1956, San Felice a Cancello: un infanticidio per causa di onore
di Ferdinando Terlizzi
Orsola Lanzillo fu accusata di infanticidio per causa d’onore per aver ucciso la sua bambina strangolandola, di occultamento di cadavere e di atti osceni in luogo pubblico per essersi congiunta in aperta campagna.
Il 23 ottobre del 1956, Antonio Mazzini, maresciallo comandante la Stazione dei Carabinieri di San Felice a Cancello, inviava un telegramma al Pretore del Mandamento di Arienzo informandolo che, a seguito di indagini, si era venuto alla scoperta del feto sotterrato a suo tempo dai genitori della Orsola Lanzillo, fortemente indiziata di omicidio a causa d’onore. Il feto era rinchiuso in una cassetta ed era stato trasportato a disposizione dell’A.G. presso la morgue del cimitero di San Felice a Cancello.
Nello stesso giorni i rappresentanti della Fedelissima traevano in arresto l’intera famiglia: Orsola Lanzillo, nubile, contadina, di anni 19; Giuseppe Lanzillo di Giuseppe, padre della ragazza, contadino di anni 47; Maria Carmina Liparulo, casalinga, di anni 45, madre della ragazza e Giuseppe Lanzillo, fu Pasquale, vedovo, contadino di anni 75, il nonno. Il tutto era nato da Carmina Liparulo che si era recata in caserma per chiedere l’intervento dei carabinieri per dirimere alcuni contrasti con il marito. Il brigadiere Giuseppe Sipala, il quale si era mangiato la foglia, insistette nei confronti della donna per conoscere i motivi del litigio e si scoprì così inopinatamente l’infanticidio per cause d’onore messo in atto dalla figlia della Liparulo. Interrogata la ragazza la stessa confessava e si scopriva che nella notte precedente la ragazza aveva partorito un feto di sesso femminile che era nato morto. La donna, all’oscuro di tutto aveva sorpreso il padre a lavare sangue e altro sangue era nella stanza della figlia. La ragazza alle precise domande della madre stette sulle negative ma nella ricerca affannosa alfine la donna avvolto in un lenzuolo in un piccolo bugigattolo al piano terra attigua all’abitazione aveva rinvenuto il feto. Preso l’involucro lo portava al marito che era intento ad arare la terra a pochi metri dalla casa colonica e quest’ultimo, scavata una buca sullo stesso posto ove stava lavorando, seppelliva il cadaverino.
La donna poi ammetteva di non aver in precedenza palesato il fatto sia per ragione d’onore e sia per non denunciare la figlia e per lo scandalo che inesorabilmente ne sarebbe derivato. Si scopriva che la ragazza era stata violentata circa due anni prima da un militare di stanza presso il Parco Militare Corazzato della Frazione di San Felice e successivamente si era congiunta carnalmente in aperta campagna con un giovane di cui sapeva solo il nome Aurelio.
Il 28 dicembre del 1956 il Dr. Emiddio Farina, medico legale di Caserta ebbe incarico di periziare la Orsola Lanzillo. Il responso fu che la giovane bracciante agricola di 19 anni aveva avuto relazioni amorose con un giovane di Nola, un certo Franco, che al momento del parto si trovava all’estero per lavoro. Il 5 gennaio del 1957 il Dottor Achille Canfora, assistente ordinario della Facoltà di Medicina dell’Università di Napoli venne incaricato dal giudice istruttore di periziare il fetolino del piccola appena scoperto dai carabinieri. Il responso fu che la morte rimontava a circa tre mesi dall’autopsia; che lo stesso aveva raggiunto la completa vitalità cronologica e aveva vissuto per pochissimo tempo la vita extrauterina; che la causa della morte era stato un trauma cranico prodotto con corpo contundente (bastone, pietra, ecc) ovvero il feto fu sbattuto contro un punto fisso (muro, tavolo, spigolo).
Il 6 aprile del 1957, il Sostituto Procuratore della Repubblica, Eduardo De Filippis, chiese al giudice istruttore il rinvio al giudizio della locale corte di Assise di Orsola Lanzillo, del padre Giuseppe, della mamma Maria Carmina Liparulo e del nonno, Giuseppe fu Pasquale, per rispondere la prima di infanticidio a scopo di onore ed occultamento di cadavere e per tutti gli altri di concorso nel reato di occultamento.
