Odore dei morti
di Irene Soave
Corriere della Sera
Un piede spunta da una pira di cinque corpi carbonizzati. Un cane si avvicina al padrone ucciso in cortile. Un cadavere con le mani legate, in cantina. Un seminterrato affollato di corpi, nessuno vivo.
Quel che Rodrigo Abd, 45 anni, fotogiornalista di Associated Press, ha visto a Bucha, lo racconta nelle didascalie che corredano le sue foto. Insieme a quelle del collega Vadim Ghirda, primo con lui a entrare nella città, hanno rappresentato per gli occhi del mondo un punto di non ritorno: documentano fosse comuni, esecuzioni di civili, mine lasciate dai russi in ritirata. Abd è fotoreporter di guerra «da più di vent’anni» e le sue foto dalla Siria, insieme a quelle di colleghi, hanno meritato il Pulitzer nel 2013. «Sono stato anche in Afghanistan. Tanti morti tutti insieme, però, non li ho mai visti».
Come è stato il vostro ingresso a Bucha? «Ci avevano avvertiti che Irpin e Bucha erano libere, e siamo andati già domenica mattina. L’impatto è stato duro, un cadavere dopo l’altro. Un signore ci ha indicato una fossa comune, e abbiamo capito che ci trovavamo all’inferno».
Che racconti ascoltate? «Orripilanti. Tutti quelli che sono vivi ora sono stati chiusi in cantina per un mese, nascosti o prigionieri. Vogliono raccontare, ti fermano per strada, piangono. Ieri ho visitato un appartamento dove i russi avevano un quartier generale: oggi cucinavano all’aperto e raccontavano di essere stati un mese in cantina, senza elettricità né acqua. Ancora molte cantine sono chiuse: più ne apriremo più penso che vedremo orrori. Ci sono molti altri morti, altre fosse comuni. Altre Bucha».
Dove, secondo lei? «Se mai Mariupol sarà abbandonata dai russi, chissà cosa vedremo. Kharkiv, Mykolaiv. È una cosa gigantesca».
Che regole si dà? «Il mio lavoro non è solo di informarvi, ma anche di costruire l’archivio storico di una guerra. Di documentarla per il futuro. E di sensibilizzare. Tento di fare le foto con rispetto. Ma devono essere potenti e documentare quel che succede, non tacere le atrocità. È un equilibrio delicato».
Sui media, sui social, c’è un continuo dibattito sull’opportunità di pubblicarle. «Il solo pubblico al cui pensiero mi limito sono i famigliari, reali o immaginari, della vittima. Vengo dal Guatemala. Ogni giorno scattavo foto a vittime di violenza urbana, del crimine organizzato. Il mio limite è: se la figlia del morto vede il giornale, domani, starà peggio? Se sì, cerco di non fare quella foto. Le persone coinvolte nelle vicende che seguo io hanno già vite abbastanza terribili».
E lei? Come si sente alla fine di una giornata a Bucha? «Male. Fatico a dormire e tengo una bottiglia di vodka vicino al letto. È dura vedere quel che vediamo. E la cosa peggiore non si può fotografare».
Cos’è? «L’odore. Disgustoso. A Irpin mi sono imbattuto in un cadavere vecchio, in strada. L’odore mi è penetrato nelle narici e non se ne va. Si sente a isolati di distanza. E ti infesta, anche perché cammini tra i morti tutto il giorno. Tu cerchi di essere tecnico, se ti lasci paralizzare da quello che vedi sei inutile, e allora tanto varrebbe restare a casa. Invece devi contribuire alla storia e al futuro. Ma poi ti svegli la mattina e devi di nuovo andare a Bucha. Oggi ho visto una vecchia che aspetta tutto il giorno in mezzo ai cadaveri del fratello e del marito. In mezzo a quell’odore».
Che opinione si è fatto sulla guerra? «Nessuna, è la mia regola. Soffrono anche le famiglie russe. Vedo soldati bambini decapitati, o in decomposizione vicino ai loro carri. Mi sforzo sempre di pensare alla guerra come un fatto del passato. Ma non succede mai».
Irene Soave
Retroscena
di Giammarco Oberto
Leggo
L’ultimo tentativo per fermare una guerra alle porte dell’Europa risale al 19 febbraio. Cinque giorni prima dell’invasione. E lo ha fatto il cancelliere tedesco Olaf Scholz, durante un faccia a faccia a Monaco di Baviera con Volodymyr Zelelsnky. Ma il presidente ucraino disse di no. E lo fece – secondo il Wall Street Journal, che ha ricostruito il retroscena della Conferenza sulla Sicurezza a Monaco – per un «fattore umano»: «No, perché non ci si può fidare di Putin».
