*Mani pulite, trent’anni dopo*
di Vincenzo D’Anna*
E’ ricorso senza troppa enfasi ma con un velato accenno di notizia (e qualche interessante dibattito), il trentennale di “Mani pulite”, la complessa vicenda giudiziaria che ha cambiato il volto, le abitudini e la vita stessa dei partiti politici italiani. Dalle prime ammissioni di Mario Chiesa, militante del partito socialista meneghino, di aver percepito una tangente in denaro per i lavori da farsi nel “Pio Albergo Trivulzio” di Milano (ente a gestione pubblica), ne sono corsi fiumi d’inchiostro e di inchieste nei tribunali della Repubblica. La statistica fatta a posteriori, ci rivela una massa di indagati per un totale di 4.500 persone (!!), delle quali 1.500 condannate dopo i processi e circa 500 assolti per non aver commesso il fatto. Dei mancanti all’appello poco si sa tranne che in tanti conclusero la propria vicenda col patteggiamento oppure con un nulla di fatto dopo anni e anni di indagini, gogne e sentenze. Una massa di persone che testimonia quanto fosse diffuso il fenomeno collusivo o meglio quanto vasta fosse la pratica del cosiddetto finanziamento illecito ai partiti in quel periodo.
Un fenomeno epocale che raggiunse il culmine con la condanna del leader socialista Bettino Craxi e della maggior parte dei leader e dei segretari amministrativi che curavano i bilanci dei movimenti e delle sigle dell’epoca. Col passar degli anni il fenomeno si è scoperto essere comune anche ai partiti di opposizione, come il Pci e la Lega Lombarda, usciti tuttavia, immuni dalle fasi calde dell’inchiesta. Un ritardo, questo, che costò caro ai soli partiti che allora formavano la maggioranza di governo, peraltro più esposti al fenomeno illecito, che consentì ad alcune forze politiche di uscire indenni dallo scandalo e, addirittura, di avvantaggiarsene. Ancorché lo stesso Craxi avesse denunciato, nell’aula del Parlamento, l’esistenza di un generalizzato identico andazzo, ci volle qualche anno in più per accertarne la fondatezza. Ad essere infranta fu la legge varata qualche anno prima dello scandalo, che obbligava i partiti, già beneficiari di finanziamento pubblico, di dover registrare e rendere conto di tutti gli introiti a vario titolo pervenuti nelle loro casse. Una norma, questa, ipocrita e cinica che si rivoltò contro chi l’aveva votata costituendo essa stessa un elemento decisivo per accertare la violazione del finanziamento ottenuto. Fu così che prima il pool “Mani Pulite” della procura di Milano e via via, come i grani di un rosario, tutte le altre procure italiane, poterono inquisire, carcerare e condannare molti tra i protagonisti della cosiddetta “Prima Repubblica”.
C’è da aggiungere che qualche anno prima le Camere avevano votato una sanatoria sui bilanci presentati dai partiti in merito al finanziamento, salvando in quel modo dai processi, i dirigenti politici di quel tempo. Quindi oltre ad emergere, nella prima fase dell’inchiesta, uno strabismo inquisitorio per taluni responsabili, altri dirigenti di quegli stessi partiti furono salvati dalla sanatoria per gli anni precedenti nei quali avevano ricoperte le medesime cariche dei loro successori finiti, invece, alla sbarra. Come sempre accade in una nazione di levantini e di furbastri, si giunse al paradosso di processare solo taluni movimenti politici ed in questi solo una classe dirigente che si era insediata da pochi anni. Ancora più paradossale fu il fatto che alcuni dei dirigenti, salvati dalla sanatoria sul finanziamento, si ritagliarono il ruolo di moralisti alimentando, dentro e fuori i loro schieramenti di appartenenza, una campagna denigratoria contro quella politica che essi stessi avevano tollerato in precedenza. Gente come Ciriaco De Mita, Francesco De Martino, Massimo D’Alema, Ugo La Malfa, Alfredo Biondi, Umberto Bossi, che erano stati ai vertici dei loro partiti negli anni precedenti, furono tenuti fuori dai procedimenti. Il resto finì sotto le pratiche spicciole del cosiddetto “rito ambrosiano” ovvero quello della carcerazione preventiva e della gogna mediatica per costringere gli indagati a collaborare con i pubblici ministeri.
Un clima d’odio e di giustizia sommaria lasciò cadere ogni garanzia costituzionale per gli indagati e non furono pochi coloro – circa una quarantina – che si suicidarono sotto il peso del pubblico ludibrio come, ad esempio, Gabriele Cagliari dell’Eni, Sergio Moroni deputato socialista e Raul Gardini di Montedison . A centinaia gli incarcerati poi in gran parte prosciolti ancora prima del processo. La giustizia era debordata dalla giurisdizione e si orientava politicamente falcidiando i protagonisti di una parte politica anche se colpevole di non aver niente da rivelare. Oggi finanche uno dei giudici di “Mani Pulite” Gherardo Colombo depreca quel clima e la lotta fatta con quelle armi. La nemesi colpisce, con un avviso di garanzia, pure il più oltranzista del pool, Piercamillo Davigo, per corruzione in atti giudiziari. Insomma la storia fa giustizia della cronaca e c’è da scommettere che non ci ha rivelato ancora tutto.
*già parlamentare