«Non sono matto, sono libero» Vittorio Sgarbi

Fratelli di Elisabetta Sgarbi il Giornale, 8 maggio

Di Vittorio conosco troppo e troppo poco. Il nostro legame ci precede, come spesso accade nelle cose importanti della vita. Precede la nostra volontà e precede la nostra consapevolezza. Non c’è merito. La visione originaria del nostro rapporto, sin dal suo inizio, sta nella memoria di chi non c’è più, dei nostri genitori. E non nella nostra. Questo non voluto e non saputo è però tutt’altro che un vuoto, un mondo perduto o oscuro. È un passato che agisce sempre tra me e lui. E agisce nel rapporto che ciascuno di noi ha con gli altri. Io porto Vittorio con me anche quando lui non c’è. Questo abbraccio silenzioso è ciò che mi permette di dire di conoscere mio fratello, di (pensare di) prevedere come reagirà, se sarà felice o se sarà contrariato per questo o quell’accidente della vita. Conosco bene, ma troppo poco Vittorio. Le nostre vite sono corse, e in gran parte, corrono, su binari distinti, per lungo tempo separati. E se negli ultimi anni i nostri percorsi si sono più spesso incrociati, mi rendo conto che una grande parte della sua vita, dei suoi movimenti, delle sue conoscenze, dei suoi incontri non l’ho neppure sfiorata. Una parte cospicua, che coincide più o meno con gli anni della mia formazione professionale, a Milano.

Insomma, di Vittorio non so. Eppure so di lui quanto nessuno potrà mai sapere. Qualcosa di questo dilemma viene in chiaro leggendo una frase lapidaria di Carmelo Bene, contenuta in un libro che pubblicai diversi anni or sono, Vita di Carmelo Bene, scritto insieme a Giancarlo Dotto. Giovane editor, negli anni Novanta, feci una proposta rivoluzionaria a Carmelo Bene. I suoi scritti erano in gran parte dispersi o fuori catalogo, e gli proposi di raccoglierli in un volume unico nella collana dei Classici Bompiani. I Classici erano nati alla Bompiani – grazie a Mario Andreose – per ospitare le opere in raccolta di Alberto Moravia e sottrarlo così alle lusinghe dei Meridiani Mondadori. E poi, con Mario, avevamo sedotto Leonardo Sciascia, Marguerite Yourcenar, gli aventi diritto di Brancati e di Eliot per fare alcuni nomi. Le collane di classici, allora come ora, hanno la funzione di consacrare, non di decidere o inventare, lo status di classico della Letteratura. Lo stavo proponendo a un uomo di teatro, non certo riconosciuto per la sua opera letteraria, di considerarsi un classico, senza aspettare l’unzione della società letteraria. Una impresa rivoluzionaria in tempi in cui la critica aveva un peso. La mia proposta evidentemente gli piacque, suscitando in lui una serie di posture retoriche divenute celebri: «Sono un classico vivente» oppure, all’opposto «Sono già morto», sottointendendo che era invulnerabile alle critiche.

Ma, soprattutto, quella proposta – e le altre nostre collaborazioni editoriali, tutte improntate alla rivoluzione di schemi prestabiliti (nei formati, nei generi, nella tipografia) – lo legarono a me e alla mia famiglia, intuendo probabilmente la costante deviazione dalla normalità che animava Ro Ferrarese. La Rina – che mi accompagnò sovente a Otranto, oltre che a Roma, nella sua casa su Viale Aventino, a trovare Carmelo – amava ricordare che lui apostrofava, con un misto di euforia e approvazione la sua continua mobilità: «Dove vai Zingara, stai qui con me!». Insomma Carmelo, con Luisa Viglietti, aveva non solo imparato a conoscere me, ma, in me, la cifra esatta di tutta la mia famiglia. Vittorio penso lo conoscesse già per altre vie (tanto per ribadire quanto poco so delle vie di Vittorio). Questa situazione psicologica è all’origine di quanto Carmelo Bene scrisse della mia famiglia, un ritratto ancora ineguagliato: «La mia avversione per la famiglia esclude un’eccezione riservata a casa Sgarbi: sono tutti pazzi, vivaddio, ma è un nucleo (quel che conta) di persone, dico persone che, vincolate da reciprocità affettiva, vivono una rarissima autonomia individuale»..

