IL CARCERE DI IVREA PEGGIO DI QUELLO DI SANTA MARIA L’inchiesta per tortura che vede indagati 45 tra agenti della polizia penitenziaria, educatori, medici interni al penitenziario e vertici – amministrativi e militari – dell’istituto.

Quando sono entrato in cella ho visto che faceva braccio di ferro con un agente che vantava di avere rapporti con il clan dei Casalesi e per questo era temuto.

Uno striscione e un manifesto contro la Polizia Penitenziaria, a seguito delle notizie sulle violenze ai danni dei detenuti avvenute nel carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020. Sul manifesto, affisso su una delle colonne del porticato di via Roma, tra l’altro, si legge: “Non lasciamo soli i detenuti…isoliamo le guardie” ed è firmato con una frase che sembra sarda: “kontra is presonis mishunu est solu”. “Le guardie carcerarie, chiamate anche ‘secondini’, – esordisce il testo del manifesto – sono uomini e donne comuni che abitano in mezzo a noi. Ciò che li contraddistingue è la scelta che hanno fatto nella vita: la scelta di chiudere a chiave altre persone per uno stipendio mensile. Ogni tanto viene fuori la notizia che queste guardie pestano e torturano i detenuti – continua il manifesto – il caso di Santa Maria Capua Vetere è solo uno dei pochi… parlano di mele marce… ad essere marcio è il sistema carcerario…la divisa che indossano gli conferisce il potere di reprimere… per strada, nel palazzo di casa al bar… isoliamo le guardie”. Sullo striscione, invece, trovato nel quartiere San Michele, si legge: “Da S. Maria Capua Vetere a Uta. Non esistono mele marce. Il carcere è una tortura”. Cagliari, 4 luglio 2021.
ANSA

«Poco dopo essere entrato in carcere avevo tentato il suicidio legando un lenzuolo prima alle sbarre e poi al collo. I primi agenti accorsi mi dissero: “Questo infame non si sa fare la galera”. Mi portarono allora in una stanza tutta a vetri in cui non c’era né un letto né un materasso. Quel giorno entrarono 12 agenti, dieci di loro indossavano i guanti neri, uno per uno. Sono rimasto completamente nudo. Mi colpivano anche con calci e pugni e con un manganello ai testicoli dove ero stato operato in passato. Quando ho chiesto di essere portato in infermeria un assistente con accento romano mi ha detto: “Se parli col comandante o con il medico ti ammazzo”. Poi il trasferimento nella cella licia: “Mi hanno buttato in quello stanzone come un sacco di patate. C’era solo un letto piantato per terra e un materasso di spugna sporco. Mi hanno concesso di mettere le mutande, solo quelle.

Non potevo parlare col mio avvocato, non mi era consentito comunicare con gli altri detenuti, mi era negata l’ora d’aria”. L’inferno nel carcere di Ivrea del detenuto Vincenzo Calcagnile è agli atti dell’inchiesta per tortura che vede indagati 45 tra agenti della polizia penitenziaria, educatori, medici interni al penitenziario e vertici – amministrativi e militari – dell’istituto. Meglio: ex vertici. Il Dap li ha rimossi nelle scorse ore dall’incarico nominando due nuovi dirigenti. Contestualmente il gip di Ivrea ha disposto l’interdizione per otto agenti travolti dalla bufera giudiziaria accusati di essere una squadra di picchiatori libera di fare il bello e – soprattutto – il cattivo tempo tra le mura del penitenziario. Non potranno rimettere piede al lavoro per un anno in attesa che l’inchiesta faccia il suo corso. Il giudice descrive il trattamento riservato al detenuto come «connotato da inaudita disumanità che ha causato una altrettanto inaudita lesione della sua dignità di persona». In un mese quest’uomo ha perso 18 chili. «Mi somministravano un ansiolitico contro la mia volontà. A seconda di quanto insistevo nel chiedere di parlare col mio avvocato mi costringevano a bere dalle 30 alle 50 gocce. Mi hanno ridotto come un morto vivente, ho paura della mia ombra, ho il terrore anche di sognare. L’unico mezzo per comunicare con l’esterno erano i telegrammi ma mi dicevano sempre: “Hai rotto il cazzo, ora basta”». Una notte arrivò anche una crisi di panico: «Venne un assistente siciliano e mi disse: “Non rompere la minchia e dormi”». Basterebbe questo per raccontare cosa – per i pm – accadeva in questo carcere di provincia al centro di 6 inchieste negli ultimi 5 anni tutte avocate dal procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo una volta preso atto che avevano imboccato la strada dell’archiviazione. Quarantacinque indagati in un filone, 25 in un altro ma in entrambi c’è più di un elemento che convoglia i fatti in un unico imbuto di orrore. Le botte, certo e una presunta squadretta in divisa blu – con nomignoli del tenore di Shumacher, Harley Davidson, Sansone e Kamikaze – che lo stesso ex comandante dei secondini, Michele Pitti, sentito dai pm il 22 novembre scorso, racconta cosi: «Nel tempo ho capito che c’era un gruppo di colleghi più anziani che aveva maturato questo modo di lavorare, probabilmente perfezionato durante il periodo in cui erano senza comandante e sono stati lasciati un po’ a se stessi». Un metodo «di contro segnalazione» dunque, secondo il quale – dice ancora l’ex capo delle guardie penitenziarie – «taluni detenuti malmenati o percossi variamente dai colleghi venivano denunciati per fatti commessi in danno del personale e nessun credito veniva dato alle loro denunce». Colleghi temuti da tutti «anche dagli altri agenti che non so se per minacce implicite o esplicite – dice ancora Pitti – tendono a non riferire le ose come stanno neppure quando li interrogo». Reticenti anche i medici del penitenziario: «Non riferiscono mai sulle modalità con cui possono essere state prodotte certe lesioni ai detenuti e addirittura in alcuni casi non si trovano i referti e le cartelle”. Una cosa è certa per tutti: “Certo erano anomali i plurimi infortuni accidentali

C’è ancora – e rileva nell’economia delle contestazioni agli indagati – la storia di un detenuto marocchino convocato in un ufficio per comunicargli “il trasferimento ad altro istituto”. Si legge agli atti: “Riceveva un colpo fortissimo alla spalla, lo colpivano al ginocchio e ancora calci pugni e manganellate a cui lui non opponeva resistenza. Si metteva n posizione fetale per proteggersi e in quel momento l’assistente capo lo strangolava alla gola dicendogli: Tu sei un boss ah ah abbiamo un boss”. Ancora a un detenuto italiano è stato spezzato un braccio: “Lo hanno aggredito in quattro – ha confermato un vicino di cella – poi lo hanno fatto sedere su una sedia-. Lui piangeva e sveniva. Quando sono entrato in cella ho visto che faceva braccio di ferro con un agente che vantava di avere rapporti con il clan dei Casalesi e per questo era temuto. Ho sentito crac”. Gli indagati dichiararono “che era scivolato perché c’era dell’acqua per terra”.

FONTE: di Giuseppe Legato La Stampa