Agcom, inefficienza e monopoli: favori a B.&Sky e niente sanzioni
12 NOVEMBRE 2022
Quando nacque, nel 1997, l’Autorità per le comunicazioni, c’era la speranza che finalmente potesse regolare e sorvegliare gli abusi che il sistema misto dell’emittenza portava in sé, a causa del condono del 1990 meglio noto come legge Mammì. Una legge fortemente voluta da Craxi e dalla maggioranza andreottiana della Dc (per contrastarla, Mattarella si dimise dal governo) che regalava il monopolio dell’etere privato a un solo imprenditore molto amico di Craxi. L’Authority però nacque male e visse peggio. Nacque male perché l’Ulivo la volle a espressione parlamentare, con i membri eletti dalle Camere e il presidente nominato dal premier (d’intesa con il ministro dell’Economia): il modo migliore per paralizzarne l’azione rendendone risibile l’appellativo di “indipendente”. Così in questo organismo di controllo sono finiti nel tempo nomi scelti da Berlusconi o dai leader avversi (magari con passaggio diretto dal Parlamento: Giacomelli e Capitanio ne sono l’ultimo bruttissimo esempio) e i suoi equilibri si son costruiti di volta in volta a seconda delle maggioranze elettorali. Con queste premesse l’Authority ha fatto poco e male il lavoro per il quale era stata insediata, a cominciare dalla prima micidiale presidenza di Cheli che mai intervenne né a temperare gli abusi di posizione dominante di Mediaset in pubblicità e men che meno a far rispettare il parere della Corte che imponeva l’invio di Rete4 sul satellite per ovviare all’assetto incostituzionale del sistema informativo. Un ente, purtroppo, rimasto lì a sonnecchiare pur di fronte a un pluralismo massacrato dalla potenza di fuoco di un’azienda politicizzata fin dalla nascita, come la Rai se non peggio, un’azienda capace di diventare strumento di lotta politica in più di un’occasione secondo i desiderata del capo.Le elezioni del 25 settembre ne sono solo la conferma più recente. Lo si vede sommando tutti i dati che la stessa Agcom ci fornisce a spezzatino, con un monitoraggio alla fine inutile perché privo di conseguenze. Dal 22 luglio al 23 settembre 2022, i talk Mediaset hanno dato voce a Berlusconi per 217 minuti, di gran lunga il maggior tempo di parola in assoluto, poi a Salvini con 206, Meloni 202, Conte 176, Renzi 148, Di Maio 124 e Tajani 103: il resto non è pervenuto. Rispetto a questo scempio del pluralismo l’Autorithy ha fatto come lo Stato nella canzone di De André: “Si costerna, s’indigna, s’impegna/ poi getta la spugna/ con gran dignità”. Infatti, a oggi, dopo avere annunciato a più riprese la violazione della par condicio da parte delle reti private (e anche di quelle pubbliche) durante la campagna elettorale; dopo avere rimarcato la mancata osservazione delle imposizioni di riequilibrio; dopo aver comunicato di voler comminare sanzioni per le gravi scorrettezze, nonostante sia trascorso un mese e mezzo, l’Autorità per le Comunicazioni resta ancora muta (quasi un paradosso!): di sanzioni infatti (tra l’altro ancor più inefficaci perché oramai a babbo morto, a danno fatto e senza possibilità di porvi rimedio) nemmeno l’ombra.
Però, udite, la stessa ci fa sapere di avere concluso l’accertamento sul Sistema integrato delle comunicazioni (Sic), il mostro costruito da Gasparri per permettere a Mediaset di tenersi il monopolio, che nell’anno 2020 si è attestato sui 16,5 miliardi di euro; che tra le fonti di ricavo considerate, la pubblicità rappresenta il 53,6%, quelle della vendita diretta di prodotti e servizi il 33,7% e quelle riferibili ai fondi pubblici il 12,6%; che infine Comcast/Sky si colloca in prima posizione, con un’incidenza sul Sic del 16,1%, la Rai al secondo col 14,4% e il gruppo Fininvest al terzo con una quota del 10,3%. Vuoi vedere che adesso il problema della tv italiana, come il traffico a Palermo, è Sky?
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