E il rabbino gli racconta il suo sogno. La guardia sorride, schernendo Eisik. «Guarda che, se dovessimo credere ai sogni, in questo momento starei facendo un viaggio che è l’inverso del tuo». E gli racconta che un sogno lo invita spesso a recarsi a Cracovia, presso la casa del Rabbino Eisik, dove, dietro la stufa, si troverebbe un tesoro. Eisik lo ascolta in silenzio, torna a casa sua, smuove la stufa e trova il tesoro. Questa storia non vuole semplicemente dire – scrive Calasso – che il tesoro è più vicino di quanto sospettiamo. Ma intende dire che è uno straniero a indicarci il luogo del tesoro. Lo straniero di casa Sgarbi è Carmelo Bene. Egli indica nell’essere pazzi («vivaddio») il collante di noi Sgarbi (e di noi Sgarbi con lui, Carmelo Bene). Follia è una parola che non si riferisce a qualcosa di preciso, indica un modo di essere, una irregolarità di fondo che si manifesta nella quotidianità. Non ha un significato positivo, indicando piuttosto qualcosa che non si è e non si fa. Tanto è vero, aggiunge Carmelo, che siamo tutti autonomi, tutti diversi.

Lo era mia madre, sovranamente indipendente e autonoma da tutti noi, pur se, di tutti noi, in particolare modo di Vittorio, si è occupata e preoccupata. Silenziosamente indipendente era mio padre, sempre un passo di lato rispetto alla nostra esuberanza, che tutto ha trattenuto fino all’età di novanta anni, quando tutto ha riversato nei suoi bellissimi libri, specchio delle nostre vite che aveva filmato e montato in forma di parole. Romanticamente e intransigentemente indipendente Vittorio: alcuni, non solo i suoi avversari, lo direbbero egoista. Io so che è una persona di grande generosità. Lui è tra i pochi che conosco capace di essere «qualcosa fino in fondo», direbbe Kenneth Patchen, capace di assoluti e di assolutizzare. Quanto persegue lo ritiene a tal punto un assoluto da non potere credere (e sopportare) che esso non venga condiviso. (Mi rendo conto della pericolosità di questa posizione intellettuale, ma Vittorio ha sempre vissuto pericolosamente.) Così, seguendo la luce della sua passione, ha stravolto la vita dei suoi genitori, li ha rieducati a una nuova giovinezza (persino suo padre, in fondo), ha stravolto una villa di campagna rendendola una di quelle quadrerie dipinte da Panini, e ha aperto a tutti noi orizzonti straordinariamente ampi. Tutto questo ha avuto un prezzo, ma lui ha convinto i suoi genitori di quanto era profondamente convinto lui stesso: che fosse giusto pagare qualsiasi prezzo per l’arte e la sua collezione. Indipendente io, infine, «sorella di Vittorio», cercando di mantenere un’equidistanza tra amore per mio fratello, persino riconoscenza per quanto mi insegnava, e consapevolezza di dovere rimarcare la mia personalità e affermarla in un mondo complesso come quello editoriale e culturale in generale (riuscendoci, e va detto con orgoglio, perché non era facile). Tutta questa autonomia, scrive Carmelo, è pervasa da una profonda reciprocità affettiva, quasi che ne fosse il collante. Anche «affetto» è una parola che suona strana nella penna di Carmelo Bene.

I rapporti tra mio fratello e me hanno momenti di violenza verbale qualche volta accesa, da fare impallidire qualsivoglia forma affettiva. L’affetto – soprattutto per Carmelo – doveva essere qualcosa di diverso. Da parte mia assomiglia piuttosto a una comprensione a priori di quanto Vittorio fa e dice. La follia che ha sempre animato la mia famiglia – sempre per stare nelle parole di Carmelo Bene – mi porta a capire di Vittorio atteggiamenti che per altri sarebbero e sono incomprensibili. Anche per la Rina accadeva così nei suoi confronti. E in fondo, io stessa avevo un analogo atteggiamento nei confronti di mia madre. Comprendere non vuol dire condividere quanto Vittorio dice o fa. Anzi, a volte è il contrario. Vuol dire comprenderlo oltre il ragionevole. (E questo è amore). Il ragionevole è il limite su cui per lo più ci si attesta per pigrizia, mancanza di coraggio, comodità. La follia che accomuna «casa Sgarbi» detta la linea: è una apertura di credito irragionevole per una posizione che – seppure ora non condivisa – magari un giorno manifesterà le proprie ragioni, se non la propria verità. O forse non le manifesterà mai e comunque si sarà lì ad attenderle.

