DIETRO QUEL SACELLO di Vincenzo D’Anna*
Vorrei ricordare, prima di ogni altra cosa, nella ricorrenza del “4 Novembre”, la fatica e la sofferenza di quei milioni di fanti che nelle trincee della Grande Guerra soffrirono patimenti inauditi. Il poeta Giuseppe Ungaretti compendiò quei patimenti con l’ermetismo del suo stile. In una delle sue poesie, scrisse infatti: “Di che reggimento siete/fratelli?/Parola tremante/nella notte/Foglia appena nata/Nell’aria spasimante/involontaria rivolta/dell’uomo presente alla sua/fragilità/Fratelli”. Perché furono proprio quelle fatiche ed il crogiolo bellico nel quale perirono più di 600mila uomini (400mila restarono feriti e mutilati!) a creare, per la prima volta, un amalgama sociale ed umano tra gli italiani di ogni regione, dando corpo, appunto, alla parola “fratellanza”. Una nazione unita da un risorgimento che aveva illuso circa il fatto che, una volta creata l’Italia, si sarebbero poi fatti anche gli italiani. La moderna storiografia, depurata delle idee partigiane dei vincitori, ha rivelato che quel processo fu un atto di forza più che un anelito di popolo in favore dell’unificazione. Quel che si unisce con le armi crea unioni forzose tra etnie, culture, esigenze, tradizioni e mentalità che per secoli sono cresciute separate, distinte e distanti tra di loro. Se ancora oggi la questione meridionale, il divario tra nord e sud, continua ad esistere ed a dividere il Belpaese lo si deve proprio a quel vizio d’origine mai veramente del tutto cancellato. Fu quel conflitto, se vogliamo, l’unico momento iniziale di un processo unitario di popolo, che chiamò alle armi, dalle Alpi alla Sicilia, cittadini di un Paese che rivendicava la redenzione di vasti territori che aspiravano a sventolare il “tricolore” sia per sottrarsi al dominio di un impero straniero (impero austro ungarico), sia per sintonia con le etnie indigene dei territori della Penisola (lingua, cultura e sentimento nazionale). Un afflato, un identico senso di appartenenza, un obiettivo largamente sentito, che non si ripeterà mai più. E tuttavia venne il dopoguerra e la storia ci regalò quella che Gabriele D’Annunzio chiamò “Vittoria Mutilata”, espressione successivamente adottata dai nazionalisti per denunciare gli scarsi riconoscimenti territoriali che si riteneva spettassero al nostro Paese dopo la sanguinosa vittoria. Così le nostre strade tornarono ad assistere all’aspra contesa tra liberali e socialisti massimalisti intorno alla legittimità della proprietà privata e della tipologia di Stato da adottare. Ma lo scontro e l’abbandono dei reduci al loro destino da parte dei governi moderati di Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti e Giovanni Giolitti, sfociati poi nel Fascismo, non cancellò né l’amor di patria né l’orgoglio nazionale per il successo ottenuto al fronte. Oggi queste pagine di afflato e di eroi, dei giovani della classe 1899, richiamati per far da argine sul Piave all’avanzata degli austriaci, dopo la rotta di Caporetto, sono pagine ingiallite dal tempo edace e dimenticate dalle generazioni moderne che non le studiano più neanche a scuola. Nel marasma dell’incultura dominante e dell’ignoranza trionfante, indotta della società tecnologica e digitale che della Storia patria non sa cosa farne, resta qualche manifesto celebrativo e le sempre più rare celebrazioni intorno ai monumenti ai caduti seppur presenti in ogni angolo della nazione. Qualche tuttologo ha scritto sui social che la Madre del Milite ignoto avrebbe preferito il figlio vivo al posto di un soldato morto e sconosciuto. Una bestialità, immemore ed ingrata oltre che fuori dal contesto storico, frutto di quell’arrendevolezza e di quell’egoismo degli italiani che innalzano la bandiera del pacifismo demagogico quasi che taluni valori di difesa dei diritti dei popoli, della sovranità nazionale e della libertà contro la tirannia potessero essere ignorati e cancellati in favore del quieto vivere e del sonno delle coscienze, quelle cose che rendono forti i tiranni e legittime le ingiustizie. Che nazione sarebbe quella che si erge in piedi solo durante l’inno nazionale eseguito nel corsi delle partite della nazionale, che si identifica con la quotidianità della vita agiata senza valori e senza idealità? Una vita che consumi il tempo nelle quotidianità confusa con l’esistenza! Maria Bergamas, la vedova di guerra, che fu chiamata a scegliere, ad Aquileia, tra undici bare di ignoti caduti, quelle del milite sconosciuto, lo fece in nome delle tante madri e spose, dei figli e dei congiunti di coloro che avevano dato la vita per la Patria e per riunire i “fratelli separati”. Il Sud accolse, pur con la sua miseria, le popolazioni sfollate dal teatro di guerra e non ci furono più odi ne’ distinguo in quel tempo, ma un unico popolo solidale. Innanzi al sacello del milite ignoto si inchinarono e continueranno a farlo intere generazioni. La parte migliore del nostro popolo.
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