Ennio Morricone, l’intervista inedita: «Una bocciatura mi cambiò la vita. Le tre canzoni italiane più belle, secondo me»

di Walter Veltroni

I ricordi del grande compositore, scomparso nel 2020 «Il primo western? Leone pensava che avessi copiato». «Lo scontro con Zeffirelli? Voleva inserire un pezzo di un americano. Io gli dissi: “La musica del film è mia, non ci sto”. Diedi indietro i soldi»

Ennio Morricone, l’intervista inedita: «Una bocciatura mi cambiò la vita. Le tre canzoni italiane più belle, secondo me»

Otto anni fa trascorsi ore con Ennio Morricone. Dovevamo fare una conversazione per un programma di Rai Tre sulla storia della Rca. Fu una giornata bellissima. L’atmosfera di quelle ore, nella sua casa, l’ho ritrovata nel meraviglioso film che Giuseppe Tornatore, suo amico vero, gli ha dedicato con tanto amore. L’amore che Ennio meritava. Le righe che seguono sono la fedele trascrizione delle parole di Ennio, uno dei geni della cultura italiana.

«Ero ancora studente di composizione con Goffredo Petrassi e mi vennero delle proposte di fare arrangiamenti. Scoprii che Tommasini, un contrabbassista dell’orchestra della Rai che conosceva mio padre, aveva cominciato a dire in giro che ero bravissimo. Sapeva che studiavo da Petrassi e quindi secondo lui ero, per definizione, un bravissimo arrangiatore, quindi un bravo musicista. La Rca stava andando male, mi chiamò per fare gli arrangiamenti delle due facciate di un 45 giri. Un pezzo era di Gianni Meccia “Il barattolo”. Presi quattro elementi: la chitarra, il contrabbasso, la batteria, l’organo Hammond. «Rotola, rotola, rotola», erano le parole di Gianni. Mi venne l’idea di mettere un barattolo che rotolava. Fummo sfortunatissimi: feci preparare una specie di piano inclinato con dei chiodi e misi un barattolo che scendeva. Ma non faceva il rumore che serviva, per niente. Ne feci fare un’altra, sempre dall’Rca, con gli stessi chiodi, ma con dei sassi. Niente, allora mi decisi, presi il barattolo col microfono e lo battei per terra: ton, ton, ton, ton, ton, rallentando, diminuendo il ritmo quando il barattolo si fermava. Il disco risollevò le sorti della Rca»

La prima volta che entrasti a via Tiburtina?
«Sì mi ricordo benissimo quando andai a parlare con Micocci che mi offrì di lavorare per l’Rca offrendomi il due per cento sulla vendita dei dischi. Ovviamente accettai, in quel periodo mi ero appena sposato e non ero economicamente tranquillo. Sobbalzavo ad ogni telefonata che squillava a casa perché speravo sempre che mi proponessero di fare arrangiamenti. Intanto, al conservatorio, lavoravo con Petrassi, scrivevo per Petrassi, per la sua classe di alta composizione e quindi vivevo una doppia dimensione. Avevo suonato con la tromba in un’orchestra, quindi capivo cosa era la musica leggera, ma dalla formazione con Petrassi avevo tratto l’idea dell’autonomia della composizione, non mi piaceva che solo la melodia, bella o meno bella, comandasse. L’arrangiamento doveva avere una propria identità e forza».

Quindi con «Il barattolo» cominciasti ad andare bene. Quanto vendette?
«Non lo so, non l’ho mai saputo, ho ricevuto delle royalties… Invece fu incredibile quando scrissi l’arrangiamento per Paul Anka che andò a Sanremo e riuscì a vendere un milione e mezzo di copie del 45 giri».

Ricordi l’introduzione di «Ogni volta»?
«Se vuoi te la canto. Feci una brevissima introduzione, in genere la faccio lunga, perché è anche una maniera di esporre le idee che venivano all’interno degli arrangiamenti. No, questa era brevissima, fulminante. E lui partiva. Semplicissima, ma breve e anche molto dinamica, piena di energia».