Quello che il 19 febbraio Scholz aveva messo sul tavolo, dopo un primo viaggio a Washington e un secondo a Mosca, era la garanzia che non ci sarebbe stata invasione se l’Ucraina avesse rinunciato alle pretese di entrare nella Nato. Nell’incontro Scholz gli rivelò i dettagli: Kiev avrebbe dovuto «rinunciare all’adesione alla Nato» e «dichiarare la neutralità, come parte di un più ampio accordo europeo di sicurezza tra l’Occidente e la Russia». Il patto evocato dal cancelliere tedesco «sarebbe stato siglato da Putin e Biden, che insieme avrebbero garantito la sicurezza dell’Ucraina». Ma Zelensky si dimostrò irremovibile. Spiegò che «non si poteva credere che Putin avrebbe tenuto fede a un accordo del genere e che la maggior parte degli ucraini voleva far parte della Nato». Una risposta, commenta il quotidiano Usa, che «ha fatto temere ai funzionari tedeschi che le chance della pace stessero scomparendo».
E così è stato. Cinque giorni dopo quel no, Putin scatenava l’armata e i carri armati con la Z ammassati da mesi al confine e in Bielorussia. Da lì il quadro è rapidamente cambiato. Ora le relazioni tra Russia e Usa sono al minimo storico. E dopo venti giorni di invasione, e meno di un mese dalla via di uscita di cui Scholz si era fatto garante, Zelensky ha dovuto ammettere che «l’Ucraina non entrerà mai nella Nato». Era il 15 marzo, Mariupol e Kharkiv erano già in polvere, i missili piovevano su Kiev e a Buča i soldati russi perpetravano il massacro che abbiamo scoperto solo ora. Quella proposta ritenuta inammissibile il 19 febbraio da Zelensky è ora di fatto sul tavolo dei negoziati.
Giammarco Oberto
Comici ebrei
di Mariarosa Mancuso
Il Foglio
Farcita di inserti pubblicitari – servono, lo sappiamo benissimo, e se non ci fossero sarebbe peggio, ma al quinto minuto la pazienza scappa, mica siamo a Sanremo – è andata in onda ieri su La7 Servant of the people. La serie creata, prodotta e recitata da Volodymyr Zelensky. In due ruoli: il maestro di scuola che diventa presidente, e il poveretto sottoposto a plastica facciale perché possa fargli da controfigura nel taglio dei nastri, e da bersaglio in occasioni più rischiose. Abbastanza per guadagnarsi la qualifica di showrunner, se fossimo negli Stati Uniti. Siccome siamo alla periferia dell’impero, a volte anche alla periferia della decenza, da noi chi la sa lunga sostiene che l’eroico presidente sotto le bombe in maglietta militare o giubbotto antiproiettile non è in grado di scriversi i discorsi da solo. Né di sapere – senza che un fantomatico “sceneggiatore americano” glielo sussurri all’orecchio – che gli americani hanno avuto l’11 settembre e in Germania ci sono stati i campi di concentramento.
L’eroico Zelensky (allora attore comico, la carriera politica imiterà pari pari quel che succede nella serie) appare nella prima puntata in mutande e canottiera, addormentato nel letto con un libro di Plutarco. È in ritardo per la scuola, pretende che la madre gli stiri la camicia, il padre lo accusa di guadagnare una miseria con il lavoro di insegnante. In cifre: meno del sussidio di disoccupazione. Suonano alla porta: i funzionari del governo gli dicono che ha vinto le elezioni, senza rivali. Invece che a scuola andrà al palazzo presidenziale. Colpa – o merito – di un video registrato da un allievo con il cellulare: insulti a destra e a manca, contro i politici corrotti che hanno ridotto la nazione in povertà, e nessuna speranza nelle future elezioni: “Due merde di candidati, tocca votare per il meno peggio”. Un delirio populista in piena regola, terribilmente realistico. Son d’accordo anche i tre misteriosi individui inquadrati senza che se ne vedano gli occhi. Bocche parlanti che guardano Varsavia di notte come se fosse loro: “Il nostro popolo ha un debole per il populismo a buon mercato”. Tre oligarchi? Tre agenti dei servizi segreti? Tre poteri forti che tramano nell’ombra? Sta di fatto che ognuno aveva il suo candidato per le elezioni, la furiosa tirata del professore (e relativo crowdfunding organizzato dagli studenti) ha scombinato i piani. Una marionetta del Cremlino? Oppure un fantoccio dell’occidente? Intanto il neopresidente ha gli incubi, al capezzale i filosofi greci sembrano non capirci nulla: “Sono al centro dell’Europa, hanno il grano e la democrazia, perché si lamentano?”. L’arrivo al palazzo presidenziale è in linea con le gag anti dittatoriali, un occhio alla minacciosa Russia. C’è il sosia – prima o poi, garantito, qualcuno dirà che Putin è morto, sostituito da qualcuno che tanto gli assomiglia: basta aspettare e non sarebbe neppure la peggiore delle idiozie che tocca sentire. C’è il mental coach per l’autostima. La psicologa, e la psicologa della psicologa (qui siamo vicini a quel capolavoro di satira intitolato Morto Stalin se ne fa un altro di Armando Iannucci). C’è nello staff anche uno sciamano.
