1958 Mondragone  – Uccise il seduttore della figlia di Ferdinando Terlizzi  

 

Il dottore Giovanni Papa, alle ore 15 e 20 del 2 aprile del 1958 fu chiamato di urgenza da Pasquale Mazzoccoli, comandante della Stazione dei  carabinieri di Mondragone, per recarsi in località Macello dove, quasi al centro della strada, giaceva a terra con la testa rivolta verso il mare, il corpo di un uomo dall’apparente età dai 30 ai 40 anni già cadavere. Sulla giacca, regione dorsale, erano evidenti tre fori da cui gemeva sangue. Il medico ritenne che la morte risalisse a pochi minuti prima e pertanto – diagnosticò – ‘la causa della morte deve ritenersi dovuta a gravi lesioni polmonari da arma da fuoco’. 

Nove giorni dopo, il comandante della Stazione dei Carabinieri faceva pervenire alle Autorità Giudiziarie un rapporto con il quale denunciava all’A.G. Antonio De Pascale, mediatore 53enne da Mondragone, responsabile di omicidio premeditato in danno di Giuseppe Di Nuzzi, 36enne, meccanico da Mondragone. Nella stessa segnalazione il maresciallo Mazzoccoli comunicava che il responsabile si era costituito il giorno precedente presso la Procura della Repubblica (accompagnato dal suo difensore avvocato Arturo Tucci)  di Santa Maria Capua Vetere  subito interrogato dal giudice istruttore Bernardino De Luca;  e che il cadavere era stato identificato da due testimoni oculari del delitto che si trovavano a transitare al momento per la via Macello tali  Giuseppe Russo e Franciosa Antonio. Sul posto oltre al medico legale Mario Fusco giungeva anche il Pretore di Carinola Matteo Martino. Dopo le constatazioni di rito il magistrato autorizzava il trasporto della salma al locale cimitero.

Intanto una battuta a largo raggio per rintracciare l’assassino che si era reso uccel di bosco venne organizzata dal comandante la Tenenza dei Carabinieri di Sessa Aurunca, Osvaldo Russo. La ricerca dava esito negativo ma nel corso delle battute venne fermato un tale Salvatore Degli Schiavi il quale dichiarava di aver visto Antonio De Pascale, in compagnia di un bambino di sei sette anni ed un fucile in località Macello e che dopo aver sentito gli spari aveva notato lo stesso che si allontanava verso il mare. Poco dopo venne identificato anche il bambino testimone oculare del delitto: si trattava del nipote dell’assassino, a none  Antonio De Pascale di Bernardino, di anni 7, abitante al Viale Margherita, 66. Ma il piccolo interrogato dai militi negò di essere stato in compagnia del nonno omicida.

Interrogata anche la giovane Giovanna De Pascale – che nel frattempo domiciliava in Napoli – la stessa riferiva che sì era stata sedotta dal Di Nuzzi e che però il padre, l’aveva cacciata dalla casa già al settimo mese di gravidanza e che da allora non aveva più rivisto il suo genitore. Difatti la stessa era stata ricoverata presso la Clinica “Scalese” di Napoli dove il 31 luglio del 1955 ebbe un bambino che fu chiamato Antonio ma che le fu tolto ed affidato al brefotrofio al quale  fu poi imposto il cognome di Ravino. La giovane soggiunse che non aveva più visto il Di Nuzzi e che quest’ultimo numerose volte aveva tentato di incontrarla a Napoli ma lei aveva sempre evitato; che la sua relazione con lo stesso era finita quasi subito dopo la deflorazione e che allorquando era stata sedotta non sapeva che il Di Nuzzi era coniugato ed aveva figli. Veniva anche sentita la moglie del De Pascale, Cristina Vellucci, la quale confermava il dramma della figlia incinta, l’allontanamento da casa e che il marito non aveva mai pronunciato parole ostili contri il Di Nuzzi. “Questa mattina – precisò – è uscito tranquillo ma non era armato e per ora non ha fatto ancora ritorno a casa”.

 

Il 3 maggio del 1958 il Professor Achille Canfora, docente in medicina legale dell’Università di Napoli, depositava la perizia necroscopica eseguita sulla vittima. Il responso fu che ‘la morte di Vincenzo Di Nuzzi risaliva a 36/48 ore dall’autopsia; che la stessa era stata causata da una emorragia per dissanguamento determinata da lesioni ad opera di pallettoni che hanno attraversato il cuore e i polmoni.

