Senato di Fabrizio Roncone Corriere della Sera

Un caffè in piazza Sant’Eustachio, prima della broda amara che servono alla buvette di Palazzo Madama.

«Come butta la giornata?».

Barcolla.

«Ma chi?».

Lei. La senatrice grillina Paola Taverna. È venuta in bilico su zatteroni bianchi da spiaggia tipo Kursaal di Ostia. Sguardo spiritato, soffia perfida. «Oggi li sfonnamo de brutto» — traduzione: oggi li metteremo in grande difficoltà.

Cronaca battente. Con le porte dell’ascensore che si aprono sul corridoio dei Busti. Avviarsi circospetti verso l’abisso possibile di una tragica crisi di governo. Qui, al Senato: tra ricatti e minacce, sicofanti sistemici, tonfi, miserabili calcoli elettorali, comici pretesti — «Il termovalorizzatore di Roma ci farà morire tutti avvelenati» — e Giuseppe Conte ancora mezzo dentro e mezzo fuori (è terrorizzato: come dice Marco Follini su Twitter, «si era capito non fosse Aldo Moro»; però, insomma, un po’ di grammatica. Invece: non è riuscito a controllare le sue bande ribelli, ha dovuto promettergli il peggio e ora — pressioni del Quirinale, del Vaticano, dei mercati — cerca una via d’uscita).

Ma guarda: è già arrivato il ministro a cinque stelle Federico D’Incà. Per forza: su incarico dell’avvocato di Volturara Appula si sta lavorando — aumm aumm — i capigruppo dei partiti. Vuole convincerli a eliminare il voto di fiducia. Passa il leghista Roberto Calderoli, sprezzante: «Hanno capito di aver fatto un casino. Sono dei poveracci». Risbuca la Taverna, e ringhia: «Tanto nun c’è trippa pe’ gatti, je votamo contro»; traduzione: c’è poco da brigare, voteremo contro il governo. Infatti. Solo che a bocciare il piano di mediazione è Mario Draghi. «La fiducia resta».

Sulla Moleskine, un appunto: ricordarsi di spiegare il clima di sostanziale allegria/incoscienza con cui i senatori grillini spingono il governo nel pozzo. Guerra, pandemia, crisi energetica, inflazione alle stelle, recessione in arrivo: ignorano tutto. Pensano solo ai loro sondaggi (già in picchiata). Ecco il senatore Gianluca Castaldi (arbitro di beach soccer, prima di salire sul carrozzone del Vaffa e ritrovarsi con un sostanzioso conto corrente): «Usciamo subito da questa melma». Ecco Vito «orsacchiotto» Crimi: «Adesso, o mai più». Alberto Airola: «Le fragole sono ormai marce».

Sghignazzano. Passeggiano tronfi nel salone Garibaldi. Maurizio Gasparri, autorevole esponente di FI, li osserva severo. «Sono preoccupato. Conte ragiona da sughero: è abituato a galleggiare, senza battere ciglio ha fatto il premier gialloverde e poi giallorosso. Non capisce che Draghi è un uomo diverso. Quello, se si arrabbia, se ne va». Il sito Dagospia batte la notizia che, in caso Draghi si dimettesse, Giuliano Amato potrebbe traghettare il Paese fino alle elezioni (abbastanza surreale che a sondare Conte e Salvini sarebbe stato Massimo D’Alema).

A proposito: Salvini? Non pervenuto; anche perché i governatori leghisti, da Zaia a Fedriga, pensano ai soldi del Pnrr che gli imprenditori dei loro territori aspettano, e che solo Draghi può garantire. Quelli del Pd li riconosci perché camminano chini, muro muro, con addosso lugubri presagi. Avevano individuato in Conte il «riferimento riformista del futuro». Adesso, in caso di voto, il M5S sarebbe un alleato impossibile. Matteo Renzi: «Il Pd avrebbe una sola opzione: allearsi con me, Calenda, Brugnaro, Toti… però pure così, e ve lo dice uno che notoriamente ha un’altissima considerazione di se stesso, il centrodestra vincerebbe in carrozza» (cinico, ma lucido).

