Sottosuolo

di Roberto Bongiorni

Il Sole 24 Ore

Kiev. La “Kiev di sopra” è ogni giorno sempre più vuota. Le strade sono deserte. Al di là di qualche supermercato, tutti i negozi, i ristoranti, i bar, ogni attività è chiusa. I semafori lampeggiano sul nulla. La capitale è avvolta da un silenzio spettrale, rotto solo dal latrato di qualche cane e dal suono delle sirene. Che qui, rispetto a Leopoli, somiglia a un roco lamento. I “padroni” della città sono i soldati, dispiegati ai check point o nei punti strategici.

La “Kiev di sotto” è invece come un bicchiere andato in frantumi; tanti spazi sotterranei sparsi nel sottosuolo; cantine, rifugi, studi musicali, parcheggi, magazzini in scantinati. Tutto rigorosamente riadattato per andare avanti nella routine quotidiana. Qui le famiglie vivono in piccole comunità. Cucinano, si dedicano ai figli, ad attività di volontariato. E attendono.

Nella “Kiev di sotto” non manca quasi nulla di tutto ciò che potrebbe esser classificato essenziale. Quasi ogni isolato è dotato di un appartamento/rifugio sotterraneo. Se fossimo da soli passerebbero inosservati. Ma per chi è incaricato di gestire la rete non ci sono segreti.

Quando il boato dei bombardamenti si fa più vicino e insistente, migliaia di abitanti della capitale si precipitano nei vecchi e umidi rifugi antiatomici e soprattutto nella storica metropolitana. Quella di Kiev da attrazione turistica è divenuta una sorta di enorme centro di accoglienza. Gli abitanti stendono le loro brandine sotto gli splendidi mosaici, alla luce fredda dei lampadari a forma di candelabri. Cinquantadue stazioni, alcune, come quella che visitiamo, molto in profondità, raggiungibile dopo due rampe di scale mobili – ferme – composte da 160 gradini ciascuna. «È il posto più sicuro di tutti – spiega Natascia, 29 anni madre di due bambini – ma è un grande disagio passarci anche soltanto qualche ora con i bambini. Vedete? Non c’è nulla. Non ci sono mura. Non c’è privacy. Poi dobbiamo necessariamente tornare su».

L’altra “Kiev del sottosuolo” è un’altra cosa. È una città di scantinati e cantine riadattate e ristruttarate in modo spartano ma molto rapido. C’è sempre una toilette, una cucina, a gas oppure elettrica, in diverse è stata montato anche il Wi-fi.

Artur vi ha trasferito perfino la sua galleria d’arte moderna. In due piccole stanze, ha stipato di tutto; quadri, statue, perfino un pianoforte. «Molti artisti, quasi tutti, sono rimasti in città. Siamo in contatto tra di noi. Siamo una grande rete», spiega il gallerista. «È impossibile – spiega – pensare che tutti i cittadini di Kiev fuggano. Ci sono famiglie che attendo un bambino da qui a pochi giorni».

Ogni due o tre isolati, le persone rimaste nella capitale vivono da otto giorni in questi spazi. Hanno costruito nuove amicizie. Scambiano idee. Dibattono sulla guerra. E in molti si dedicano ad attività di volontariato per i soldati al fronte. Non sono spazi profondi come la metropolitana di Kiev. Non offrono la stessa protezione. Ma sono luoghi puliti, vivibili.

Iryna racconta di venirci ogni notte, ed anche quando, di giorno, suonano le sirene. Quindi ci viene spesso. «Ci prendiamo cura gli uni degli altri. Stando insieme le bombe ci fanno meno paura», racconta. Anche lei non ha voluto lasciare Kiev. Aveva i mezzi per farlo, anche i contatti. Iryna lavora nel mondo della moda, si reca spesso a Milano. «Ho mio figlio al fronte. Non voglio lasciarlo. Non me ne andrò neanche se arrivano i russi».

In questo rifugio modello, in soli tre giorni hanno perfino realizzato un parquet, lucido e pulito. Quando lo visitiamo due bambini giocano a terra, mentre la madre cucina il cibo che tre soldati le hanno consegnato dopo essersi sfilati i giubbotti antiproiettile, e dopo aver depositato i fucili e le granate.

«Le relazioni con i soldati sono ottime. Sono i nostri angeli. Ci proteggono. E noi ci prendiamo cura di loro. Cuciniamo, gli rammendiamo i vestiti, facciamo sciarpe e maglioni», racconta un’altra “residente” di questo rifugio privato.