C’è un’altra di queste introduzioni che tu ricordi con particolare nostalgia? Non so «Abbronzatissima»…
«“Abbronzatissima” di Vianello. Io già queste sillabe così le avevo già scritte per lui che doveva cantarle in uno spettacolo di Luciano Salce. Composi un pezzo dove aveva questo salto di ottava con la voce e lui lo fece benissimo in teatro. Poi, influenzato da questo, lui scrisse “Abbronzatissima”. Volevo che ognuno avesse una propria, originale, collocazione stilistica. Volevo sempre far notare che io ero un compositore. Ricordo un arrangiamento per “Voce ‘E Notte” di Miranda Martino. Cominciava e continuava con l’idea dell’adagio del Chiaro di luna di Beethoven. Poi lei partiva con la melodia, però l’accompagnamento beethoveniano rimaneva. Facendo così questo mestiere, questa professione un po’ bassa rispetto alle mie speranze di studente di composizione, pensavo di riscattarmi un po’. Aver studiato composizione con Petrassi e poi essersi ritrovati a fare arrangiamenti… Salce mi chiamò proprio perché facevo gli arrangiamenti per l’Rca. La mia fama di arrangiatore prese il sopravvento su quella del compositore di musica classica. Quindi io ero snobbato un po’ sia da quelli della musica classica, che dagli arrangiatori tout court. Ero poco per i primi e troppo per i secondi».

E invece ha funzionato proprio questo.
«Ha funzionato, sì».

Morandi?
«Gianni era ancora piccolino, aveva sedici anni. Fu affidato a me e io ho cominciato gli arrangiamenti per lui con molta timidezza, non solo perché avevo un ragazzino che bisognava portare al successo, ma perché dovevo tornare indietro sulle mie presunzioni e convergere sulla prevalenza della ritmica. Una volta fui chiamato nell’ufficio di Melis, il capo Rca, che aveva sul tavolo una pila di dischi americani. Me ne fece sentire alcuni dove c’erano botti con la batteria, quasi tutti erano così».

Morandi ti dava del lei?
«Non me lo ricordo, forse sì o forse no, non lo so. Aveva due produttori, Bruno Zambrini e Franco Migliacci. Era un ragazzino e stava sempre zitto, i produttori dicevano quello che si doveva fare. “Allora mi raccomando, la ritmica”, pure loro. Tenevo conto di quello che dicevano. Però i primi tempi furono dei prodotti molto semplici, messi anche in un film di Fizzarotti dove c’era proprio Morandi come protagonista. Pezzi tipo “Go-kart Twist”, non tra le mie composizioni più brillanti, poi “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” altro arrangiamento semplice. Poi cominciarono i brani con l’orchestra, che diedero maggiore rilievo a Morandi sul mercato. L’ultimo arrangiamento che ho fatto per lui era “C’era un ragazzo che couna me me amava i Beatles e i Rolling Stones”. Testo, musica e melodia bellissimi. Fu l’ultimo arrangiamento per l’Rca, poi andai via».

«Sapore di sale» come la ricordi?
«Scrissi un arrangiamento molto semplice, anche banale, ma rispondente al tono del pezzo e al clima di quegli anni. Fece effetto e forse aiutò il successo meritato di Gino Paoli. Uno degli arrangiamenti migliori in Rca fu per Jimmy Fontana. Il pezzo, famosissimo, era “Il Mondo”. Feci un esperimento: scrissi la parte iniziale dell’arrangiamento in una tonalità diversa da quella del pezzo. Il brano aveva un’espansione sonora importante che aiutò il suo successo».

Le canzoni italiane più belle?
«Mi piace molto quella di Endrigo “Io che amo solo te” e quella di Paoli “Senza fine”: due pezzi molto importanti. Non posso dimenticare certamente il grande successo di Modugno a Sanremo col suo “Volare”. Quando ascoltai quel pezzo, non a Sanremo, a casa, mi sembrò che si fosse aperta una porta importantissima nel mondo della canzone».

