo tra continui rifiuti ed umiliazioni – invocando l’intervento di conoscenti ed amici – ed unendo a sommesse insistenze innocue minacce tipiche della levatura e della mentalità del loro ambiente, ma certamente non rivelatrici di un intento criminoso, il Budetta prendeva le sue contromisure dando chiaramente ad intendere di voler avallare, anche con la violenza, il suo gesto di Don Giovanni da strapazzo. Non pago infatti di aver minacciato il vecchio nonno della ragazza, Antonio Palazzo egli provvedeva a munirsi di una guardia del corpo nella persona di Francesco Tummolo: col che egli chiaramente mostrava di non esservi più luogo a pacifiche spiegazioni e chiarimenti. Lo scopo dell’assunzione del Tummolo, in effetti, più che dalle parole di Benito Palazzo e dal temperamento della famiglia (era pendente presso l’ufficio istruzione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere un processo per tentato omicidio a carico di Giovanni Tummolo figlio del defunto Francesco ) emerge chiara data data di assunzione: dieci giorni dopo che a mezzo di Vincenzo Perone il Budetta aveva saputo ormai scoperta la sua relazione con Angelina. Infine, gli stessi carabinieri che trassero in arresto l’Angelina sentirono la necessità di richiedere al Pretore di Capua l’autorizzazione al fermo per l’interrogatorio dell’Ignazio con gli altri familiari.
La difesa chiese la rinnovazione parziale del dibattimento, un accesso della Corte sul luogo del delitto.
A due anni dal delitto, il 30 gennaio del 1958, il giudice istruttore Vincenzo Cimmino – su parere conforme del pubblico ministero Sostituto Procuratore della Repubblica Vincenzo Adami – depositò la sua sentenza chiedendo il rinvio a giudizio, innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere per Ignazio Palazzo (padre) e Angelina Palazzo (figlia), entrambi ristretti nelle carceri, accusati di concorso in omicidio e tentato omicidio premeditato e continuato. A nulla erano valsi gli sforzi della difesa per dimostrare che il padre non aveva preso parte al delitto.
Il giudice istruttore poi confutò la tesi della difesa sul colpo sparato col fucile che uccise il Tummolo (gli inquirenti erano convinti che sul posto vi fosse anche il padre) mentre la ricostruzione del delitto riportato dalla ragazza non era credibile per ragioni logiche e balistiche. Infatti il G.I. si rifece molto alle fotografie scattate dai carabinieri sulla scena del crimine che raccontavano modalità di esecuzione diverse da quelle descritte dalla Angelina Palazzo. Il giudice era comunque convinto che la ragazza non sarebbe stata in grado di portare a termine da sola il delitto ed anche volendo ipotizzare che il padre non avesse partecipato (aveva l’alibi di essere andato a Caserta) è ipotizzata, comunque, la presenza di un ‘terzo uomo’.
Infatti solo se questi avesse immobilizzato il Budetta la Angelina avrebbe potuto indirizzare la pistola al volto del suo seduttore. Può darsi anche che Ignazio Palazzo abbia sparato al Tummolo perché questi aveva messo mano alla pistola come è stato poi riscontrato dal sopralluogo degli inquirenti sulla scena del crimine. Non importa sapere – precisò ancora il giudice istruttore – se lo avrebbero ucciso quel che conta sapere è se l’uccisione fu premeditata. Prevista la presenza del Tummolo, predisposti i mezzi per neutralizzare l’eventuale intervento di lui nella questione tra i due giovani la morte del Tummolo fu certamente posta nel preventivo dell’azione – anche se gli autori sarebbero stati disposti ad evitarla qualora egli si fosse tenuto in disparte.
Esisteva Dunque nella mente dei due imputati un preciso definitivo chiaro disegno criminoso che importava l’uccisione del Budetta e quella seppur eventuale del Tummolo. Non si può pertanto non procedersi all’unificazione delle imputazioni sotto il vincolo della continuazione. La difesa di parte civile ha insistito perché si acclarassero eventuali attività concorsuali di altri soggetti particolarmente di Gennaro Palazzo.
L’istruttoria che il magistrato ha condotto con scrupolosa cura, ha scandagliato ogni anfratto, ha analizzato ogni particolare, a seguito tutte le piste. Ma il requirente, in verità, non ritiene che questo intenso e approfondito ‘lavorìo’ abbia consentito di raggiungere quelle ‘sufficienti prove’ che sono necessarie per il rinvio a giudizio o quelle ‘insufficienti’ cui consegue il proscioglimento con formula dubitativa. Si è penetrati nel campo dei sospetti ma non si è varcato il confine della prova.