Dieci minuti più in là, da una piccola porticina, nascosta dietro una siepe mal curata, si scendono due rampe di scale: qui vivono 14 persone di giorno e 20-25 la notte. «Ci siamo trasferiti da una settimana. Il metrò non era adatto a noi. Abbiamo due bambini, uno di otto mesi e uno di quattro anni. Non ci sono bagni puliti, cucine. I nostri amici ci hanno invitato qui. Abbiamo traslocato le cose necessarie da casa nostra, ed ora ci viviamo giorno e notte» racconta Gad, di professione direttore creativo per un’azienda. «Noi resteremo qua, a Kiev. Ci sentiamo al sicuro. Abbiamo un’efficiente rete. Possiamo muoverci in altri rifugi se la situazione dovesse peggiorare».

Dopo non appena trecento metri, sotto un palazzo dei primi del 900 alto sette piani, ecco un altro rifugio. Forse è il più anomalo che visitiamo. Fino a pochi giorni fa era un piccolo studio musicale di tre stanzoni, dedicato soprattutto alle colonne sonore di film e documentari, trasformato oggi in una sorta di comune di artisti. Sui muri sono ancora appoggiati un contrabbasso impolverato, un violoncello, una chitarra elettrica, una tastiera professionale. Ogni artista vi ha portato del suo. Artus, il tecnico del suono che vi lavorava, dorme insieme ad altre tre persone nella stanza ovattata, quella di registrazione, dove ha predisposto dei letti. In un ufficio è stata ricavata una cucina spartana. Il va e vieni di attori, pittori e musicisti ha trasformato questo spazio in un disordinatissimo rifugio barocco dove ritratti di Bob Marley sfiorano spartiti musicali impolverati. Qui la regola è solo una; chi ha bisogno è sempre il benvenuto. A patto che faccia qualcosa per gli altri.

Mentre continuano i negoziati tra la delegazione ucraina e quella russa, mentre i venti di guerra sembrano soffiare con maggior forza, la “Kiev del sottosuolo” continua a resistere. Possiede tutto quello che serve ai suoi abitanti. Consente loro di stare vicini ai figli al fronte. O di badare a quelli più piccoli. Di dedicarsi alle proprie attività per chi non può proprio farne a meno.

L’unico inconveniente? È un mondo dove per le finestre e la luce del sole non c’è posto. Ma è un problema che si può superare. Basta tornare in superficie. Anche solo per un poco.

Roberto Bongiorni

Affini

di Daniele Raineri

Il Foglio

Chmel’nyc’kyj. La guerra tra ucraini e russi ha una doppia faccia. Ci sono tabelloni elettronici a Kyiv che dicono: “Soldati russi, vaffanculo!”. E’ la citazione di un episodio famoso avvenuto in apertura della guerra, quando una nave russa ha intimato la resa alla piccola guarnigione di soldati ucraini che presidiava l’Isola dei serpenti. “Nave da guerra russa, vaffanculo!” è stata la risposta via radio. I soldati sono stati poi citati e celebrati dal presidente ucraino Zelensky. Ma i messaggi sui tabelloni ruotano e arrivano gli altri che sono molto diversi nel tono. Dicono così: “Fratello russo, fermati! Come puoi guardare negli occhi i tuoi bambini? Va’ via! Rimani uomo”. Oppure: “Soldato russo, fermati! Non diventare un assassino. Va’ via! Rimani uomo”. Oppure: “Qui non siete i benvenuti. Putin ha perso. Tutto il mondo è con l’Ucraina”. E infine: “Soldato russo, fermati! Ricordati della famiglia. Torna a casa con la coscienza pulita”. Ucraini e russi sono troppo interconnessi, troppo vicini, troppo apparentati perché questo conflitto non abbia una doppia faccia. Non è come dice il presidente russo Vladimir Putin, che tratta l’Ucraina come una provincia ribelle abitata da gente debole e la vorrebbe riassorbire. Ma il legame è profondo e spiega la doppia faccia del conflitto che vediamo in questi giorni. Per metà è una lotta esistenziale contro invasori alieni che non vogliono e non possono sentire ragioni e quindi vanno sfidati e distrutti.