Quando cominci a scrivere film?
«Il primo fu nel 1961, “Il Federale” di Luciano Salce. I primi anni feci soltanto film suoi. Il secondo era “La voglia matta”, il debutto di Catherine Spaak. Il lavoro nel cinema è divertente, ma difficile. Molti registi, non Giuseppe Tornatore che ha una vasta conoscenza, mi chiedevano di scrivere musiche per i loro film, ma non avevano la cultura musicale per capire e quindi io finivo con lo scontrarmi. Perché il problema del compositore del cinema è quello di essere trino: per il pubblico, per il regista che deve capire per primo, e poi per la dignità di sé stessi: non puoi fare cose che non ti piacciono».

Poi tu incontri un tuo vecchio compagno delle elementari, Sergio Leone…
«Mi chiamò perché aveva sentito le musiche di due miei film, un western italiano di Caiano e un altro spagnolo. Mi chiese di fare la colonna sonora per “Per un pugno di dollari”. Misi il fischio, il marranzano, la frusta, l’incudine e tanti altri suoni. In ‘Un pugno di dollari’ ci fu un problema quando in moviola il montatore, nel duello finale tra Volonté e Clint Eastwood, collocò un pezzo di tromba tratto da un film americano. Io dissi “Sergio, ti piace questa musica?”. “Sì, ci sta bene”. “Allora non faccio il film perché, se sulla scena madre del film, io devo rinunciare al pezzo più importante, io non lo faccio”. Sergio mi disse “Allora fa quello che ti pare, però la tromba deve suonare”. “Va bene, la tromba deve suonare”. Presi un pezzo che avevo scritto molti anni prima per la televisione, per i “Drammi marini” di O’Neill, e lo misi nel film di Sergio. Il pezzo andò bene, piacque a Leone. Lui fu soddisfatto, ma era convinto che avessi copiato. Tanti anni dopo gli dissi: “Guarda che ho preso un pezzo che avevo scritto anni prima” “Che cavolo dici!”. Sergio mi disse “Per favore, fammi ascoltare sempre i pezzi che non hai usato o che hanno scartato gli altri registi. Fammi sentire gli scarti. Perché tanto i registi non capiscono niente di musica”».

Ti capitò anche con Zeffirelli, no?
«Fu divertente. Andai in America per fare questo film e parlai con Zeffirelli. Sono stato otto giorni a scrivere perché lui tardò all’appuntamento, in albergo composi un pezzo. Quando arrivò, gli feci sentire quello che avevo scritto, gli piacque molto e ci mettemmo al montaggio. Però arrivato in moviola ad analizzare il brano, disse: “Qua ci mettiamo un pezzo di un cantante americano”. “Scusa, la musica del film è mia, non ci sto”. Vado dal produttore e dico che rinuncio. Avevo firmato il contratto e gli diedi indietro anche i soldi. La melodia che avevo scritto per quel film era il “Tema di Deborah” che Sergio Leone ha usato in “C’era una volta in America”».

Come ti venne in mente di usare lo scacciapensieri in un film western?
«Volevo strumenti non usati, non ho pensato che il film raccontasse solo l’America. Le percussioni, i suoni che sceglievo erano di tutto il mondo, perché lo scacciapensieri esiste anche in Corea, è solo un po’ più grande. Pensai di dare una caratteristica diversa, unica per quel film e adoperai strumenti che non si usavano mai. Andò bene, piacque a Sergio, la frusta, i cavalli…».

E il fischio?
«Non ricordo se l’idea del fischio fu mia o di Sergio. Forse mi suggerì “Il tema fallo fare al fischio”. Il fischiatore fu Alessandroni che fischiava benissimo. Anche in “Per qualche dollaro in più”. Abbiamo continuato su quella linea, mi sono imitato nella ricerca di quegli strumenti strani, però la musica finiva col rassomigliarsi. Per “Il buono, il brutto, il cattivo” Sergio mi disse “Continua così”. “Scusa Sergio, ma non si può andare avanti così per tutta la vita, bisogna cambiare”. Mi disse: “Fai un po’ te”. Quel film secondo me è il più bello che lui abbia fatto. Io cambiai un po’ e, insomma, la musica di quel film è al secondo posto nella classifica americana della musica da film del Novecento. Al primo c’è quella di Williams per “Guerre Stellari”».