Mai sottovalutare un comico ebreo con una lunga gavetta alle spalle. La7 ha mandato ieri le prime due puntate – con dibattito, come ai tempi di Sex and the City: allora con giornaliste e psicologhe, oggi con giornalisti e politologi. Tre stagioni (se la pubblicità assiste) seguiranno. Non vediamo l’ora di vedere l’episodio dove Zelensky – una mitraglietta nella mano destra e una nella sinistra, come Arnold Schwarzenegger nei suoi momenti migliori – fa strage di cattivi.
Mariarosa Mancuso
Camparino
di Camillo Langone
Il Foglio
“Venne la guerra europea; e ci si trovava allora al Caffè Campari, in Galleria”, scrive Carlo Carrà nelle sue memorie. I futuristi, tutti più o meno interventisti, si trattavano bene, e io, che invece sono renitente, mi tratto benissimo perché nel frattempo il Camparino in Galleria è stato riconosciuto come uno dei migliori locali del mondo (per la precisione il 27°, nella classifica The World’s 50 Best Bars). Non soltanto lo eleggo a bar della mia bolla alcolica e pacifica, credo possa avere un influsso positivo su tutti e lo consiglio a chiunque capiti sotto la Madonnina: quando bevi un Campari Seltz non ti viene proprio in mente di invadere nazioni, se passi al Milano-Torino diventi amichevole anche se di solito sei un misantropo e se infine arrivi al Negroni vorresti dichiarare pace al mondo intero. Un’altra cosa, e non credo sia effetto dell’alcol perché bevo ovunque ma senza analoghe visioni: al Camparino si vedono belle donne vestite benissimo (ecco dov’erano finite le donne vestite bene!). E come dice il filosofo Sossio Giametta “la bellezza dà felicità, non è solo una promessa di felicità”… Centododici anni fa il futurista Boccioni fece del Camparino lo sfondo del suo Rissa in galleria, io ora prego affinché un pittore odierno dipinga, sempre qui, un quadro di segno opposto: “Tregua a Milano”.
Camillo Langone
Gatti
di Alberto Mattioli
Specchio, 25 aprile 2021
Essere come cani e gatti. Il rapporto è così difficile, o almeno così ce l’hanno sempre raccontato, da diventare proverbiale. E sì, certo, il cane è fedele e il gatto infido, Fido è il compagno dell’uomo pastore e del cacciatore, e Micio quello dell’agricoltore, e in generale il primo accompagna l’uomo nel negotium e il secondo nell’otium, perché il cane vuole rendersi utile agli altri e il gatto che gli altri si rendano utili a lui. E poi, volendo fare un po’ di storia a quattro zampe, il cane è l’animale dell’aristocrazia, che accompagna a caccia, immortalato accanto ai sovrani dai tempi del levriero di Carlo V (con Tiziano capace ancora e sempre, dopo cinque secoli, di restituirci lo sguardo adorante del cane per il suo umano) ai corgie della Regina Elisabetta, mentre il gatto vien sdoganato come animale domestico e non mero cacciatopi dall’Illuminismo e trionfa insieme con la borghesia, in confortevoli interni ottocenteschi di cui le sue fusa sono un’ideale colonna sonora.
Poi però dei due il vero borghese risulta il cane, incarnazione dei valori della fedeltà e del dovere, accanito difensore di law & order, mentre il gatto è anarchico, ribelle, insofferente alle regole e alle gerarchie: “Non esistono gatti poliziotto”, ricorda Cocteau. E infatti: Cechov era “cane” (con una passione per la deliziosa bassotta Quinine), Baudelaire assolutamente “gatto”. E ogni volta ricomincia l’eterna diatriba fra cinofili e gattolici, il cane ti ama per amore e il gatto per interesse, no, è il contrario, meglio il cane che si rende utile, accompagna il cieco e fiuta la droga, macché meglio il gatto che non fa mai nulla ma lo fa benissimo e poi, vuoi mettere?, non bisogna portarlo fuori perché le sue cosine le fa nella lettiera (a patto di pulirgliela, però). Il cane è servile e cerca un padrone, il gatto si sente superiore e vuole un servo, il primo ti adora e il secondo ti sopporta, e così via, ad libitum, finché qualcuno non ricorda il celebre aforisma di Churchill: “I cani ci guardano dal basso. I gatti ci guardano dall’alto. I maiali ci trattano da loro pari”, e qui forse possiamo convenire tutti.