E’ vero il Tummolo fu avvertito dai Palazzo affinchè non intralciasse l’iter della preordinata vendetta. Ma è troppo poco per fondervi il convincimento che Gennaro Palazzo e gli altri sospettati abbiano moralmente partecipato al crimine. L’atmosfera della vendetta si respira in casa Palazzo, ma ciò non significa che gli avvertimenti, le minacce, le intimidazioni, fatte pervenire al Tummolo rappresentino il preannuncio di un proposito, già maturato, e non, piuttosto, un invito rivoltogli – stanti i rapporti di affinità – per sua sicurezza.
Sapevano i Palazzo della risoluzione presa dai due imputi – ma si può superando l’azzardo d’una ipotesi – affermare la decisione sia stata collettivamente adottata dalla famiglia o addirittura che i membri non abbiano partecipato alla predisposizione del piano delittuoso? La serie delle minacce provenienti da varie fonti non varie può essere, senza alternative contrarie, ricollegata quel maturato divisamento. E neanche è indicativa la circostanza che la Samarco si allontanò dal fondo in cui lavorava quasi con ciò significando di essere al corrente che a quell’ora il sacrificio era consumato.
La condanna fu ad anni 24 per il padre e anni 18 per la figlia. Pena ridotta in appello a 14 per il padre e 10 per la figlia. Un Anno dopo il dramma: nel carcere sammaritano Angelina Palazzo – a soli 26 anni di vita – fu stroncata da un collasso ‘cardio-circolatorio’.
Il 2 gennaio del 1960 la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Prisco Palmiero, presidente; Guido Tavassi, giudice a latere; pubblico ministero, Vincenzo Adami; giudici popolari: Filomena D’Urso, Tommasina Natale, Filomena Cimorelli, Filippo Di Donato, Salvatore Delli Paoli, Nicola Di Martino), condannò Ignazio Palazzo ad anni 24 di reclusione e la figlia Angelina ad anni 18 per omicidio e tentato omicidio. La sentenza fu ritenuta ‘iniqua’ dai difensori degli imputati ed in particolare Carlo Cipullo e Stefano Riccio che tentarono di smontarla completamente confutando punto per punto e presentando una nutrita memoria con motivi di appello di 30 cartelle. Chiesero la rinnovazione parziale del dibattimento, un accesso della Corte sul luogo del delitto, l’eliminazione dell’aggravante della premeditazione, l’assoluzione dei due (padre e figlia) per legittima difesa e in subordine l’eccesso colposo di legittima difesa ed ancora più subordinatamente le lesioni colpose e l’omicidio colposo. I difensori chiesero inoltre anche la esclusione della volontà omicida – in rapporto all’omicidio e in rapporto alla aggressione del Budetta – la concessione dello stato d’ira; nonché la concessione ad Ignazio Palazzo delle attenuanti generiche e pena eccessiva. Infine ‘assoluzione’ di Angelina Palazzo dalla partecipazione all’episodio Tummolo e assoluzione di Ignazio Palazzo dall’episodio Budetta. Il 29 luglio del 1963 fu celebrato innanzi la Corte di Assise di Appello di Napoli (Presidente, Emanuele Montefusco; giudice a latere, Giovanni Nazzaro; pubblico ministero, procuratore generale, Roberto Angelone), il processo di appello. Con una lettura da diversa angolatura i giudici di secondo grado ritennero di ridurre la pena per il padre a 14 anni e per la figlia a 10. Il Tummolo effettivamente è stato assunto dal Budetta per incutere timore e rispetto ai Palazzo e questo lo dimostra il fatto che i Palazzo, imparentati con i Tummolo (una loro sorella e precisamente Pasqualina Palazzo è coniugato con Giovanni Tummolo, fratello dell’ucciso), sono intervenuti direttamente e per interposta persona a far allontanare il Francesco Tummolo perché così il Budetta sarebbe rimasto in loro balia. Orbene se questa è la realtà processuale – stigmatizzarono i giudici d’appello – ritiene questa Corte che può ben ravvisarsi nel comportamento di Francesco Tummolo una nota di ingiustizia nell’ampio senso già sopra indicato. Il 6 novembre del 1963, a distanza di sette anni dal delitto, Roberto Angelone, Procuratore Generale, propose ricorso per Cassazione contro la sentenza dei giudici di appello. Le pene per la pubblica accusa erano troppo basse. Ma la Cassazione non annullò i verdetti e pose la parola fine alle vicende giudiziarie. La tregenda dei delitti e il dramma della famiglia Palazzo ebbe però il suo culmine più drammatico e beffardo: il 7 novembre nel carcere sammaritano Angelina Palazzo – a soli 26 anni di vita – fu stroncata da un collasso ‘cardio-circolatorio’. Nei processi furono impegnati gli avocati: Vittorio Verzillo, Francesco Lugnano, Giuseppe Irace, Giuseppe Marrocco, Carlo Cipullo, Alfonso Martucci, Michele Verzillo, Vittorio Verzillo, Stefano Riccio, Enrico Altavilla e Nicola Celentano.