Sei tornato a fare un film western con Tarantino.
«Sì ma non l’ho trattato come un film western, quando sentirai le musiche ti accorgerai. Non ho fatto un film western, lui non me lo ha chiesto. Mi ha raccontato questa strana cosa della diligenza sulla neve. Mentre scrivevo telefonai in America per sapere quanto durava la scena della neve, la risposta fu “da venti a quaranta minuti”. Da venti a quaranta minuti, che faccio? Ho scritto ventisei minuti di musica e quelli sono andati nel film. Quando Tarantino è venuto a Praga sembrava fosse davvero contento. Però io ero molto in ansia, come sempre, per il parere del regista, perché il regista, si sa, è volubile. So che ha messo ventisei minuti di musica. In altre sue opere ha usato anche musiche di altri film miei».

Come è stato lavorare con Pasolini in «Uccellacci e uccellini»?
«L’incontro tra Pasolini, me e Enzo Ocone che era il direttore di produzione fu in qualche maniera drammatico. Lui mi portò una lista delle musiche che avrei dovuto adoperare nel film. Io dissi “Scusi io scrivo musica, non posso fare quella degli altri, ha sbagliato a chiamare me”. Lui rispose subito: “Faccia quello che vuole”. Io ho fatto quello che volevo, però Pasolini mi disse anche “Mi devi fare un favore, mi devi mettere una citazione da un tema di Mozart”. Lui mi indicò anche la scena e con un piffero feci questa citazione. Lui ebbe poi una bellissima idea: i titoli di testa cantati, unico caso al mondo. Li fece eseguire da Domenico Modugno. Pasolini scrisse il testo, i nomi con rime collegate, io la musica. Era un arrangiamento molto vario perché, secondo quello che diceva il testo, cambiai le orchestrazioni, come per giocare. Dopo che Modugno ha cantato il mio nome come autore delle musiche ho messo persino delle risate. Poi fischietti, il soprano che fa dei gorgheggi, tutto scherzoso e divertente».

Prima ti sei commosso dicendo «compositore». Perché?
«Come fai ad essertene accorto? Sai, è un problema per me, lo è sempre stato. Come compositore ho scritto anche cose non cinematografiche, varie cantate, pezzi di orchestra, pezzi di coro, più di cento composizioni. Quindi il fatto che io sia considerato ancora un compositore esclusivamente nel cinema mi disturba un po’, perché mi è rimasto l’orgoglio che mi veniva dalla classe di Petrassi e da Petrassi stesso. Petrassi, il giorno dell’esame in Conservatorio, mentre lo accompagnavo a casa mi disse: “Non prendere nessun impegno per due anni, perché allora avrai una sorpresa che io ti procurerò. Sorpresa che non c’è stata, perché lui venne a sapere che facevo gli arrangiamenti. Forse è stato un bene: voleva mettermi in un Conservatorio ad insegnare composizione. Io poi feci il concorso per diventare direttore del Conservatorio di Sassari. Mi bocciarono, arrivai quarto. Fu la mia fortuna».

Le sconfitte nella vita ogni tanto sono benefiche…
«Vero. Comunque questa cosa di sentirmi solo compositore del cinema mi ha pesato. Invece sono anche l’altro, il compositore che voleva Petrassi. Adesso questa impressione sta scomparendo un pochino, la mia musica è eseguita, ma ancora poco, La mia commozione era anche per questo».

Invece tu sei autore di musiche da film, autore di arrangiamenti, autore di musica popolare, compositore di musica, quella che hai imparato con Petrassi. Sei la musica, tutta.
«Io ho cominciato suonando la tromba, e così ho cominciato a fare gli arrangiamenti per la radio. Poi mentre facevo gli arrangiamenti per la radio li ho fatti per la televisione. Poi dopo la televisione mi hanno chiamato per i film, poi ho cominciato, l’avevo lasciata, a scrivere la musica cosiddetta assoluta, non la scrivevo da anni. È questa la storia della mia vita».

FONTE: CORRIERE.IT