Ma è proprio così? Non sempre i luoghi comuni sono anche veri. La convivenza è tutt’altro che impossibile. Come capita che suocera e nuora risultino affiatatissime, così tutti conosciamo l’amico che in casa tiene cane e gatto che, lungi dall’esibirsi in una riedizione quotidiana della grande guerra, vanno d’amore e d’accordo. Quante volte ci siamo inteneriti per le foto su Facebook (un’istituzione che ormai ha un senso solo come gallery per animali domestici) di cane e gatto teneramente abbracciati, felici e dormienti insieme, perfino più attratti uno dall’altro che dal comune umano? Capita, d’accordo non sempre, ma spesso, sì.
Ma poi, lo dico da gattolico credente e praticante, capita di imbattersi in gatti che mostrano insospettate qualità canine, o meglio quelle che siamo abituati ad attribuire all’altra metà del cielo a quattro zampe. Così si legge di gatti che hanno svegliato l’umano appena prima che la fuga di gas lo facesse addormentare per sempre, di gatti custodi che hanno messo in fuga i ladri, di gatti affezionatissimi che hanno fatto decine di chilometri per ricongiungersi al loro bipede (mai come nel caso del micio la parola “padrone” è fuorviante). O, più modestamente: gatti che imparano a obbedire, gatti che si rassegnano a quella cosa spregevolmente umana, da Monsù Travet della vita, che è avere degli orari fissi, gatti che magari si alzano alle cinque del mattino ma non per questo obbligano l’umano a fare lo stesso per servire loro la colazione (per la verità, di mici con quest’ultima caratteristica non ne ho mai incontrati se non nei racconti di qualche amico fortunato: se ne conoscete uno presentatemelo, lo adotterei subito).
Il gatto-cane non è una leggenda da bestiario medievale come l’unicorno, né uno di quegli animali mitologici dell’antico Egitto con la testa di sciacallo su un corpo umano o di quei democristiani metà uomo e metà poltrona: esiste davvero, è vicino a noi, c’è chi l’ha in casa, lo chiama e quello, miracolo, arriva. È una rarità zoologica che valeva la pena di segnalare su questo Specchio tutto dedicato al cane. Nell’attesa di rifarsi con il gatto-gatto, il più comune, quello che non obbedisce, che se c’è la fuga di gas si mette in salvo senza pensare allo stupido bipede, che occupa la cuccia del cane e gli mangia pure la pappa, quel baffuto marchese del Grillo sulla cui adorabile testa pelosa sventola idealmente un motto immortale: io sono io. E del resto, chissenefrega (in realtà il marchese usava un’altra espressione, ma il gatto è troppo chic per dirla. Si limita a pensarla).
Alberto Mattioli
Gatti
di Vittorio Feltri
Libero
Ci sono persone, tra cui vari scrittori, convinti che i gatti siano straordinari. E io sono tra queste, per cui ogni volta che esce un libro che narra le gesta di un micio vissuto accanto al suo custode, uomo o donna che sia, non mi trattengo: devo leggerlo, una sorta di imperativo categorico. Nei giorni scorsi è giunto sulla mia scrivania un volume edito da Mursia, curato da Marina Alberghini e Luca Ortino. Titolo: Gatti dall’altrove. Titolazione di cui mi sfugge il significato ma che comunque mi ha spinto a divorare 217 pagine, parecchie delle quali originali o addirittura istruttive.
Numerosi amanti dei felini sono considerati dai loro simili deficienti, gente rammollita che si intenerisce davanti a una tigre in miniatura dal pelo fitto. Non parliamo delle cosiddette “gattare”, reputate prive di senno perché assistono e soccorrono vari randagi a cui si affezionano in modo morboso. Io per costoro nutro invece simpatia e affetto poiché nel loro attaccamento agli animali vedo una forma di amore disinteressato e assai intenso.