Intanto, dentro, nell’emiciclo: dichiarazioni di voto. Adesso è il turno della capogruppo grillina, Mariolina Castellone. Ripete il copione che le hanno scritto. Voce roca, aggressiva. Mentre parla annuisce ingrugnito un tipo che le siede accanto: indossa una giacca rossa di quelle che usa il Mago Forest (un altro grillino, prima, si aggirava con un paio di sandali francescani: boh). Quando la Castellone conclude il discorso, i suoi si scatenano: una standing ovation covata da mesi.

Inizia la conta e i grillini escono (due cronisti salutano, i loro direttori gli hanno chiesto di andare a Palombara Sabina da Giorgia Meloni, alla Festa dei Patrioti: ciambelline al vino e porchetta, seduta tra la gente; poi non chiedetevi perché vola nei sondaggi).

Voto finale: 172 sì, 39 no.

Colpisce la botta di puro dadaismo politico del ministro grillino Stefano Patuanelli che non ha votato la fiducia a se stesso (lo sentono andar via che ragiona incerto: «Il governo? Siamo dentro, siamo fuori, non si capisce»).

Avvertite i familiari.

Fabrizio Roncone

FONTE:

QUARTA PAGINA
«Ho una cultura illuminista
e non cerco Dio. Penso che Dio sia
un’invenzione consolatoria e affascinante
della mente degli uomini»
Eugenio Scalfari

Scalfari

di Giorgio Dell’Arti

Dal Catalogo dei Viventi

• Civitavecchia (Roma) 6 aprile 1924. Giornalista. Il più grande del Novecento italiano: ha partecipato da protagonista alla fondazione dell’Espresso (con Arrigo Benedetti e Carlo Caracciolo), ha creato dal nulla un quotidiano, la Repubblica, del tutto nuovo per linguaggio e formato (i precedenti esperimenti col tabloid in Italia erano stati dei disastri). L’influenza esercitata da Scalfari e da Repubblica non solo sul giornalismo, ma anche sulla politica, sulla cultura e sul costume italiano è tale che si può prendere il 14 gennaio 1976, primo numero del giornale, come una data ante quem e post quem scrivere la storia del nostro dopoguerra.

• I capitali furono messi da Carlo Caracciolo, editore dell’espresso, dalla Mondadori (che aveva il 50%), dallo stesso Scalfari (poco più del 10%), da un piccolo nucleo di soci minori. La storia precedente di Scalfari era molto semplice: aveva diretto l’Espresso, aveva firmato con Lino Jannuzzi un’inchiesta clamorosa sul Sifar, il piano Solo e le mire golpiste del generale De Lorenzo (querelati tutti e due, condannati a 15 e 14 mesi di reclusione benché il pm Vittorio Occorsio, che aveva letto i fascicoli prima che il governo li secretasse, avesse chiesto l’assoluzione), aveva pubblicato con Giuseppe Turani un saggio capitale sui poteri di quegli anni (Razza padrona, Feltrinelli 1974: storia della borghesia di Stato, attraverso le enormi ricchezze parassitarie accumulate con la nazionalizzazione dell’energia elettrica, e fino a Cefis. L’espressione “razza padrona” era entrata nel linguaggio comune), era stato prima consigliere comunale a Milano (1963) e poi deputato del Psi in Parlamento (elezioni del 1968). Craxi aveva manovrato per sabotarne la rielezione e da allora data l’odio implacabile tra i due, un odio che superava le guerre interne al Psi e aveva qualcosa di fisico, qualcuno diceva che provassero ripugnanza uno per l’altro.

