Sono solo canzonette*

di Vincenzo D’Anna*

Le canzoni di denuncia dei mali sociali, quelle che i francesi chiamano “engagé” ovvero impegnate, sono sempre state molto vendute ma, all’atto pratico, poco ascoltate. Nella patria del bel canto non sono mai mancati cantautori che hanno innalzato, attraverso la musica, la bandiera della contestazione, tuonando contro cose sconvenienti ed ingiuste. Pezzi diventati, in talune circostanze, autentiche icone, se non patrimonio dei partiti più protestatari. Alcuni brani si sono trovati ad identificare un idem sentire su determinate problematiche fino a diventare “parole d’ordine”. Tuttavia a poco sono serviti sul piano della concretezza se non a fungere da intrattenimento durante le varie kermesse di partito. Accantonati i vecchi e caratteristici inni, tipo “Bandiera Rossa” per la sinistra e “Bianco Fiore” per la democrazia cristiana, oppure le canzoni del Ventennio (per la destra che fu), partiti e movimenti d’opinione spontanei hanno scelto canzoni eufoniche con contenuti affini agli ideali da essi propugnati. Anche questa moda musicale, tuttavia, sembra ormai tramontata, sostituita da brani personalizzati, riferiti ai vari leader di plastica. Un corollario del marketing, autentica cifra distintiva della cosiddetta seconda repubblica. Ecco allora che refrain orecchiabili hanno identificato taluni schieramenti. Uno tra tutti, il più famoso: “Meno male che Silvio c’è” di Berlusconiana memoria. Svuotati di valori, contenuti e storia, i simulacri dei vecchi partiti hanno preferito adottare la propaganda accompagnata dalle sette note, condendo in tal guisa le riunioni di massa per ribadire la propria incisiva e preponderante presenza nel corpo sociale. Certo un segno dei tempi nuovi e del moderno modo di fare pubblicità, attraverso sia le adunate sia il capillare utilizzo dei social network, questi ultimi corroborati da una sapiente sfilza di fake news per suscitare attenzione e scandalo da parte dei frequentatori della rete. Una tattica innovativa che adeguatamente programmata e posta in essere da Gianroberto Casaleggio, guru del Movimento Cinque Stelle, è risultata determinante per l’affermazione dei grillini nella penultima competizione elettorale. Insomma una strategia innovativa che ha consentito la diffusione, in modo virale, di programmi e di propositi presso il corpo elettorale. Sistemi mutuati dal commercio, mezzi da imbonitore utilizzati per un popolo incline sempre a giustificarsi e quindi anche a credere che la classe dirigente (da scegliersi liberamente con il voto) sia peggiore di chi la elegge. Italica furbizia necessitata nei secoli per sopravvivere ai molteplici domini stranieri che hanno governato lo Stivale fino a diventare consustanziale, se non geneticamente determinata, con il comportamento di vendersi al miglior offerente. I vecchi partiti di massa avevano scuole per selezionare i propri dirigenti, li allenavano al dibattito, alla conoscenza delle basi ideologiche e storiche da cui era disceso il credo politico che orientava la militanza e l’impegno personale. Scomparse queste scuole di pensiero e la fucina attraverso la quale si preparava la futura classe dirigente, non resta altro che il messaggio patinato con il suo sottofondo musicale, la finta democrazia decisionale attraverso il web, oppure quello strano esercizio pseudo democratico chiamato “primarie “ ove chiunque vuole può ingerire nelle scelte dei partiti senza esserne mai stato partecipe. Se la massima hegeliana sul ciò che è reale è anche razionale, e viceversa, risulta vera, allora il qualunquismo ed il trasformismo hanno le loro radici profonde nell’indole degli abitanti del Belpaese. Allora tutto può essere sdoganato e creduto come novità. In questo contesto sembrare un appetibile novità che alla storica gara canora che è il Festival di Sanremo, tra gli illustri artisti ospiti, possa esserci anche il leader Ucraino Volodymyr Zelensky. Un’ipotesi, poi scongiurata, che ci ricorda che tra il sublime ed il ridicolo non c’è che un passo. Ma c’è anche da chiedersi se la politica sia diventata terra di conquista dello spettacolo o che lo spettacolo possa essere anche politicizzato. Abbiamo in passato assistito alle filippiche di cantanti famosi e miliardari in favore dei più poveri, ad elucubrazioni para politiche di chi poco o nulla capisce di quella materia. Evitiamo almeno che la politica si avvalga, estrema ratio, come strumento di novità, di quelle che sono solo canzonette.

*già parlamentare

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