Le accuse e le discolpe / ”Compare, debbo far fare una bella festa…lascerò parlare tutta Mondragone – Dopo il raccolto e la vendemmia il delitto…

 

Il 23 giugno del 1958, Giuseppe Garofalo, difensore della famiglia della vittima,  inoltrava al G.I. una lista di testimoni che potevano chiarire la posizione del proprio assistito alla ricerca sempre di quella ‘verità’ giudiziaria che spesso sembra inafferrabile. Antimo Luongo e Antonio Barbato diranno – spiegò Garofalo nella sua missiva –  che la mattina dell’omicidio verso le ore 11 il De Pascale armato di fucile e in atteggiamento sospetto si aggirava nei pressi del fondo ove era a lavorare il Di Nuzzi. Giuseppe Fardella, dirà che circa un anno prima dell’omicidio, il De Pascale, conversando con lui sul conto del Di Nuzzi testualmente disse: ”Compare, debbo far fare una bella festa…lascerò parlare tutta Mondragone”. Ferdinando Miraglia dirà che nel febbraio scorso il De Pascale gli aveva detto: “ Avverti tuo nipote (Giuseppe Di Nuzzi N.d.A.) che debbo levargli la pelle”.

Infine l’avvocato Garofalo chiedeva al giudice istruttore di disporre un confronto tra Lucia Del Prete  vedova Di Nuzzi e la ragazza Giovannina De Pascale,  per accertare che la ragazza stessa ebbe a dire all’altra che ella non era stata sedotta dal Di Nuzzi, bensì dal suo fidanzato, tale Fra Giovanni. Il tutto per dimostrare che il delitto era stato ‘premeditato’. Alla missiva di Garofalo faceva da eco quella degli avvocati Arturo Tucci e Francesco Lugnano per l’imputato. Gli stessi evidenziavano che Armando Lavino, Francesco Ferraro, Salvatore Russo, Giovanni Prisco e Vincenzo De Martino, potevano confermare all’unisono che il De Pascale si recava abitualmente a caccia in località Macello. Il tutto per dimostrare contrariis reictis che il delitto era maturato per puro caso.

A luglio del 1959, il Procuratore della Repubblica chiese al Giudice Istruttore – con la sua requisitoria scritta – il rinvio a giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere di Antonio De Pascale, per rispondere di omicidio premeditato aggravato in danno di Giuseppe Di Nuzzi da lui assassinato per vendetta un anno prima alla via Macello di Mondragone. La lunga istruttoria della Procura aveva anche accertato che effettivamente i carabinieri, in base alle indicazioni fornite dai  testi Barbato e Capasso, aveva anche accertato che autore materiale del delitto era il De Pascale; si accertò altresì che il movente era da ricercarsi nel fatto che la vittima – pur essendo sposato e con prole – nel novembre del 1954 –  (quattro anni prima del fatto di sangue ) aveva sedotta la figlia del De Pascale, la quale a seguito di ciò aveva dovuto lasciare Mondragone (perché scacciata di casa dal padre) e trasferirsi a Napoli ove viveva facendo la domestica. Ulteriori e più precisi sospetti vennero confermati da Salvatore Degli Schiavi il quale dichiarò, addirittura, di aver visto il De Pascale, armato, mentre attendeva il passaggio della vittima. Permaneva, purtroppo, ancora misteriosa e non confermata l’ipotesi che al delitto avesse assistito un bambino che era assieme all’assassino. Antonio Diana, invece, negò di avere assistito all’omicidio assumendo che quando avvenne il delitto egli si trovava in altra località. Non è dato sapere se lo stesso temesse eventuali ritorsione della famiglia della vittima, oppure l’assassino avesse detto una bugia per crearsi un alibi, un pretesto, per uccidere. Ma il giudice istruttore escusse anche altri testi: Giovanni Vigliotti (che chiarì la circostanza secondo la quale la vittima si era allontanata per pendere dell’acqua); il maresciallo Giovanni Calabrò, comandante la Stazione di Mondragone (che smentì il fatto di aver diffidato il De Pascale ad evitare vendette); il carabiniere Ferdinando Tibaldi dichiarò, invece, che il De Pascale, in quella circostanza, proferì minacce di morte all’indirizzo della vittima; Cristina Vellucci, moglie del De Pascale la quale raccontò che il marito dopo la seduzione della figlia era sempre malinconico, non beveva e non mangiava più e che lo stesso si recava sempre nella località ove avvenne l’omicidio, per la caccia, circostanza, quest’ultima confermata anche dai testi Salvatore Degli Schiavi, Ferdinando Miraglia, zio del Di Nuzzi; Giuseppe Fardella, cognato del Di Nuzzi e compare del De Pascale, i quali deposero, il primo di avere incontrato un giorno di febbraio 1958, presso il Mattatoio il De Pascale che, rispondendo ad una sua domanda, gli disse che andava in cerca di suo nipote al quale doveva “fare la pelle” e lo incaricò anzi di avvertire il nipote di tale suo proposito e il secondo che circa due anni prima del delitto il De Pascale gli confidò che, terminato il raccolto e la vendemmia avrebbe fatto rimanere un ‘detto’ a Mondragone

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La condanna con la scriminante del particolare valore morale e sociale a 16 anni di reclusione –  Dopo 4 anni  a 59 anni di età mori di infarto nel carcere di Poggioreale mentre era in attesa del giudizio di secondo grado.  