Ogni saggio che viene pubblicato sui gatti me lo bevo con piacere, in esso trovo la conferma che la mia passione per le bestie (escluse le zanzare) non è coltivata in solitudine. E ciò mi rincuora. Fin da piccolo adoravo accarezzare i cuccioli che incontravo con la loro mamma in cortile. Giocavo con essi ore e ore mentre la proprietaria della gatta mi osservava sorridendo. Desideravo assai possedere una di quelle bestiole, tuttavia mia madre era ostile all’adozione. Questa proibizione generava in me molta frustrazione.
Cosicché dovetti aspettare di compiere 14 anni per realizzare il mio sogno, quando la mia famiglia si trasferì in una villetta in periferia, contornata da un po’ di terreno. Finalmente ebbi il permesso di introdurre nella mia abitazione un gattino bianco e nero, di pelo lungo, che chiamai “Vecio”. Era stupendo e con me campava in simbiosi, lo imboccavo e lo lisciavo senza requie. Ovunque andassi mi correva appresso.
La sera, quando si trattava di andare a dormire, Vecio mi aspettava davanti alla porta della camera in attesa che io vi entrassi. Non sbagliava un colpo, varcava la soglia e, non appena mi fossi coricato, balzava sul letto e, non bastasse, si infilava sotto le lenzuola dove rimaneva immobile fino al mattino. Anni di stretta vicinanza, il mio attaccamento a lui è stato assoluto. Allorché, spesso, gli parlavo, faceva delle smorfiette. La sua morte mi stese in un dolore fisico.
Anni dopo mi sposai e, dato che mia moglie è più gattolica di me, recuperammo una micetta, Amalia, che era appassionata di tennis. Mio figlio Mattia la poneva sul pianoforte e le lanciava delle palline di carta, che lei respingeva con precisione. Le piacevano queste partite.
Quando mia figlia Fiorenza rincasava da scuola, soleva fare quattro chiacchiere accanto al portone con un compagno e Amalia si arrabbiava. Miagolava furiosa, pretendeva che la ragazza salisse da lei e la smettesse di starsene lì a blaterare con il suo amico. La presenza felina nelle mie dimore è sempre stata dominante e foriera di episodi stravaganti. Una notte avvenne un fatto curioso.
La luce del salone in cui trascorrevamo il dopocena si accese, poi si spense, poi si riaccese di nuovo. Io e mia moglie ci svegliammo spaventati. Pensammo: «Saranno quegli stupidi dei nostri figli». Ci alzammo per verificare l’accaduto. Incredibile, era la micia che, seduta su un mobiletto in prossimità dell’interruttore, si divertiva ad azionarlo. La mia consorte scherzando diceva: «Possibile che in questa famiglia anche i gatti siano cretini?».
Non aveva tutti torti. Però lei stessa un tardo pomeriggio mi telefonò al Giornale, da notare che non mi chiama mai, per sollecitarmi a raggiungere quella sera la nostra abitazione a Bergamo, dove avrei trovato una sorpresa. Non mancai di obbedire, ovviamente. E, introdottomi nel mio appartamento, considerata l’ora, mi recai nella stanza della mia metà e vidi che accanto al suo corpo giaceva un gattino.
Domanda mia: «E questo qui da dove cazzo viene?». Risposta gelida: «L’ho visto mezzo rincoglionito per strada e l’ho preso, mi faceva pena». Scoppiai a ridere. Quando abitavo sulle colline orobiche e avevo un parco di 6000 metri, ogni tanto qualcuno buttava oltre il cancello un felino trovatello. E io me lo tenevo. Un pomeriggio ero seduto su una panchina con Fiorenza, ultima figlia, e avvertimmo un miagolio disperato.
La mia erede, pure gattolica, si rivolse al cane, Ciro, come a un fratello: «Senti? Deve essere un micetto, vai a prenderlo». Ciro scattò e solo due minuti dopo si presentò con un gattino in bocca, del quale poi diventò amico inseparabile. Adesso risiedo a Milano, ho un pezzullo di giardino dove gironzolano quattro miei gatti, le imprese dei quali, almeno di uno di loro, meritano un cenno. Giuliano, un micione rosso, naturalmente trovatello, ogni anno a ottobre sparisce e sta via un mese secco.
Noi ci disperiamo, lo cerchiamo dovunque, niente. Assenza ingiustificata e prolungata. Dove diavolo sarà finito quell’imbecille? Dopo trenta giorni di angoscia, la mattina presto, udiamo un miagolio insistente, ci alziamo per controllare: è lui, lo scapestrato. Lo esamino, è in splendida forma. Dove vada, chi lo curi, perché scompaia costituiscono misteri. Ma noi siamo felici che sia riapparso e di dargli tanta pappa. I nostri quattro zampe ci rallegrano la vita.
Vittorio Feltri
O