Nel frattempo mi premuro di dire a mio fratello che quella posizione per me è sbagliata, e magari nasce un alterco, e per giorni e settimane smettiamo di parlarci. Ma io so che, in fondo, c’è una irragionevole ragione che motiva quella posizione, che ora non vedo, ma che c’è, ed è nobile. A dire il vero, nel computo matematico delle esperienze vissute ho visto emergere quella ragione più volte di quanto quella ragione sia rimasta nascosta. Ecco, quando mi penso sorella di Vittorio penso a quella ragione irragionevole che mi lega a lui. Che è la follia di cui parla Carmelo Bene, e che accomunava a me e Vittorio, la Rina e Nino. Che è quel mondo ancestrale, il liquido amniotico che precede la consapevolezza di essere figli degli stessi genitori. E che è anche, per me – perché c’è, indubbiamente – l’ammirazione di quanto Vittorio continua a fare, giorno per giorno, nella sua vita, sorprendendomi.

Elisabetta Sgarbi

 

 

Biblioteca di Mario Andreose Il Sole 24 Ore, 8 maggio

Il primo grado di conoscenza di Vittorio, fratello di Elisabetta Sgarbi, mi è stato fornito dall’esplorazione, inevitabilmente a intermittenza, date le dimensioni, della sua biblioteca. Nei primi anni 80 era iniziata la mia frequentazione di casa Sgarbi, dopo aver convinto Elisabetta ad abbandonare gli ozi letterari, artistici e musicali e impegnarsi in un lavoro a tempo pieno alla Bompiani. Vittorio compariva di rado ed era per lo più attorniato da una compagnia di ammiratrici tuttofare e di adulatori interessati, «nani e ballerine» si diceva allora. La casa di Ro Ferrarese, ampia e di austera eleganza borghese, con annessa farmacia, presentava come tratto distintivo proprio la biblioteca, distribuita ovunque ma divisa in tre distinte sezioni. La prima, dedicata ai libri antichi esclusivamente di storia dell’arte, è collocata in prevalenza in una mansarda che, priva di riscaldamento e condizionamento, gode di un microclima ideale per la conservazione delle preziose cinquecentine e di non meno pregiati tomi dall’età barocca fino al primo ’900. Qui è facile immaginare lo spirito di emulazione che avrà animato il giovane collezionista bibliofilo Vittorio nei confronti di maestri come Francesco Arcangeli, Roberto Longhi, Bernard Berenson, Federico Zeri, per non dire del mito irraggiungibile di Aby Warburg. Delle perle di questa collezione di oltre duemila titoli, tra quelle opportunamente esposte, in occasione di una mostra, promossa dalla Fondazione Elisabetta Sgarbi, al Castello Estense, assieme a quadri e sculture della Fondazione Cavallini Sgarbi, è impossibile non citare le Vite di Giorgio Vasari, sia la prima edizione del 1550 sia quella integrata del 1568, I quattro libri dell’architettura (1581) di Andrea Palladio, il raro De scultura (1503) del napoletano Pomponio Gaurico, il Trattato dell’arte della pittura, scoltura e architettura (1584) di Giovanni Paolo Lomazzo, la Storia delle arti del disegno (1779) di Giovanni Winckelmann, La corte di Ludovico il Moro (1913) di Francesco Malaguzzi Valeri, eccetera. La sezione letteraria moderna (quanto a edizione, ma contiene anche classici di ogni epoca), è ospitata in un’altra stanza della mansarda e annesso sgabuzzino, una stanza in teoria abitabile con un bel letto matrimoniale d’epoca in noce, ma consigliabile per ospiti di taglia S in grado di sgusciare, senza fare danni, tra gli stretti percorsi lungo gli scaffali ai quali nel tempo si sono addossati dipinti, con o senza cornice, che non hanno trovato ricovero altrove. Sono riuscito comunque a sfilare e a sfogliare qualche libro, trovandovi talvolta delle annotazioni a mano nella riconoscibile calligrafia sia di Vittorio sia di Elisabetta, da giovani. Questa parte della biblioteca, infatti, non è più alimentata da decenni, per saturazione di ogni spazio, e testimonia gusti e orientamenti dei due Sgarbi nel tempo della loro formazione. La scelta di classificarla per case editrici, voluta da mamma Rina, offre inoltre, accanto ai nomi più noti e affermati, un’emozionante panoramica storica di sigle prestigiose eclissate nel tempo o, in parte, rifluite, prive dell’originaria identità, nei successivi raggruppamenti editoriali. Come, tanto per citarne qualcuna, le gloriose fiorentine Vallecchi e Sansoni, le milanesi Treves e Tumminelli e la torinese Frassinelli (1931), effimera e luminosa come una meteora, che fornirà la propria squadra operativa (inclusi Cesare Pavese, Giulio Einaudi e Leone Ginzburg) per la fondazione dell’Einaudi (1933), e il suo prestigioso catalogo alla debuttante Adelphi (1963) di Luciano Foà. Quindi non solo libri di narrativa, saggistica e poesia contemporanei ma anche acquisizioni mirate di bibliofilia, tra Otto e Novecento, in continuità con i libri antichi. Un’appendice ideale, forse anche una fonte di ispirazione, di questa sezione è costituita dalla serie completa della BUR grigia, avviata dal padre Giuseppe Sgarbi e che oggi nobilita una parete del guardaroba al pianterreno.