• Scalfari era affamato di potere. Fondò Repubblica dicendo che voleva dar voce alle classi produttrici del paese, gli imprenditori e i lavoratori, contro le classi parassitarie che, evidentemente, votavano Dc. Mistica dell’eleganza, del calzino lungo, della upper class democratica oppure, secondo l’espressione dei nemici, capofila dei radical chic, seduttore delle dame rosse che si facevano belle della loro larghezza di vedute continuando a frequentare i salotti dei padroni e andando in vacanza a Cortina e a Saint-Tropez. In ogni caso, Scalfari pensava a un giornale d’élite, che fosse comprato per secondo, senza la cronaca («niente vecchiette sotto il tram»), senza lo sport. Poche pagine, molti commenti, idee, chicche e possibilmente «cose che non hanno gli altri». Mise in circolo fin dal primo numero l’espressione “palazzo”, diventata anche questa lingua comune, per indicare l’insieme delle persone che contano. Siccome non s’intendeva affatto di quotidiani, credette che circondando di ragazzini un gruppo di grandi firme (Sandro Viola, Fausto De Luca, Bocca, Aspesi, la Mafai, Peppino Turani, Terzani) e qualche instancabile culo di pietra (Gianni Rocca) si sarebbe fatto il prodotto che diceva lui, e magari a basso costo. Politicamente si collocava in un’area sterminata che cominciava dai repubblicani e finiva con gli autonomi, cioè i lembi non clandestini del brigatismo. La sua origine di settimanalista portava però nel mondo spento dei quotidiani una propensione al retroscena, alla prospettiva, al passo lungo che i quotidianisti non avevano, un piglio diverso nelle interviste, una sapienza grafica, una cultura fotografica (anche se ancora invisibile perché all’inizio, di foto, Repubblica ne aveva davvero poche). La conoscenza dell’economia, in un mondo di professionisti, da questo punto di vista, quasi del tutto analfabeti, illuminava le informazioni di una luce completamente nuova, anche se Scalfari ne sapeva forse troppo: a suo tempo la presidenza del Consiglio gli aveva bloccato una rubrica di commento sulla Borsa che teneva in televisione, perché gli operatori avevano protestato sostenendo che influenzava i corsi. Le grandi relazioni potevano garantire, e avrebbero garantito, un flusso di informazioni riservate da far invidia a un servizio segreto. Scalfari, al tavolo della riunione mattutina, faceva sentire la voce di questi suoi informatori: per esempio il presidente della Repubblica Pertini, o il presidente del Consiglio Cossiga o Forlani o Spadolini o soprattutto De Mita, Enrico Cuccia, ministri a iosa, notabili democristiani come Bisaglia o Franco Evangelisti, che cominciava sempre con un “ciao, Eugè” –, i capi dei sindacati, i capi delle industrie e, insomma, tutto il potere dispiegato che non vedeva l’ora di parlargli. Premendo un tasto del telefono, Scalfari ne faceva risuonare le voci nella stanza dove i redattori ascoltavano rapiti e in perfetto silenzio perché l’interlocutore dall’altra parte non capisse di non essere solo. La riunione, un rito su cui si è giustamente e a lungo favoleggiato, cominciava alle dieci e mezza del mattino e finiva dopo l’una. All’inizio, cappuccino e cornetto per tutti, poi analisi critica del giornale e discussione che poteva finire su qualunque argomento, molto libera, anzi, con una parola adorata da Scalfari, molto “libertina”. Usare la parola “dirigere” per quel direttore è poco. Scalfari era tra l’altro un bellissimo uomo, alto, dritto, la barba bianca, la voce suadente e certe volte addirittura cantante. I redattori, senza distinzioni di sesso o di età, ne erano, più che sedotti, soggiogati.

• Il giornale andò male i primi due anni e si stava per chiuderlo quando Moro fu rapito e le Brigate Rosse scelsero Repubblica come veicolo della loro comunicazione. La prima foto Br faceva vedere Moro prigioniero che teneva in mano Repubblica. Scalfari, profittando della contemporanea crisi di Paese sera (che agli occhi dei giovani di sinistra aveva perso ogni credibilità, essendo definito ormai con la qualifica spregiativa di “piciìsta”), imbarcò così il pubblico simpatizzante dei movimenti o comunque di sinistra, ma stufo del grigiore del Pci. Repubblica profittò poi della crisi di copie e credibilità dell’Unità e mise nel suo lettorato un’importante quota di comunisti. Infine il Corriere della Sera (siamo nel 1981) fu scoperto come propaggine della P2 e Scalfari (a cui era stata persino offerta una quota di quel giornale e l’avrebbe presa se la redazione non si fosse sollevata contro quel tipo di partnership) ci diede dentro con i valori della democrazia e la difesa delle istituzioni repubblicane, e portò a casa perciò una bella fetta di pubblico borghese, benpensante, moderato nella sostanza, e moderno nell’apparenza. Tra l’altro Repubblica, così nuova, così diversa, faceva trend ed era assai elegante averla sotto il braccio, un vero prodotto di potere e di contropotere. Alla fine del 1981, con il giornale ampiamente sopra le 200 mila copie, il problema economico era alle spalle.