Il 25 ottobre del 1956, l’avvocato Alfonso Raffone, con una missiva diretta al Procuratore della Repubblica chiedeva la libertà provvisoria per tutta la famiglia Lanzillo tratta in arresto ed internata nel carcere sammaritano. Ma il provvedimento del giudice istruttore poneva in libertà soltanto i genitori ed il nonno della ragazza mentre per lei veniva rigettata l’istanza. Alcuni furono scarcerati per mancanza di indizi altri per concessione della libertà provvisoria. Tutti, però, vennero rinviato al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere.
Nel corso del dibattimento la vicenda venne inquadrata nella reale verità dei fatti (vennero meno le accuse reciproche ed alcune inveritiere) e venne così ricostruita. La Liparulo aggiunse ancora che il padre della bambina, a quanto si diceva, era tale Luigi Liberto, loro vicino.
Il ritrovamento del cadaverino – Gli amorazzi della contadinotta belloccia e selvaggia – La violenza carnale del vicino di casa – La contestazione di omicidio volontario-
Nel corso delle indagini i carabinieri rinvennero un cadavere di neonato di sesso femminile, sotterrato, senza nessun involucro, nel fondo tenuto in fitto da Giuseppe Lanzillo a circa, quattrocento metri dalla abitazione del medesimo in un posto che fu loro indicato dalla Maria Carmina Liparulo. Interrogati dal Pretore di Arienzo – previa ordine di arresto – confermavano quanto dichiarato ai carabinieri. Le circostanze venivano tutte confermate dai carabinieri ascoltati in aula mar. Antonio Mazzini e brig. Giuseppe Sipola, dal medico dr. Sirignano e dalle sorelle minori della Orsola, Ida, Pasqualina, Giuseppina, Franca e Clelia che negavano di essersi accorte del parto della sorella avvenuto mentre esse dormivano. Il 15 giugno del 1957 si verificò un ulteriore colpo di scena: la ragazza venne rinviato a giudizio – su parere difforme del pubblico ministero – invece che per ‘infanticidio a scopo di onore’ si chiedeva di processarla per ‘omicidio volontario aggravato’ e di atti osceni in luogo pubblico; mentre tutti gli altri dovevano rispondere di occultamento di cadavere. Cioè il giudice istruttore aveva ritenuto che la ragazza aveva strangolato la bambina appena partorita ed i familiari avevano provveduto all’occultamento del cadavere. Ma i colpi di scena non erano esauriti, un altro, sconvolgente, si appalesò durante il dibattimento che si stava celebrando a porte chiuse in considerazione che la pubblicità – a cagione della natura dei fatti – avrebbe potuto nuocere alla moralità ed eccitare riprovevole curiosità. La Orsola Lanzillo confessò che la bambina era morta perché essa l’aveva adagiata – avvolta nel lenzuolo – sul pavimento e che era stato il suo vicino di casa, Luigi Liberti, il quale l’aveva costretta più volte mediante violenze e minacce a congressi carnali in campagna (anche contro natura) rendendola incinta e che essa si era precedentemente astenuta dall’accusare in proposito il Liberti perché così dallo stesso consigliata. Terminato l’interrogatorio dei testimoni (esauriti i colpi di scena) il pubblico ministero concludeva per l’affermazione della responsabilità di tutti gli imputati per i reati loro ascritti e per la condanna di Orsola Lanzillo, con la concessione delle attenuanti generiche, alla pena di anni 21 e mesi tre di reclusione; per Giuseppe Lanzillo e per Maria Carmina Liparulo rispettivamente a 3 e 2 anni di carcere. Gli avvocati difensori chiedevano per Orsola Lanzillo l’assoluzione per insufficienza di prove e in subordine la condanna per omicidio colposo o per infanticidio per cause di onore con le attenuanti generiche e per la Liparulo e per Giuseppe Lanzillo l’assoluzione per insufficienza di prove e in subordine il minimo della pena con il beneficio della sospensione condizionale.
Il processo. La richiesta del P.M. a 21 anni di carcere – La condanna a 10 anni per infanticidio a causa d’onore. Tre anni di reclusione per il padre e due per la madre. In appello pene ridotte a 5 anni ed escarcerazione per i genitori per sopraggiunta amnistia
Ma sulla contestazione dell’infanticidio ‘a causa di onore’, vi fu in udienza la ferma opposizione della pubblica accusa che obiettava che ‘doveva escludersi la causa di onore in quanto la Lanzillo essendo ormai nota la sua gravidanza al momento del delitto non aveva ormai più onore da salvare’.