Per l’altra metà è un appello incredulo a persone che sono affini, che hanno interi rami di famiglia in Ucraina, che venivano d’estate sulla costa a passare le vacanze. Come potete farci questo, proprio voi? Come potete sentirvi bene con la vostra coscienza? Questa ambiguità psicologica è importante. Da una parte ci sono i civili che bloccano le strade ai convogli russi e tengono in alto le mani, a indicare che sono pacifici e non vogliono far male a nessuno, e gridano ai soldati: “Siete una forza d’occupazione!”, “siete fascisti!”. Dall’altra c’è il civile che parla con il Foglio e tira fuori un coltello e dice “i russi li ucciderò con questo”. Circola molto il video del prigioniero russo al quale i soldati ucraini danno da bere e da mangiare e lo fanno parlare con la madre in video chat – gli reggono il telefono davanti alla faccia – e quello scoppia in singhiozzi. Ma non avranno fatto lo stesso con le centinaia, forse migliaia ormai, di soldati catturati, dai quali piuttosto vorranno sapere i piani. E’ tutto un dramma tra vasi comunicanti. Alcuni reggeranno, altri no. Come fa Putin a pensare che la sua spedizione punitiva riuscirà adesso e nei prossimi anni a condurre operazioni efficaci di controguerriglia nel mezzo di una popolazione che parla e mangia e vive come i suoi soldati diciottenni? “Credevamo di essere accolti in Ucraina come liberatori e invece ci trattano da occupanti”, dicono i militari russi. Fonti dell’intelligence americana ieri riferivano dell’intenzione da parte russa di procedere a esecuzioni pubbliche nelle città occupate, come monito per chi vorrebbe resistere. Tutta questa durezza sarà difficile da far accettare e da gestire. Ieri il presidente Zelensky, che è molto bravo a giocare le carte giuste, ha di nuovo battuto sul tasto della vicinanza: “Anche gli ucraini trattano gli occupanti meglio della loro leadership”, ha detto, e si riferiva alla notizia che l’esercito russo sta portando forni crematori per bruciare i cadaveri dei soldati.

Daniele Raineri

Intelligence

di Guido Olimpio

Corriere della Sera

La danza delle ombre attorno all’Ucraina si è svolta su tre piste. A metà novembre gli Usa avvisano in modo diretto gli alleati sul piano di invasione, la direttrice della National Intelligence, Avril Haines, si reca in Europa per spiegare. È accolta con scetticismo.

Il mese dopo, agli inizi di dicembre, nuovo avvertimento: con comunicazioni e attraverso un articolo del Washington Post che inquadra alla perfezione l’operazione indicando in modo esatto la consistenza delle forze mobilitate. Pensano che l’ora X sarà nei primi giorni dell’anno. I dettagli sono importanti, non bastano a fare breccia. La scelta di svelare le informazioni, così precise, contiene quattro aspetti: è un passo inusuale perché svela a Mosca ciò che sanno a Washington; sottolinea la gravità; dimostra che la Cia ha fonti preziose e di primo livello; è un disperato tentativo di indurre Putin a desistere. L’agenzia è diretta da William Burns, diplomatico di carriera con un passato di ambasciatore in Russia. Conosce il dossier. Va personalmente nella capitale russa ai primi di novembre per affrontare la questione e chissà che non abbia calato altre carte per far comprendere agli interlocutori che gli Stati Uniti sono consapevoli di ciò che si sta preparando. Una scena da Caccia a Ottobre Rosso. Quella del direttore è la quarta visita a partire da luglio di alti funzionari statunitensi, un indizio degli sforzi messi in atto. Sbattono contro le mura del Cremlino. Lo zar è convinto di avere tutto dalla sua, magari — altra rivelazione — vuol far passare l’Olimpiade invernale che si svolge sui monti cinesi. Ieri il New York Times ha scritto che Pechino avrebbe chiesto il favore, anche se non c’è certezza di questo passaggio. La rivelazione segue un’altra: gli americani avevano sollecitato per mesi l’aiuto della Cina per fermare il disastro e avrebbero persino fornito dei dati. Ma la Repubblica popolare non ha creduto all’allerta. Gli hackers di Anonymous hanno diffuso un presunto documento russo dove si dice che l’ordine d’attacco era stato previsto per il 18 gennaio, ma poi è stato spostato. Una data vicina a quella segnalata, inizialmente, dagli Stati Uniti.