• Intanto Scalfari, esercitando la sua dote migliore, cioè l’attitudine al libertinaggio, ne aveva fatto un prodotto mai visto in Italia, un giornale-opera d’arte. La cultura al centro, bloccata su due pagine (il famoso “paginone” di Rosellina Balbi), il fatto del giorno, fosse di Interni, Esteri o Spettacoli, piazzato in due-tre per dare luce a tutto il giornale, la 5 come pagina di snodo tra l’avvio e la zona di riposo successiva, la 6 per i commenti con la vignetta di Forattini al centro (aveva già fatto a Paese sera il Fanfani in forma di tappo, ma fece a Repubblica lo scandaloso Berlinguer in pantofole). Scalfari capì presto che non si poteva sfuggire ai fatti, che la cronaca e lo sport ci volevano, che tanto valeva puntare a essere non il secondo giornale, ma il primo. E quindi: reclutamento di grandi firme, soprattutto di quelle che fuggivano dal Corriere piduista. Dopo Pansa, che era venuto prima del sequestro Moro, Ronchey, Cavallari, Biagi, Arbasino (invano corteggiò Stille, che accoglieva in redazione esponendo cartelli di benvenuto). Intanto Repubblica aveva imposto un nuovo modo di titolare, un nuovo modo di raccontare lo sport (grazie al lavoro di Mario Sconcerti che fece venire Brera, Gianni Clerici e Mario Fossati, e inventò Mura e la Audisio), un nuovo modo di porsi di fronte alla politica, che imparò presto che Scalfari andava trattato non come un giornalista qualunque da irreggimentare, ma come un capo-partito, con cui si doveva scendere a patti. Scalfari lo sapeva, era quello che voleva, e faceva politica dalla mattina alla sera, cioè pilotava con sicurezza il giornale in un mare che era legittimo chiamare “aperto”, cioè non soggiogato meschinamente alle segreterie dei partiti, per niente vincolato ai piccoli cabotaggi dei capibastone con cui si facevano e si fanno i conti tutti i giorni. È memorabile, quanto alla forma, la sua pretesa che il giornale fosse bello, le pagine armoniose, i titoli come versi, le notizie vicine coerenti una con l’altra. E, quanto alla sostanza, che i problemi venissero legati ai fatti e i fatti avvinti a un personaggio. Molte volte, ma davvero molte, lo si è visto buttare via la pubblicità, con gran sgomento della Manzoni che gliela vendeva, e giustificarsi con queste quattro parole: «Mi lorda il giornale».

• Nel 1986, quando Repubblica cominciò ad allegare fascicoli creando così un nuovo mercato (di fascicoli in edicola, a quel tempo, non c’era neanche l’ombra), superò il Corriere e divenne finalmente il primo quotidiano. Al Corriere, che fece uscire Sette il 12 settembre 1987, rispose col Venerdì, mandato in edicola il 30 ottobre. Si ragionava ormai in termini di centinaia di migliaia di copie, di miliardi e miliardi di fatturato pubblicitario e di giornali che potevano pesare anche un chilo. Al di là di tutto, la spiegazione del successo di Repubblica era semplice: il giornale non aveva padroni, nel senso che i due azionisti (Mondadori e l’Espresso) erano editori, non avevano da riscuotere o da pagare pedaggi particolari alla classe politica in altri settori dell’economia ed erano soggiogati anche loro dalla personalità dell’uomo, al cui volere e potere si inchinavano sempre. Scalfari aggiungeva volentieri che una delle ragioni della forza di quell’impresa stava nelle sue dimensioni contenute, un fortino munitissimo e inespugnabile dalle corazzate che incrociavano al largo (cioè la grande industria) perché non aveva porte che ne consentissero l’ingresso.