La terza sezione, dedicata genericamente alle pubblicazioni d’arte, stimata, dato il flusso continuo di alimentazione, attorno a duecentomila titoli, è distribuita, come accennato, in ogni spazio accessibile della casa secondo criteri, a mio parere, di “buon vicinato” di warburghiana memoria, a parte l’ovvia soluzione alfabetica delle monografie di pittori e scultori, divisi tra antichi e moderni. Tra le categorie più immediatamente riconoscibili e con un ambito proprio citerei: critica d’arte, cataloghi di Gallerie e Musei stranieri e di Gallerie e Musei italiani suddivisi per città, cataloghi di mostre. In tale patrimonio culturale non potevano mancare le riviste d’arte che hanno raccontato la fortuna di diverse stagioni creative, alcune delle quali presenti nell’intera raccolta come Paragone di Roberto Longhi e Anna Banti rispettivamente per la sezione Arte e Letteratura, uno strumento indispensabile per gli studiosi della generazione di Vittorio, FMR di Franco Maria Ricci, la testata che ha dato visibilità immediata a Vittorio saggista e connoisseur e occasione di un importante sodalizio e amicizia con l’editore; e, tra le più rilevanti, in prospettiva storica, Lacerba di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, PAM di Ugo Ojetti, Dedalo pure di Ojetti, Ver Sacrum, organo della Secessione viennese, di Gustav Klimt e Max Kurzweil, Rassegna d’Arte di Guido Cagnola e Francesco Malaguzzi Valeri, Apollo Art Magazine, L’Illustration; e gli ufficiali Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica istruzione e la Rivista dei Musei e Monumenti d’Italia. È presente anche un’importante, cospicua raccolta di fotografie di opere d’arte: non so se Vittorio abbia avuto mai in mente di allestire una propria Mnemosyne, certo è che, in epoca di estrema facilitazione di riproducibilità tecnica, nelle sue affollatissime lezioni, come la recente su Raffaello, le immagini, oltre il soggetto trattato, scorrono copiose per comparazione pregressa, coeva e ereditaria e, nondimeno, per il rivelatore gusto del dettaglio in senso iconologico. Non so quando sarà possibile avviare una catalogazione di questa biblioteca, dal momento che lo spazio d’accesso ai vari reparti viene quotidianamente conteso dall’arrivo di nuovi dipinti, sculture e oggetti d’arte e che la stessa biblioteca, come dicevo, è lungi dall’essere conclusa. Nei giorni delle feste mi è capitato di occupare la stanza da letto di Vittorio, in compagnia di nuovi arrivi: l’Inferno e il Paradiso della Divina Commedia illustrata da Amos Nattini, sublime capolavoro progettato interamente dall’artista su sollecitazione di d’Annunzio. I volumi, appoggiati in piedi a un armadio, misurano 81×65 cm e pesano 27 chilogrammi ciascuno, legatura di vitello sbalzato e istoriato rinforzata con borchie e fermagli di metallo. Per reggerli adeguatamente, Gio Ponti aveva realizzato uno speciale leggio. Io, per sfogliarli, ho dovuto metterli a letto. Una poltrona era stata occupata da una pila di libri, in attesa di sistemazione, dall’aspetto di provenienza remainders. Libro di comodino, con segnalibro indizio di lettura iniziata, il suggestivo L’anatomia della malinconia (1621-1651) di Robert Burton pubblicato da Nuccio Ordine nei Classici della Letteratura Europea (Bompiani).