A questa opposizione i giudici obiettarono che: “A prescindere dal fatto che la gravidanza pur formando oggetto di sospetti e di mormorazioni, come hanno riferito la Liparulo e i testi maresciallo dei carabinieri Antonio Mazzini, dottor Gennaro Sirignano, Angelantonio De Lucia, non doveva poi essere divenuta notoria tanto è vero che i carabinieri non ebbero sentore dell’infanticidio se non dopo circa un mese da che era stato commesso e soltanto per la spontanea confessione resa dalla Liparulo, sta di fatto che la Lanzillo in ogni caso era certamente convinta che la gestazione non fosso punto conosciuta, come dimostra il fatto che ella si illuse perfino di averla nascosta alla propria madre – e quindi agì senz’altro nel fermo convincimento di potere ancora evitare il disonore, cioè con il dolo specifico del delitto in questione”.
La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Eduardo Cilento; giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero, Gennaro Calabrese; giudici popolari: Lorenzo De Angelis, Vittorio Patruno, F. Paola Taccia, Nicola Laudante, Pietro Sanfelice e Maria Menditto) dichiararono la Orsola Lanzillo, responsabile di infanticidio per causa d’onore, dovendosi modificare la imputazione di omicidio comune, nonché responsabile di atti osceni essendo emerso dalle sue stesse dichiarazioni che essa ebbe rapporti carnali che causarono la gravidanza in aperta campagna e quindi in luogo aperto o esporto al pubblico. “Chiara è infine – precisarono i giudici nel loro verdetto – anche la responsabilità dei genitori Giuseppe Lanzillo e Maria Carmina Liparulo, in ordine al delitto di occultamento aggravato di cadavere. Fu infatti Giuseppe Lanzillo a seppellire il cadaverino sotto gli occhi della figlia Orsola e ciò al fine di occultare il delitto di infanticidio”. In conclusione condannarono Orsola Lanzillo, a 10 anni di reclusione, il padre Giuseppe Lanzillo a 3 anni e la mamma, Maria Carmina Liparulo a 2 anni. La sentenza fu ritenuta non ‘equanime’ dagli avvocati difensori e non solo, in quanto il primo ad appellarsi fu il Procuratore Generale che chiese l’annullamento della sentenza “per ciò in tale omicida comportamento, non esistono sentimenti di onore, come non esistono preoccupazioni derivanti da un tale sentimento: l’imputata sapeva che in casa e fuori era palese la sua gravidanza e quindi non è possibile cercare la causale in qualche cosa che da tempo si è persa. Vogliate ritenere la Orsola Lanzillo responsabile di omicidio volontario condannandola alla pena che riterrà equa”.
Anche i difensori della ragazza e dei genitori, naturalmente presentarono i loro motivi di appello. Per Giuseppe Lanzillo e per Maria Carmina Liparulo chiesero l’assoluzione quantomeno per insufficienza di prove dal reato di occultamento di cadavere (ma le loro condanne erano state lievi a 2 e 3 anni); mentre per Orsola il discorso era diverso, il Procuratore aveva chiesto che si trasformasse l’accusa invece che di infanticidio a scopo di onore in omicidio volontario la cui pena partiva da 26 anni di reclusione. La posta era alta! Gli avvocati partirono da lontano chiedendo che la ragazza venisse giudicata quantomeno per omicidio colposo (se l’uccisione fosse stata volontaria o incidentale o colposo) tuttavia alla imputata spettavano le attenuanti generiche per la giovane età e per l’incensuratezza; (ma che erano state negate dai primi giudici) ed inoltre la pena – precisarono i difensori – doveva ritenersi eccessiva.
La Corte di Assise di Appello di Napoli, con sentenza del 22 dicembre del 1959, ridusse la pena con la concessione delle attenuanti generiche ad anni 5 e mesi 3 di reclusione revocando la misura di sicurezza della libertà vigilata di cui 3 anni condonati. Anche i genitori vennero graziati con la concessione delle attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti annullando così la condanna anche per sopraggiunta amnistia per il delitto di occultamento di cadavere e di atti osceni in luogo pubblico. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Alfonso Raffone, Clemente Memoli e Carlo Cipullo.