• Nella battaglia tra Berlusconi e De Benedetti (finita nel 1991), si schierò fin dal primo istante con De Benedetti. Partecipava con gioia da tifoso alla sua incetta di Mondadori privilegiate, e nominava Luca Formenton con quella certa piega delle labbra che designava i portatori (spiritualmente parlando) di calzini corti. Dopo il lodo Ciarrapico, vendette anche lui il suo dieci per cento e incassò una cifra mai accertata, ma che la voce comune indica in cento miliardi di lire. L’ultimo giorno radunò la redazione e spiegò che la metafora del fortino doveva considerarsi sbagliata. Disse proprio: «Mi sono sbagliato». Non di fortino si doveva parlare, ma di capanna. Una capanna circondata da grattacieli, che lo sviluppo della città avrebbe inevitabilmente spazzato via. Vendere era stato perciò un atto di prudenza e saggezza, che garantiva per il futuro la stessa libertà di cui il giornale aveva goduto in passato. La redazione accolse il discorso con un silenzio assoluto e Scalfari, alzandosi in piedi e stirandosi leggermente i fianchi, chiese sottovoce al fido Gianni Rocca: «Come mai non applaudono?» • Ha abbandonato la direzione di Repubblica il 5 maggio 1996 (gli è subentrato Ezio Mauro), voci immediatamente successive di suoi tentativi di reimpadronirsi del giornale o di fondarne un altro sono state seccamente smentite (ma Antonio Polito, sul Corriere di stamattina, racconta che Scalfari nel ’91 convocò lui e Mauro Bene a Velletri per discutere di un nuovo quotidiano da fondare se Berlusconi fosse riuscito a impadronirsi di Repubblica) • Scriveva per Repubblica un lungo editoriale ogni domenica. Umberto Eco aveva accettato di cedergli la metà del suo spazio sull’Espresso: tenevano la rubrica in ultima pagina una settimana per uno (quella di Scalfari si chiamava “Il vetro soffiato”) • Ha pubblicato libri di riflessioni, meditazioni o filosofia che hanno avuto un esito, in termini di vendite e di accoglienza critica, incerto. Fece rumore il rifiuto da parte di Roberto Calasso, editore della prestigiosa casa editrice Adelphi, di stampare il suo Incontro con Io, uscito poi per Rizzoli nel 1994. Sua autobiografia: L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi 2008).

• Ha raccontato la sua giovinezza in La sera andavamo in via Veneto (Mondadori, 1986): l’amicizia adolescenziale con Calvino, che fu suo compagno di scuola nel liceo Cassini di Sanremo, il padre Pietro, nativo di Vibo Valentia e direttore del casinò di Sanremo, dove Scalfari approdò quattordicenne, l’iscrizione alla facolta romana di Legge, l’adesione al fascismo (Ajello: «collaborando ai giornali di regime, il mezzo-sangue calabrese mostra d’aver preso a tal punto sul serio l’ideologia vigente, e il dovere di servirla con rigore ideale, da meritarsi l’espulsione dal Pnf, sigla che designa ormai un establishment frollato»), poi, caduto il fascismo e finita la guerra, al liberalesimo. Assunto nel 1947 all’ufficio esteri della Banca Nazionale del Lavoro (benché non abbia troppa dimestichezza con le lingue straniere: francese quasi maccheronico, niente inglese), entra poi nel gruppo di intellettuali che dà vita al Mondo di Pannunzio e che frequentava il caffè Rosati e via Veneto. Trasferito a Milano nel 1950, conosce Tino e Mattioli e la cerchia di intellettuali meneghini che la domenica pomeriggio si riunisce a discutere nello studio dell’avvocato Mario Paggi, ex dirigente del Partito d’Azione. Da collaboratore di giornali, ne divenne fondatore facendo nascere nel 1955, insieme con Arrigo Benedetti, l’Espresso, di cui poi sarà direttore fino all’inizio dell’avventura politica con il Psi.

• Il 6 luglio 2007 ha smesso di tenere la rubrica di corrispondenza con i lettori del Venerdì.

• Vedovo di Simonetta De Benedetti (1921-2006), unica figlia del Giulio De Benedetti che fu direttore della Stampa (per lei erano le seconde nozze), ha regolarizzato con il matrimonio il 7 luglio 2008 la sua trentennale relazione con Serena Rossetti. La coppia è poi apparsa a Cortina un mese dopo le nozze per un dibattito tra Scalfari e Sandro Bondi, e si è fatta finalmente fotografare.

• Due figlie: la fotografa Enrica (Roma 23 aprile 1955), titolare dell’agenzia Agf, la giornalista Mediaset Donata (Roma 9 giugno 1960).

Giorgio Dell’Arti

FONTE.