P.S. Non pochi amici e conoscenti, del genere “benpensanti”, sostengono che Vittorio avrebbe fatto meglio a limitare la sua attività nel campo dell’arte, ma se non avesse fatto anche “altro” non avrei avuto un tale tesoro di cui scrivere o ben poco.

Mario Andreose

 

 

Intervista/1 di Concetto Vecchio la Repubblica, 7 maggio

L’appuntamento con Vittorio Sgarbi, che domani compie 70 anni, è a mezzogiorno a Firenze. Ma alle quattro del mattino ha inviato questo messaggio Whatsapp: “Non ce la faccio ad arrivare. Sentiamoci al telefono”.

Che cosa le è successo?

«Certe notti combatto con un residuo del cancro alla prostata, che ho sconfitto. Spesso devo correre alla toilette e quindi non ho chiuso occhio».

Quando ha scoperto la malattia?

«Durante il lockdown facevo fondo ad Asiago. Mi si sono gonfiate le caviglie. Il medico, l’ex parlamentare Mario Pepe, quando ha visto l’esito delle analisi mi ha abbracciato: “Hai un tumore, ma non vedo metastasi”».

Che cure ha fatto?

«Quaranta radiazioni, al Sant’Elena a Roma, seguito dal professor Giuseppe Sanguineti. Ho fatto portare un quadro di Adelchi-Riccardo Mantovani e l’ho appeso al soffitto: lo guardavo mentre mi bombardavano».

Cosa pensava in quei momenti?

«Ho smesso di ritenermi invincibile. Già nel 2015 avevo rischiato di morire».

Come andò?

«Ero a Brescia, e di notte aprirono le chiese solo per me. Poi, sfinito, dissi all’autista di portarmi a Firenze. Lungo il tragitto cominciai a sentire un gran peso sul cuore, dopo Mantova gli chiesi di uscire dall’autostrada e di raggiungere l’ospedale più vicino, a Modena. Svegliarono il primario e mi operarono. “Ancora mezz’ora e lei sarebbe morto”, mi disse il dottor Cappello. “Sarei morto a Roncobilaccio, non mi sembrava il caso”, risposi».

Ma lei non è cambiato, a giudicare dalla rissa con Mughini.

«Non ho fatto niente stavolta, è stato lui a colpirmi».

Non l’ha provocato?

«Ho difeso Al Bano che stava raccontando del suo rapporto con Putin».

Cosa deve dimostrare ancora a se stesso con queste gazzarre?

«Niente, ma la mia tv è fatta di imprevisti e incidenti».

Maurizio Costanzo cosa le ha detto?

«Ci vuole in trasmissione per fare pace. È un po’ una sceneggiata, vediamo, dai».

Com’era da ragazzo?

«Mi chiamavano Ucialina, perché portavo gli occhiali. Mi piaceva stare con quelli più grandi. Quando venne Montale a Ferrara si divertì perché fu interrogato da Pazzi, Felloni e Sgarbi. Roberto Pazzi poi divenne poeta e scrittore».

Che ambizioni aveva?

«La mia unica regola morale è rispettare le scadenze. Presi la patente a diciotto anni, la laurea a 22, a 40 ero parlamentare».

È vero che mandò a quel paese il relatore della tesi di laurea?

«Era un importante storico dell’arte, Carlo Volpe. Mi cacciò dicendomi che avevo un brutto carattere, salvo poi richiamarmi per darmi 110 e lode».

Primo lavoro?

