Debito

di Gianni Trovati

Il Sole 24 Ore

Il «pragmatismo» che obbliga a intervenire contro l’inflazione energetica insieme alla «prudenza» che impone di non esagerare con il deficit sono tornate ieri a delineare l’illustrazione del programma di bilancio svolta all’Eurogruppo dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che aveva messo nero su bianco le due parole d’ordine nell’introduzione alla Nadef aggiornata insieme all’«ambizione». Una linea, quella portata avanti dal titolare dei conti in tandem con la premier Meloni, lontana dagli scostamenti «da almeno 30 miliardi» chiesti a ripetizione dal segretario della Lega Matteo Salvini prima e durante la campagna elettorale. Inevitabilmente lontana.Sono i numeri a ingabbiare la linea di un governo che ha bisogno di accreditarsi con i partner comunitari e i mercati per tenere il più possibile sotto controllo una variabile tornata centrale: la spesa per gli interessi sui titoli di Stato.L’epoca degli scostamenti a ripetizione che hanno cadenzato la crisi pandemica durante il governo Conte-2 è finita insieme ai costi stracciati di un debito che nelle emissioni nette è stato peraltro coperto dagli acquisti dell’Eurosistema, e ora non lo sarà più. La nuova Nadef parla sul punto un linguaggio chiarissimo. Quest’anno l’Italia spenderà per gli interessi circa 77,2 miliardi di euro, con un salto del 22,8% rispetto ai 62,9 miliardi dello scorso anno. La rapidità del cambio di scenario è misurata dal confronto con il Def di aprile, che per quest’anno aveva ipotizzato una spesa da 65,9 miliardi, cioè 11,3 miliardi (6 decimali di Pil) in meno di quanto calcolato ora. Per il 2022-25 la differenza fra la spesa messa in conto ad aprile e quella aggiornata la scorsa settimana vola a 76,9 miliardi di euro. Ma la corsa è continua: nelle cinque settimane che separano la Nadef tendenziale presentata dal governo Draghi il 27 settembre da quella programmatica esaminata dall’esecutivo Meloni il 4 novembre il contatore della spesa per interessi è salito di circa un miliardo e mezzo sul 2022, e di 13,2 miliardi sul quadriennio. E quest’ultima cifra rappresenta un’approssimazione del costo aggiuntivo dello scostamento che Camera e Senato sono chiamati ad autorizzare nei prossimi giorni. In un quadro nel quale i costi sono spinti nell’immediato dalle cedole dei BTp indicizzati all’inflazione, mentre nei prossimi anni pesa progressivamente di più l’aumento del deficit.

A modificare i numeri non è il cambio di governo ma di scenario; dominato ora da una politica monetaria restrittiva che nel tentativo di spegnere l’incendio inflazionistico alza i tassi d’interesse e abbandona gli acquisti comunitari dei titoli di Stato nazionali.

La prima conseguenza pratica è che ora il Tesoro dovrà andare a cercarsi sui mercati gli acquirenti per le emissioni nette dei nuovi BTp. Questo ritorno in campo aperto dopo la lunga fase giocata nel recinto protetto degli acquisti dell’Eurosistema era previsto già per il 2022, ma l’inflazione che ha gonfiato le entrate fiscali senza fermare la crescita nei primi nove messi dell’anno ha permesso di evitarlo.

Nei calcoli più aggiornati dell’Ufficio parlamentare di bilancio le emissioni nette, quelle che cioè servono a finanziare il fabbisogno e non a sostituire titoli in scadenza, si fermano quest’anno a 37 miliardi di euro, coperti al 100% dalle operazioni Bce sul mercato secondario. Per il 2023 il dato punta invece a quota 63 miliardi, mentre scendono a zero gli acquisti dell’Eurosistema che saranno limitati al reinvestimento del capitale rimborsato sui titoli in scadenza: il tutto, per di più, in un anno che sempre secondo i dati dell’Upb vede scadenze per 406 miliardi, il 10% in più dei 369 miliardi in scadenza quest’anno (nel 2021 erano stati 387 miliardi).

È l’incrocio di questi numeri ad animare il richiamo insistito di Giorgetti a una politica economica «prudente» e «sostenibile». Perché già oggi si prevede per il 2025 una spesa per interessi a 88,2 miliardi di euro, cioè sopra il record degli 86,7 miliardi raggiunto nel 2012 mentre il governo Monti provava a placare uno spread schizzato fino al picco dei 536 punti. Oggi il peso sul Pil è ovviamente inferiore, al 4,1% contro il 5,5% di dieci anni fa; ma si attesta 1,1 punti sopra il 3% delineato dal Def di aprile. Con un’accelerata che costringe a tenere le mani ben salde sul volante

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