Il patto mafia-D’Alì che porta fino a Matteo Messina Denaro

IL SENATORE CONDANNATO – Tra i fondatori di FI, ex sottosegretario, oggi sconta 6 anni per concorso esterno. S’è costituito un mese prima della cattura di Messina Denaro: è un lungo legame

28 GENNAIO 2023

Leopoldo Franchetti se n’era accorto 150 anni fa (i “facinorosi della classe media”) che il nucleo forte della criminalità organizzata in Sicilia abitava i salotti della borghesia mafiosa, evocata anche dal procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, per indicare la palude delle coperture professionali e logistiche di cui ha goduto l’ex superlatitante stragista Messina Denaro: “L’ambiente trapanese – ha sottolineato il magistrato – è da sempre permeato di rapporti fra mafia e ambienti che io chiamo della borghesia mafiosa, ma lo faccio per non dare specificazione a elementi che invece riguardano particolari settori, dall’imprenditoria al mondo della sanità”.

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All’elenco va aggiunta la politica e la vicenda del senatore Antonio D’Alì, tra i fondatori di Forza Italia, sottosegretario al Viminale nel governo Berlusconi-2: se l’iter del suo processo è simile a quello del senatore Andreotti (assolto e prescritto in due gradi di giudizio), l’esito finale in Cassazione cambia con una condanna in giudicato a sei anni per concorso esterno che lo ha condotto a costituirsi nel carcere di Opera qualche settimana prima – era il 14 dicembre 2022 – della cattura di Messina Denaro, circostanza che ha indotto in molti un sillogismo: caduta la copertura politica, è caduto nella rete anche il superlatitante. A salvare processualmente il senatore nei primi due gradi di giudizio era stata la prescrizione, che aveva coperto il sostegno elettorale di Cosa Nostra trapanese nel ’94, poi cancellata dalla Cassazione, secondo cui i giudici di merito avevano “illogicamente e immotivatamente svalutato quel sostegno”. Per i giudici del nuovo appello, D’Alì “ha stretto nel 2001 (dopo una invero già ventennale disponibilità verso il sodalizio mafioso) un patto (l’ennesimo) politico/mafioso con Cosa Nostra in forza del quale il sodalizio gli ha garantito l’appoggio elettorale per essere nuovamente eletto al Senato”.Approdo prestigioso di una carriera iniziata all’ombra del feudo familiare condotto da don Ciccio Messina Denaro, padre di Matteo, quest’ultimo assunto nell’azienda di famiglia D’Alì come bracciante agricolo negli anni 80: “Figurava assunto, uscì fuori da attività investigativa… che la famiglia D’Alì pagasse i contributi”, testimoniò in aula al processo di Capaci il commissario di Castelvetrano, Matteo Bonanno, al quale la difesa di D’Alì replicò depositando un verbale di MMD di 30 anni fa in cui ammetteva di avere lavorato per quell’azienda, “ma non per Antonio D’Alì” nel tentativo di allontanare ogni ipotesi di copertura della latitanza, definita una “subdola suggestione”, dopo che il pm Rita Fulantelli in requisitoria l’aveva descritto come “il politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora (all’epoca, ndr) ricercato”. Pentiti, riscontri e testimoni (persino un sacerdote, padre Ninni Treppiedi) tracciano l’identikit di un politico a disposizione di Cosa Nostra non solo per favorirne gli affari, ma pronto anche a condizionare testimonianze nei processi, come raccontò don Treppiedi. E se sulla banca della famiglia D’Alì, in cui aveva investito propri capitali il boss Mariano Agate, aveva indagato, negli anni 80, il commissario Rino Germanà – salvatosi dai colpi di kalashnikov esplosi da un commando guidato da MMD – agli atti del processo c’è la vicenda del passaggio, attraverso una compravendita, del feudo Zangara da D’Alì al gioielliere di Castelvetrano poi pentito, Francesco Geraci; un modo, secondo l’accusa, per far arrivare i terreni dalla originaria disponibilità di Messina Denaro, al capo dei capi Totò Riina: “È provato – è scritto in una sentenza – che MMD predispose e tradusse in atto un’operazione volta a far conseguire la titolarità del fondo sito in contrada Zangara a Geraci, nonostante reale proprietario ne fosse il Riina”.

In quell’occasione il senatore ricevette 200 mila euro in assegni restituendone ai boss il corrispettivo in contanti. E se dalle carte processuali affiorano gli episodi che ne hanno determinato la condanna, dall’intervista della collega Sandra Amurri all’ex moglie Maria Antonietta Aula, emerge il profilo privato di un contesto politico borderline con Cosa Nostra ancora influente, tra il matrimonio sfarzoso di Rosalia Messina Denaro, sorella di Matteo, con Giuseppe Guttadauro, boss di Bagheria (invitati Dell’Utri e Cuffaro) e i regali inviati al proprio matrimonio con D’Alì da Francesco Messina Denaro, confermati dalle parole di padre Treppiedi: (mi, ndr) “disse che si trattava di regali di circostanza e che, anche se i Messina Denaro avevano donato un oggetto di pregio in occasione delle sue nozze, la famiglia D’Alì, in ogni caso, aveva di gran lunga beneficiato i Messina Denaro in tanti modi”. E l’intervista all’ex moglie fece infuriare D’Alì (“quella mi vuole mandare in galera”, raccontò ai giudici don Treppiedi) anche per la presenza di indicazioni sul “tesoro” del senatore, custodito, secondo la donna, all’estero: “Avrei potuto chiedere un accertamento patrimoniale per sapere dove fossero finiti i 7 miliardi incassati dalla vendita della Banca Sicula, di cui possedevo azioni, avrei potuto chiedere spiegazioni sui conti a Montecarlo e se ricordo bene in Liechtenstein, ma non l’ho fatto anche per rispetto di mio figlio”, disse nell’intervista in cui ammise di avere scoperto dai giornali che il padre di MMD era un mafioso di rango: “Antonietta cara – le rispose il senatore – non lo sai i giornalisti come sono, devono pure scrivere qualcosa. Don Ciccio era un uomo rispettato da tutti, anche dal prefetto di Milano, Amari, a cui faceva la raccolta delle olive”. Originario di Agrigento, il prefetto Domenico Amari rappresentò lo Stato nel capoluogo lombardo dal 5 gennaio 1976 al 3 gennaio 1980, per poi passare al Viminale con funzioni di ispettore generale di amministrazione. Lo stesso palazzo da cui il sottosegretario all’Interno, Antonio D’Alì, ha continuato, secondo la sentenza definitiva, a favorire Cosa Nostra, come dimostra il calvario, che si può definire senza retorica eroico, del prefetto Fulvio Sodano.

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