«A 24 anni ero ispettore delle Belle Arti a Venezia, conobbi Pasolini, Borges, Arbasino. Giulio Einaudi mi chiedeva di accompagnarlo per le calli, era attratto dal mio dongiovannismo, le donne della bella società veneziana volevano conoscermi, ogni tanto ne incontro qualcuna, signore che oggi hanno 80 o 90 anni: “Vittorio, ti ricordi di me?”. “Eh!”, faccio io. Lì realizzo quanto sono diventato vecchio».

È cresciuto in una famiglia colta.

«Papà giocava a tennis con Bassani».

Suo padre confessò ad Antonio Gnoli di essere in ansia per i suoi eccessi.

«Chi fosse veramente mio padre l’ho scoperto leggendo i suoi libri. Il primo l’ha pubblicato a 93 anni. Era uno scrittore e non lo sapevo».

Che genitore è stato?

«Aveva in casa l’intera collezione della Biblioteca Bur, leggeva Anatole France, m’introdusse a Céline; era un borghese abitudinario, il farmacista di Ro Ferrarese, un uomo che privilegiava l’ombra, con un suo senso intimo della tradizione».

Pupi Avati ha fatto un film dal libro Lei mi parla ancora.

«Sì, il racconto di sessant’anni di matrimonio con mia madre».

Ha avuto una vita sentimentale che è l’opposto rispetto a quella dei suoi genitori.

«Forse è stata una reazione».

In che senso?

«Assistendo alle tensioni tra mia madre e mio padre ho capito che la vita di coppia non faceva per me. Vede, l’eros è anche una forma di conoscenza dell’altro, ed è quel che si addice alla mia natura inquieta».

Perché litigavano i suoi?

«Conflitti caratteriali. Mamma voleva muoversi, papà preferiva pescare. Mia madre era una forza della natura, ha sempre parteggiato per me, quando tornavo a casa dicendo che mi ero picchiato con un compagno mi difendeva: “La prossima volta dagli due pugni in più”, diceva».

Quindi ha cercato un modello di vita non borghese?

«Sì, vedevo mio padre vittima di mia madre, l’uomo in un certo senso era lei. E come se per tutta la vita avessi sentito il bisogno di riscattare questa condizione di minorità».

Una rivalsa?

«Tutte le donne che ho avuto, sono più di 1.500 credo, le ho conquistate e dedicate a mio padre e a mio zio, Bruno Cavallini, grande letterato, lasciato dalla moglie perché gli aveva trovato le lettere d’amore scritte dall’amante».

Un giudice chiese di sottoporla a perizia psichiatrica

«Non sono matto, sono libero. Ho fatto quello che volevo».

Concetto Vecchio

 

Intervista/2 di Candida Morvillo Corriere della Sera

 

Vittorio Sgarbi, con che spirito arriva, domani, ai 70 anni?

«Con una grande malinconia, con l’idea di aver vissuto più del tempo che vivrò e che quello che ho vissuto è stato così intenso da impedirmi qualsiasi lamento e condizione di infelicità».

Lo Sgarbi delle risse tv, l’ultima con Giampiero Mughini, è così intemperante anche nella quotidianità?

«No, sono mite. Posso fare una scenata se trovo un errore su un catalogo, ma si spiega con la formula che mia madre definiva dei cinque minuti: la giornata è fatta di 24 ore; per 23 ore e 55 sei normale, ma sugli altri cinque minuti si costruisce la tua leggenda».

Sua madre Rina Cavallini, raccontò che, a scuola, lei veniva vessato e picchiato dai fratelli Manzoli. Quando il bimbo bullizzato diventa un bullo intellettuale?

«Quella, in effetti, fu una scuola di vita che ha determinato la mia reattività. Dopo, al collegio dai Salesiani, trovai mille obblighi, l’orario, le messe tutti i giorni. In biblioteca, c’era l’elenco dei libri proibiti, divisi per categorie: C3 erano quelli “cautela, per adulti”. Erano consentiti Cuore e forse Pinocchio. Un prete trovò nel mio banco Senilità di Italo Svevo. Furono chiamati i miei genitori. Che, invece di difendermi, si scandalizzarono. Vidi una cosa logica trasformarsi in peccato. Il preside disse: dovrebbe leggere I dolori del giovane Werther. E io: C3, è vietato! Fu un colpo sgarbiano formidabile. I miei videro lì lo Sgarbi che iniziava a nascere. Sono state le proibizioni a portarmi alla trasgressione».