L’intelligence statunitense, in parallelo, ha continuato la mietitura del raccolto. È cresciuta la sorveglianza dei satelliti e quella elettronica. È possibile che le fonti in terra russa abbiano passato nuovi particolari sull’atteggiamento politico e personale di Putin. A sua volta il servizio segreto russo ha dovuto gestire tre fronti: 1) Gli Usa sanno troppo, chi ha tradito? 2) l’Ucraina è informata, quale sarà la sua reazione? 3) In caso di attacco come risponderà la comunità internazionale? Secondo il New York Times Putin, dopo l’offensiva, si sarebbe sfogato contro i collaboratori perché gli avrebbero sottoposto scenari rosei. A sostenerlo una fonte di FBI che conosce a sua volta qualcuno nell’entourage del Cremlino. Giro tortuoso che deve proteggere l’identità della gola profonda depistando chi legge ma che è utile per seminare sospetti in casa del nemico. Ancora più ambigua l’arena ucraina. I russi hanno infiltrato gli apparati di sicurezza, dunque dovrebbero giocare come fossero nel loro cortile. Cosa hanno riferito gli amici a Kiev? Ipotesi: entrate pure con le vostre unità, Zelensky scapperà. La «nebbia» ha confuso la vista dello zar? Sono stati intossicati da notizie infondate? I filo-russi non vedevano l’ora di una grande spallata ed hanno assecondato i progetti dell’Orso. Capitò agli americani in Iraq quando si fidarono di improbabili personaggi sciiti. E poi non c’è nulla di più facile di prendere per buona la storia che combacia con i tuoi desideri. In mezzo si possono essere infilati giochi di 007 mentre persino Zelensky, alla vigilia dell’assalto, non nascondeva irritazione per le news allarmanti lanciate dalla Casa Bianca. Ci credeva o era tattica? Il suo Capo di Stato Maggiore Valery Zaluzhny, il 18 novembre, ha un colloquio con il generale statunitense Mike Milley, suo omologo, dedicato «alle attività della Russia nella regione». Tre giorni dopo il capo dell’intelligence ucraina Kyrylov Budanov, in un’intervista a Military Times, conferma il rischio di invasione tra la fine di gennaio e i primi giorni di febbraio. L’articolo è condito da una mappa. Sapevano. E lo raccontano a tutti senza essere presi sul serio. Perché gli esperti hanno compreso chiaramente le conseguenze di un simile conflitto — è la spiegazione di un commentatore russo del Russia Council — pensavano che bastassero per impedire la guerra. «Abbiamo sbagliato perché non abbiamo sbagliato» nel prevedere il disastro.

Una storia avventurosa ha poi raccontato di un’operazione per uccidere proprio Zelensky e affidata ad un nucleo di ceceni. A sventarla la soffiata di un agente russo, quasi a confermare l’arte del doppio gioco, dove non puoi fidarti di nessuno. Sempre che anche questa indiscrezione non sia un tentativo di alimentare dubbi o paranoie. Le due case madre dello spionaggio — Usa e Russia — hanno sempre avuto il grande timore di essere fregati da una spia avversaria che offre di collaborare. Trucco classico. I più prudenti — in qualche caso perfino ossessionati — erano gli americani, al punto da respingerli. Nel caso del presidente ucraino è plausibile che Mosca voglia toglierlo di mezzo. Quanto ai sicari il coinvolgimento dei ceceni è «esotico», evoca la loro ben nota risolutezza, tiene conto del ruolo in attività clandestine per conto dei servizi. Al tempo stesso, viste le condizioni attuali, è più facile che sia qualcuno vicino al leader e non uno «straniero». Ad ogni modo mai dire mai. L’intera storia ucraina è piena di sorprese.

Guido Olimpio

Piccoletto

di Massimo Gramellini

Corriere della Sera

Alla ricerca di indizi sul carattere dell’uomo che tiene un dito sul pulsante nucleare, sono andato a rileggermi l’ultimo capitolo di Limonov, capolavoro di Carrère. Vi si racconta di quando, nell’estate 1999, con Eltsin ancora al potere, il miliardario moscovita e burattinaio in capo Boris Berezovskij si recò a Biarritz, dove il capo dei servizi segreti Vladimir Putin trascorreva le vacanze con la famiglia, per convincerlo a entrare in politica. L’impresa si rivelò complicatissima, perché Putin oppose una discreta resistenza. Sostenne di non sentirsi all’altezza e di non avere ambizioni di quel genere. «In realtà sai chi vorrei essere, Boris Abramovic?», disse a Berezovskij. «Dimmi, Vladimir Vladimirovic, chi vorresti essere?». «Te». Berezovskij tornò a casa tutto felice e riunì la cupola degli oligarchi, annunciando loro che aveva trovato l’uomo giusto. Un mediocre senza personalità. «Vedrete, ci verrà a mangiare in mano». Solo il vecchio Eltsin, in un barlume di lucidità, bofonchiò: «Io quel piccoletto al Cremlino non ce lo voglio». Poi gli fecero cambiare idea. Un anno e mezzo dopo, Eltsin era in pensione e Berezovskij in esilio. La capacità di fingersi debole per non spaventare i più forti è stato l’indubbio talento di questo principe machiavellico. Ma gli anni passano anche sui caratteri e la speranza è che adesso Putin, per spaventare quelli che ritiene deboli, si stia fingendo più forte di quanto non sia. La Storia ha una certa predilezione per i ribaltamenti di ruolo.

Massimo Gramellini