Nel 1960, la celebrazione del dibattimento innanzi la Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere, “L’omicidio del Di Nuzzi commesso dal De Pascale –  stigmatizzarono i giudici della Corte di assise nella loro disamina – trova indubbiamente spiegazione nella seduzione patita dalla figlia del De Pascale, Giovanna, nel novembre del 1954 ad opera del Di Nuzzi che a quell’epoca era già sposato. Al disonoro piombato sulla sua figliola, che a seguito della illecita relazione era rimasta anche incinta, il De Pascale,  non reagì nell’attuare una pronta vendetta nei confronti del seduttore. Ma ciò non significa che egli non sia rimasto colpito dall’accaduto e non abbia sentita l’esigenza di tutelare l’onore della ragazza”. Il De Pascale in dibattimento si difese assumendo che fu costretto a sparare contro la vittima dopo che la stessa aveva tenuto un atteggiamento provocatorio in quel loro ultimo incontro. A suo dire, egli incontrò per caso – mentre andava a caccia – presso il Mattatoio comunale di Mondragone, il Di Nuzzi che si immetteva con la propria motocicletta da un viottolo campestre nella strada provinciale che mena dal mattatoio alla Domiziana, e gli intimò di fermarsi onde esortarlo a prendersi con sé il  bambino procreato con la figlia, ma quello, proseguendo la corso lo offese dicendogli: “Questo cornuto non mi lascia perdere”. E sputandogli contro.  E fu allora che egli, puntato il fucile esplose un colpo.  D’altra parte non v’è chi non veda l’assurdità dell’assunto del De Pascale di aver invitato il Di Nuzzi a fermarsi per invitarlo a prendere con sé il bambino procreato con la Giovanna. Con questa affermazione – fu stigmatizzato – il De Pascal era caduto in contraddizione perché in precedenza aveva affermato che non si era mai voluto interessare del bambino fino al punto di ignorare addirittura se fosse di sesso maschile o femminile, se fosse ricoverato in un brefotrofio di Aversa o di Napoli e di aver fatto finta – ogni volta che incontrava il Di Nuzzi – di non conoscerlo affatto e quindi è davvero incredibile che egli possa essersi all’improvviso deciso a discutere della sorte del piccolo e proprio con il Di Nuzzi.

Nella loro decisione finale i giudici ritennero che il De Pascale doveva essere dichiarato colpevole a titolo di omicidio volontario ma non premeditato; che tuttavia l’entità della causale era incontestabile: è noto che nelle nostre contrade l’offesa alla integrità fisica o morale della donna suona offesa gravissima all’intera famiglia ed esige a riparazione le nozze, se possibili, o il lavacro nel sangue.  La verità è che, secondo molti, il De Pascale dovette accarezzare nel suo animo l’idea della vendetta e poi abbandonarla. Ed in ultimo determinante per la definitiva decisione criminosa,  dovette essere la notizia riferitagli – come lui stesso racconta dalla moglie – circa venti giorni prima del delitto, che il Di Nuzzi aveva tentato di avvicinare nuovamente la figlia a Napoli evidentemente per darle ancora fastidio.

Certo che la tesi dell’accusa che il De Pascale abbia atteso la vittima sul luogo del delitto non è provata. E’ vero che in quella località il Di Nuzzi lavorava da qualche giorno per lo scavo dei pozzi e quindi potrebbe sospettarsi che l’imputato si sia recato colà, armato di fucile e di cartucce caricate a pallettoni, proprio per incontrarlo ed ucciderlo; ma non meno verosimile è l’ipotesi che il prevenuto si sdia invece portato in quella zona, con quella arma e con quelle munizioni, non per altro che per andare a caccia , come egli assume.

Risulta invero che egli da anni appassionato cacciatore e usava andare a caccia in quel sito, e che a quell’epoca si svolgeva appunto la caccia alla quaglie la quale richiede l’impiego di piombo grosso giacché le quaglie venendo dal mare – volano alto e solo con  il piombo grosso possono essere colpite. Quindi l’aggravante della premeditazione è esclusa. Spetta allora – senza ombra di dubbio –  la scriminante ‘per aver agito per la tutela dell’onore della figlia compromessa irrimediabilmente nel piccolo  ambiente paesano in cui tanta importanza si attribuisce più che altrove alla purezza di una giovane donna’.

La sentenza di condanna, emessa il 29 aprile del 1960, per omicidio volontario, con esclusione dell’aggravante della premeditazione e con le attenuanti del motivo di particolare valore morale e sociale e con le attenuanti generiche fu  ad anni 16 di reclusione. Fu proposto appello sia dal pubblico ministero che dai difensori. Il primo lamentò l’esclusione dell’aggravante della premeditazione e il  conseguente aumento della pena irrogata; gli avvocati difensori, di contro, si lamentarono della mancata concessione dell’attenuante dello stato d’ira e della pena eccessiva.  Ma di quei 16 anni il De Pascale ne scontò soltanto 4 perché nel 1964, a 59 anni di età morì di infarto nel carcere di Poggioreale mentre era in attesa del giudizio di secondo grado. Un destino beffardo: estinto il reato per molte dei reo. Gli avvocati impegnati furono: Francesco Lugnano, Giuseppe Garofalo e Arturo Tucci.