E che c’entra trasgredire con la violenza verbale?

«Questa è conseguenza dell’ispirazione di zio Bruno, fratello di mamma, grandissimo letterato. La sera, si parlava di politica e zio primeggiava sempre, aveva un tono polemico, argomenti che mi sembravano giusti. Fu una specie di transfert».

La folgorazione che si può prevalere con la cultura, anziché con la forza fisica?

«Esattamente».

Che cosa scatena lo Sgarbi fumantino che conosciamo?

«Un temperamento di fondo fatto di socievolezza: io sono accogliente, sono per gli imbucati, sono per i profughi, sono come Pier Paolo Pasolini per cercare di convertire chi mi odia, ma se qualcuno supera il confine, divento quell’altro Sgarbi. È un incidente imprevisto che lo scatena».

«Incidente imprevisto»? Non esibizionismo?

«Per me, passione e ragione significano: io ho passione, io ho ragione. Nel 1989, vado al Costanzo Show e, la prima volta, dico str…a a una preside, la seconda volta faccio piangere la fotografa Letizia Battaglia, la terza dico che voglio vedere morto Federico Zeri. Fino ad allora, guardavo la tv con distacco, lì ho capito che ha una velocità straordinaria nel trasmettere le idee. Oggi, sui social, ci sono mie risse vecchissime e perciò sono l’unico della mia età a cui i giovani chiedono selfie. Il mio pensiero sta vivendo per un tempo più lungo che per i miei coetanei».

La conoscono per le risse e questo la rende fiero?

«Più che fiero, mi rende esistente. Un intellettuale per strada non esiste, il suo pensiero è chiuso nei suoi libri».

Quando si è dispiaciuto di aver esagerato?

«Sempre, subito dopo. Come ogni buon coccodrillo. Dopo, non per finta, dico: potevo risparmiarmelo. Ma la verità è che non potevo: era un flusso inarrestabile».

Ha tre figli da tre donne, si è definito un padre preterintezionale. Lo spirito della paternità l’ha mai sfiorata?

«Poco. L’ultima, Alba, mi commuove per la sua delicatezza e perché mi ha salvato dall’annegamento in mare. Non ero in reale pericolo, ma si è buttata per salvarmi».

Per che cosa ha pianto?

«Ho pianto ai funerali di zio Bruno. Ha avuto un infarto, come è successo a me, ma lui era solo. Il giorno in cui se n’è andato, in casa mia è entrato un San Domenico di Niccolò dell’Arca, uno scultore rarissimo, il cui spirito ha preso il posto di mio zio in casa. E ho pianto alla mostra di Caravaggio a Rovereto, aperta fra mille polemiche, poi chiusa per Covid, vedendo arrivare comunque tante persone».

La sua collezione d’arte è celebre, di quale acquisto è più orgoglioso?

«Le opere sono il modo in cui traduco il denaro in spirito. So trovare dipinti antichi a cifre contenute. Comprai un Guercino in Texas con 280 mila dollari che Corrado Passera mi fece prestare dalla banca. È sempre così: se hai i soldi, non trovi i quadri e se trovi i quadri non hai i soldi».

Un’opera che ha rimpianto di non aver comprato?

«Tante. Una Pietà di Bellini murata in una cappella privata è uno dei pensieri stabili di ciò che avrei voluto avere».

Un libro che ha scritto che è felice di lasciare ai posteri?

«Tutti quelli su autori su cui non si era mai pubblicato, come Niccolò dell’Arca, Antonio da Crevalcore. E tutta la storia dell’arte pubblicata da mia sorella Elisabetta».

Sua sorella sostiene che lei sia molto sensibile.

«Abbiamo perso tutti i parenti. Sono diventato il suo figlio unico. Ma un aneddoto sulla sensibilità ce l’ho… Settimana scorsa, scopro che Lino Capolicchio stava morendo; sapevo che aveva dato un libro a Elisabetta. Le ho detto di pubblicarlo subito, poi ho chiamato lui. Era in ospedale, l’ho sentito passare dalla morte all’entusiasmo. L’ho fatto per farlo andare via felice».

Candida Morvillo

 

 

 

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