Gli italiani non sono un popolo ribelle. Più che altro, preferiscono adeguarsi alle circostanze invece di dar vita a rivoluzioni o sommosse. Di base, restano levantini ed opportunisti quanto basta per aver subìto, nel corso dei secoli, le vicissitudini connesse alle molteplici occupazioni da parte dello straniero. Non a caso da tempo immemore il familismo amorale ed il clientelismo politico ne rappresentano una caratteristica quasi ontologica. Se in democrazia gli eletti somigliano agli elettori, la rappresentanza politica non può che conformarsi a questi stessi attributi etici e sociali. Contrariamente a quanto millantato, anni addietro, dai 5 Stelle, non sono stati i politici a saccheggiare l’erario, accumulando un gigantesco debito pubblico per finanziare i privilegi della cosiddetta “casta”, bensì il coacervo di leggi, senza reale copertura finanziaria, che il Parlamento ha licenziato negli ultimi cinquant’anni!! Buona parte di queste ultime, sono state varate con finalità assistenziali per beneficiare i blocchi sociali elettoralmente vicini a chi li governava. Ora, se c’è un comune denominatore in questo stato di cose, è la modalità con la quale gli esecutivi svolgono la propria azione. Per quanto, infatti, se ne possa parlare in campagna elettorale, per distinguersi dai concorrenti, una volta a palazzo Chigi, le parole destra, sinistra e centro non comportano alcuna sostanziale modifica nell’arte del governo. Credo che nessuno sappia dire, oggi, quali siano gli elementi peculiari afferenti ai valori ideologici che coerentemente distinguono un governo di centrodestra da uno di centrosinistra. Lo Stato è rimasto pletorico ed inefficiente e la programmazione economica ha sempre avuto il sopravvento sul libero mercato di concorrenza in un Paese rimasto praticamente socialista nel fare e liberale nei presupposti. Insomma: cambia il direttore d’orchestra ma non lo spartito dei musicisti. Un dato su tutti: in Italia lo Stato conta partecipazioni in circa diecimila aziende buona parte delle quali deficitarie se non fuori mercato. Di contro la grande impresa privata viene sovvenzionata ed agevolata con ammortizzatori sociali e sgravi fiscali, nell’ottica di privatizzare gli utili e pubblicizzare le perdite. Il bilancio pubblico, è dedicato per circa l’80% a pensioni, stipendi della p.a., sanità ed interessi sul debito pubblico. Innanzi a questo stato di cose non c’è chi, nella pur variegata offerta partitica e politica, profferisca una sola parola sul regime statalista e monopolista imperante ed il conseguente sperpero del denaro dei contribuenti, almeno di quelli (non molti, per la verità) che pagano le tasse. Insomma, salvo che sui problemi che fanno audience televisiva come immigrazione, sussidi e pensioni, accorgimenti marginali su scuola e trasporti, questi o quelli pari sono. Con il suo clamore, la polemica astiosa e spesso personalizzata copre il vuoto degli argomenti che riguardano il modello di Stato e di economia ed il complesso di regole capaci di distinguere statalismo da libera impresa e mercato di concorrenza. Ne consegue che l’impronta rimanga sostanzialmente la stessa mentre a Roma continua a perpetrarsi quel gioco dell’oca che chiamano “politica”. A chi gli chiedeva quale fosse lo stato dell’arte del governo in Cina, Mao Tsê-tung soleva rispondere, seraficamente: “grande è la confusione sotto il cielo”.

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